Recensione di Andrea Corona
In realtà il mondo intero è pieno di pazzi
Jack Isidore, un veterano della Seconda Guerra Mondiale con la fissazione che prima o poi le teste delle persone si staccheranno per rotolare via dai corpi, lavora al Servizio Ricostruzione Pneumatici. Qui, recuperati vecchi pneumatici lisci e usati, li ridipinge con una vernice gommosa nera e vi incide i segni dei battistrada consumati («in modo da dare l’impressione che ci sia ancora gomma sugli pneumatici»), rivendendoli poi come nuovi. Jack adora questo lavoro, ma decide di lasciarlo per dedicarsi a tempo pieno alla sua raccolta di «fatti scientifici insoliti». Andrà a vivere nella grande casa della sorella Fay, e del marito di questa, Charley Hume, nella Contea di Marin. In questa zona rurale a nord di San Francisco, Jack subirà il fascino magnetico di «quella schizzata di Claudia Hambro» e del suo gruppo di svitati interessati all’ipnosi, alla reincarnazione, ai fenomeni extrasensoriali, agli UFO e, naturalmente, alla fine del mondo.
Confessioni di un artista di merda è il titolo che Jack Isidore dà al suo diario. La narrazione avviene quindi in prima persona; eppure Philip Dick, quasi a voler simboleggiare un’America disorientata che ha perso la bussola, alterna il punto di vista di Jack a quello di Fay, per poi intervenire in terza persona, come narratore onnisciente, nei capitoli incentrati sugli altri personaggi.
Ma Confessions of a Crap Artist è soprattutto un libro divertente. Fay, caricatura delle casalinghe delle sitcom televisive, avvelena a piccole dosi la vita del coniuge e, dopo una serie infinita di ricatti morali e di sottili violenze psicologiche (fra cui costringere Charley a comprarle i Tampax – cosa che, nell’America puritana degli anni Cinquanta, lo manda su tutte le furie), completerà l’opera provocandogli un coccolone. Jack, da par suo, con le sue manie e ossessioni, finirà per sconvolgere la vita dell’intera comunità, annotando tutto ciò che osserva sui suoi taccuini e spiattellando i fatti di ognuno a destra e a manca («Il mio compito è riferire fatti scientifici»). Arriverà persino a sorteggiare la data del giorno del giudizio e a redigere un dettagliato resoconto della relazione extraconiugale della sorella. E il manoscritto, condito di espressioni come «seni che sembrano mucchi di panna montata» e «coni di estasi assoluta con la punta rossa», finirà tra le mani di Claudia Hambro e del suo gruppo di sciroccati, diventando argomento di dibattito perché scambiato per un chiaro esempio di scrittura telepatica.
Philip Dick è riuscito a dipingere, in chiave ironica e parodica, una realtà caotica e priva di un centro, di una direzione, dominata dalla futilità e da azioni insignificanti (come nota anche Carlo Pagetti nell’introduzione all’edizione italiana). Personalmente, la pedante esattezza delle annotazioni di Jack, che vanno dagli orari del bus alla quantità di mangime consumato dalle anatre, mi ha ricordato tantissimo quella di Ulrich, “l’uomo senza qualità” di Robert Musil. A differenza dell’esattezza della narrativa ottocentesca, che si proponeva di riprodurre il reale per suscitare nel lettore un effetto di realtà, la precisione dell’artista di merda Jack, così come quella dello pseudo-intellettuale Ulrich, è totalmente gratuita e, non essendo finalizzata a nulla, non ci porta da nessuna parte. Insomma, come in Musil, anche i personaggi di Philip Dick sono degli uomini senza qualità. Con la differenza, però, che quello di Dick – e in generale del postmoderno americano del secondo Novecento – è un intero mondo senza qualità, un mondo che ha pericolosamente imboccato la sua wrong-way («In realtà il mondo intero è pieno di pazzi», dicevamo in apertura). E chissà che un contributo alla definizione di postmoderno non possa esser questo.
___ Andrea Coronatwitter@alienimetropoli
16 agosto 2012
Curiosità: uno dei co-protagonisti del romanzo “Anche gli androidi sognano percore elettriche?” si chiama J. R. Isidore (la J. sta per John). Se Jack lavora per il servizio ricostruzione pneumatici “cervello di gallina” John, invece, lavora al servizio di Hannibal Sloat alla clinica veterinaria Van Ness in cui si riparano animali finti.
Anche Kurt Vonnegut immagina, nel futuro meccanico del suo “Distruggete le macchine”, che gli uomini con basso Q.I. debbano prestare servizio presso il Corpo Ricostruzione e Bonifica, rinominato spregiativamente Puzzo e Rottami, un apparato statale il cui compito è riparare le strade.
Sempre ditte di riparazioni: che il desiderio di riparare sia così atavico?
16 agosto 2012
Vero! Caro Thomas, la tua osservazione è giusta; ma per conoscere il mio parere sull’argomento dovrai aspettare la recensione di settembre, perché ho deciso di recensire ancora Philip Dick… e il protagonista del romanzo che sto leggendo ora si occupa di costruire oggetti finti… 😉