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Tarifa

Racconto scritto e proposto da Marco Mazzucchelli

 

Vibrazioni nere aleggiano sui giorni passati e su quelli a venire.

Dopo tutto questo tempo è diventato faticoso decifrare le situazioni, gli sguardi e certi gesti delle mani; le ombre sono passate dietro e davanti ai miei occhi e sono arrivate per portarmi via anche lei.

Mi chiedo se Isabella si sia allontanata da me perché vede le galassie passare sui miei occhi, cosa stiano facendo quei ragazzi che le stanno sempre addosso. Tutto attorno a me si muove velocemente e Isabella ancor di più, è una foschia visiva di movimenti velocissimi, quei ragazzi la circondano come nubi di elettroni, le danzano addosso. È che i volani preparati da Le Parisienne sembrano avermi confinato in un imbuto del tempo. Vorrei raggiungere Isabella a una decina di metri da me, ma è come se fossimo separati da cinque anni luce.

Lentamente esco dal mio imbuto personale e riaffioro al normale scorrere del tempo, in una notte che si sta schiarando. Improvvisamente albeggia, è già mattina e io sono solo. La discoteca è deserta ed è infiammata dal sole di mezzogiorno. Io grondo sudore collassato sul pavimento.

Un’altra sera fresca.

Di nuovo abbiamo il vento frizzante nei capelli e battiamo i vicoli del centro storico di Tarifa, il budello più a sud d’Europa, un intestino ritorto bianco e calcificato, che notturno ingurgita i turisti e li espelle dopo ore di baldoria, fradici per l’abuso di alcol e droghe, tuonati dagli strusciamenti e dalle voglie che fioriscono e sgorgano dalle carni imbevute di creme solari.

L’emicrania mi fa singhiozzare, mi stringo la testa tra le mani. Non riesco a pensare alle cose per più di qualche secondo e i secondi passano svogliatissimi e tremendi, sconnessi in questa lenta agitazione. Questi vicoli mi ricordano i miei imbuti temporali: nelle loro sezioni più strette il tempo rallenta, si condensa, come se coagulasse.

Veniamo risucchiati in un localino piccolo e affollato, un alveo rettale puzzolente e molto frequentato. Ci sediamo e aspettiamo l’ora dell’appuntamento. Con la testa piena di paranoie e con parole di cocaina l’Anziano e il Pugliese vogliono ricordarmi quello che è successo a Siviglia. Mi dicono di fare attenzione. Stanno con le schiene appoggiate alle sedie, le braccia conserte, l’espressione seria. L’Anziano si alliscia il pizzetto, il Pugliese ha il naso fradicio e il singhiozzo violento del drogato. A Siviglia la polizia era ovunque, facevano i controlli sulle strade e pattugliavano il centro con i piedi e con i manganelli. Il mio socio in affari faceva muovere il camper a passo d’uomo nella luce del tramonto. Per le strade i petti dei giovani spagnoli erano glabri e tatuati di Gesù Cristo, le Madonnine erano incoronate e manifestate a ogni incrocio, le Santissime Trinità aerografate sulle motrici dei camion sempre cromati e lucidati. La città della mescalina era sfiancata e affascinata. Giunti sotto il ponte di Calatrava, la policia stava pescando il nostro “contatto” dall’acqua, cadaverino e con la schiena nera di sangue. Il sole si specchiava grasso e pesante nel Guadalquivir, che ribolliva per il caldo. I bagliori e le falene blu dei lampeggianti della policia e dell’ambulanza saettavano e rimbalzavano sul bianco tralucente della struttura del ponte.

Erano le 19.10. Il metallo delle ringhiere scottava, le auto scorrevano lente alle nostre spalle e i neonati colori del tramonto scaldavano i duri spigoli delle nostre anime magre e indurite.

Trascinati per tutta la desolata periferia di Tarifa.

L’alba soffiata via dalle teste.

I crani disidratati già al primo passo fuori dalla discoteca, come il mio cuore, inaridito dall’assenza di Isabella.

Raggiungiamo il parcheggio sotto la roccaforte che il sole è già alto. L’Anziano e il mio socio in affari si rintanano nel ventre scuro e bollente del camper, mentre io e Le Parisienne rotoliamo giù in spiaggia, camminando a gambe larghe senza piegare le ginocchia, emettendo suoni cavernosi. Andiamo a produrre quei volani che teniamo sempre ben nascosti nelle tasche e per farli girare nelle nostre teste. Vogliamo farli girare così forte da farci colare il cervello fuori dagli occhi, denso come bitume.

La spiaggia è smisurata e deserta, spazzata da un vento avido che la rende troppo farinosa, oceanica e incolmabile, d’una bellezza dispettosa.

