Recensione, per lo Speciale Campiello 2012, di Ilaria Bonfanti
Siamo sul finire degli anni 70 in un carcere di massima sicurezza su un’isola italiana. Fuori si respira l’aria densa e pesante degli anni di piombo, un clima che avvolge a pieno anche i due protagonisti: Paolo e Luisa. Rispettivamente il padre e la moglie di due detenuti assegnati allo Speciale.
Luisa, lavoratrice dei campi, con 5 figli e un marito assassino e violento che da più di 10 anni gira le carceri italiane. Paolo, ex professore di filosofia, vedovo e con un figlio brigatista col quale fare i conti ogni secondo della sua vita.
Entrambi su una motonave, entrambi diretti su quell’isola non per piacere ma per andare a trovare i loro cari; con tutto quell’insieme di sentimenti che accompagnano una visita in carcere a qualcuno che ti ha picchiato per anni o le cui idee trovi ripugnanti e assurde. Qualcuno che hai amato o che semplicemente sei consapevole che non ha che te.
Un forte vento blocca i due visitatori sull’Isola dove li scorterà Pierfrancesco Nitti: un agente carcerario impegnato a sopravvivere in una realtà disperata, dove giorni e pensieri pesano come macigni.
Tra momenti di forte intensità emotiva e dialoghi brevi ma carichi di verità, scomode e non, questi casuali compagni d’avventura scopriranno fragilità e forze inaspettate e tesseranno un legame che li accompagnerà per sempre, dando un senso nuovo alla vita di ognuno.
Ci sono temi impegnativi, temi come quello del mondo della detenzione: una realtà tanto greve quanto delicata, temi sui quali scrivere è un’operazione temeraria che presenta alti rischi.
Ho apprezzato la decisione dell’autrice di concentrarsi, più che sui detenuti, sulle persone che si trovano a dover convivere col carcere, che vi gravitano attorno tanto da far sì che diventi parte del loro quotidiano. L’ho trovata una scelta originale e azzeccata.
Nonostante questo però, mi è impossibile non riconoscere come questo romanzo, a mio parere, si inserisca a metà tra l’intensità di una scrittura che parla del carcere con tutti i crismi del caso e la semplicità romanzesca che nella sua non continuità tende, in alcuni passaggi, a sfociare in superficialità.
Pur essendo convinta che la profondità di certi argomenti non vada per forza accompagnata da altrettanta serietà di scrittura, ma che sia possibile trattare tematiche come questa anche con la leggerezza di una penna non troppo invasiva, ribadisco l’esigenza di una forte consapevolezza da parte dell’autore. Consapevolezza che, dal mio modestissimo punto di vista, non ha la Melandri.
Ecco cosa intendevo parlando di “rischi”. Scrivere di e sul carcere è rischioso perché è un mondo difficile con tempi e significati propri. Un mondo che necessita di essere accompagnato da uno spazio importante dove riflettere sul vero significato della vita e della libertà. Che questo sia fatto con parole grevi o delicate non importa ma, da un romanzo che affronta queste tematiche, mi aspettavo qualcosa in più.
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Ilaria Bonfanti [email protected]