Intrattabile ci respinge subito con mani invisibili e africane, ci ributta verso l’alto.

Io e Le Parisienne incassiamo questi scossoni, assecondiamo queste scariche bestemmiando la spiaggia, allontanandoci ci giriamo e la sputiamo, la malediciamo, ritorniamo sotto la roccaforte prima che tutti questi volani muoiano tra le mani di Le Parisienne, mentre lui li alliscia e arrotola producendoli, sedendosi alla fine su uno spuntone di roccia, mentre io ne attendo la somministrazione e fotografo centinaia di ancore arrugginite e accatastate, une sulle altre e sui muri bianchi di calce, fotografo la spiaggia da lontano e in bianco e nero, e so che nella fotografia stampata la sabbia bagnata si confonderà con il mare, che a sua volta si confonderà con il cielo.

Guardo dall’altra parte dello stretto, la lingua di mare e la lingua dell’oceano che si strusciano nel budello europeo e africano. Vedo bambini rincorrersi nudi e scuri nei campi gialli di hashish, venire richiamati bruschi dagli adulti che stanno sulle soglie delle case, che li fermano e premono le dita sui loro corpicini santificati dal caldo africano, tra gli ossicini delle scapole e sulle braccine, ricavandone un crotto misto di epidermide e stupefacente.

Riporto il mio sguardo nel continente europeo, sulla penisola iberica, sotto la roccaforte dove ci siamo sistemati. Improvvisamente due agenti si avvicinano al nostro camper, si chinano a scrutare la targa, tempestano la porta posteriore con le nocche delle mani destre, a turno impattano i calli delle nocche, sempre più forte le lamiere vibrano. Io e Le Parisienne ci mettiamo tutto in tasca e scantoniamo di nuovo giù in spiaggia, allontanandoci parliamo inglese per confonder loro le idee. Io metto in bella mostra la macchina fotografica sulla schiena e il sangue mi si condensa nelle vene e nel cuore si ghiaccia. In un attimo la percezione che ho del tempo si dilata atrocemente, la sabbia diventa appiccicosa come bitume e mi ritrovo in un imbuto rallentato del tempo, tragico perché non so se anche Le Parisienne stia vivendo questi secondi così dilatati come li sto vivendo io. Camminiamo nel centro storico. Per me passeranno anni durante questa sola mattinata, prima di poter ritornare al camper e finalmente dormire. L’imbuto si stringe sempre più, fino a congelarsi in un singolo attimo, così stretto che non posso girarmi e tornare indietro. Sono un dardo scoccato verso un luogo dove i sensi di colpa non esistono, per togliermi il guinzaglio che sento.

Spalanco gli occhi, ne rompo il catrame. È stato un sonno nero e sordo. Resto accartocciato sulla mia porzione di letto del camper. Afferro il cd portatile. Di pomeriggio, con tutta questa luce che trapassa le tendine abbassate, con tutta questa malinconia, un pomeriggio di stanchezza e di ricordi dicevo, sdraiato a pancia in su, le mani incrociate dietro la nuca, un ginocchio sollevato e la pelle bruna del mio petto, quasi nera, con la testa piena di Isabella, e queste note malinconiche che cantano di lei per il mio cuore, che

Dicono: and when you go to sleep at night.

Dicono: don’t you ever feel the weight.

Dicono: of all the things that make you happy?

mentre sdraiato qui e pronto a morire la mia mente se ne va a immaginare la mia vita mesi e mesi più avanti, l’inverno che deve ancora venire, mi chiedo se la terza domenica mattina di novembre potrò stare ripiegato a letto come ero solito fare prima della mia partenza, con la tapparella alzata completamente e la pioggia sui vetri, ascoltando lo stesso cd che sto ascoltando ora e quindi ricordando questi giorni, questi mesi. Riascolterò forse questo disco e così potrò chiudere gli occhi e rivedere il viso di Isabella, stringerla per immergermi nel suo profumo del corpo molto caldo e molto acceso, le spezie dei solchi delle ascelle e del collo, il sentore muscoloso e salino che custodisce tra le gambe, e poi riaprendo gli occhi fradici e salati di lacrime proverò a immaginarla mentre cammina per le strade di pietra di Porto, così separata via da me, così strappata via da me, mentre assonnata e cisposa indossa un cappotto verde mare, tiene aperto un ombrello turchese e sotto braccio i libri dell’università.

Grazie a questa canzone nelle mie orecchie potrò ritornare indietro a questo preciso istante che è adesso, su questo camper puzzolente, mentre il caldo mi copre le spalle nude e mi trafigge le narici con l’odore di questi sedili, mentre da solo ascolto musica che ascolterò da solo, dimentico di cosa sarà successo.

Spalanco la porta e scendo fuori che sono le sei del pomeriggio. Le Parisienne fuma una sigaretta all’ombra del camper deserto e fa roteare un mazzo di chiavi con l’indice della mano destra, con la schiena nuda appoggiata alla carrozzeria e gli occhiali da sole, mentre gli altri sono andati a farsi un giro in centro.

«Hanno detto di non spostare il camper per nessun motivo finché non tornano loro, di andare in spiaggia se ne abbiamo voglia».

Fa un tiro di sigaretta e poi lo soffia fuori.

«Alla fine questa mattina la policia c’era veramente sai? Ma rompevano solo il cazzo perché qua non si può parcheggiare in nessuno spazio, che si può solo sostare una notte e poi si deve squagliare».

Si trascina gli occhiali da sole sopra la fronte a fermarsi i capelli incatramati. Non ha gli occhi rossi, lo trovo decisamente in forma.

«Hanno preso il numero di targa e se questa notte ci ribeccano ci fanno la multa».

«Non so tu, ma io inizio a sentire il fiato sul collo».

«Mi sembra di vederli ovunque che ci spiano».

«Già! Cos’era quella foto che ci hanno fatto stanotte in discoteca?».

Isabella. Fine serata. Adesso sembra così facile mettere i ricordi al posto giusto. Era ritornata ad abbracciarmi, voleva fare una foto tutti assieme. C’ero io che me la stringevo e accarezzavo tutta. C’era lei che mi stringeva la mano per farmi stare tranquillo e che con lo sguardo terribilmente a disagio mi diceva: «Che fai?! Che ti prende?! Apri bene le orecchie, ci vediamo domani, sempre qua, ti devo dare una cosa che non posso darti adesso. Ok? Hai capito?? Ma che ti è successo?!». C’era lei che dopo mi aveva chiesto la mail per spedirmi quella foto appena scattata da qualcuno che si era nascosto dietro il flash bianco accecante e che, approfittando dei pochi secondi di cecità successivi allo scatto, se n’era andato.

«Sono forse paranoico?».

«Quanti anni sono che non la vedevi?» mi risponde Le Parisienne.

Ma perché proprio ieri? Perché quell’Italiano alle docce della spiaggia ci ha chiesto se potevamo tenergli gli zaini? Cosa c’era in quegli zaini del cazzo? Perché è venuto proprio da noi? È proprio questo che non capisco. Che cosa cazzo vuole la gente da noi? Perché adesso che finalmente siamo scesi in spiaggia e sdraiati vicini al bagnasciuga, con tutti questi spruzzi delle onde del mare che ci rinfrescano, con il sole ancora alto e caldo, con le migliaia di persone che ci sono su questa immensa spiaggia, perché proprio a noi questa quarantacinquenne che potrebbe essere nostra madre, accompagnata dal proprio figlio che avrà sì e no dodici anni, ci sta mostrando sulla mano tre minuscoli fori che sembrano non cicatrizzarsi mai?

Com’è diventato, adesso, questo paese? Dove sono finiti i robbosi e i fuoriclasse che animavano Tarifa sin nei budelli più intestinali?

Li ammiravo estasiato mentre ammaestravano i loro windsurf sulle onde dell’oceano imbizzarrito, molto biondi e molto abbronzati. Poi sedevano plastici nei baretti a parlarsi in inglese e a guardare in tv le evoluzioni dei loro campioni, che ogni locale riproponeva finché i nastri delle videocassette si sfilacciavano per la forte usura. Nei parcheggi straripavano i loro coloratissimi furgoni, il marrone andaluso delle spiagge e delle colline e il blu oceanico venivano falciati dalle fosforescenze esagerate delle tavole e delle vele ben tese. Gli adesivi incollati ovunque saettavano sulle carrozzerie.

Adesso invece, nelle giornate di forte vento le spiagge sono deserte e tutti si riversano nei negozi che arrivano fino a scoppiare, per poi passeggiare notte e giorno dondolando dai polsi gli enormi sacchetti con stampata in bella mostra la gigantografia del brand preferito.

Cinque anni fa nessun agente sarebbe mai venuto al parcheggio sotto la roccaforte con fare prepotente e l’atmosfera era quella di una zona difesa, aiutata, preservata per quelli come noi che arrivavano sui camper e sui furgoni Westfalia verde marcio, che negli occhi vedevano l’un l’altro le stesse cose e con le mani parlavano la stessa lingua. Non si vedevano famiglie in vacanza, né tutti questi banchieri che, lasciati a casa giacca e cravatta, indossano il cappello di paglia preferito e si vestono come tante scimmiette ammaestrate, portandosi dietro quelle mogli timide e imbellettate che non sanno mai dove si trovano e che non sanno mai cosa dire. Donne inutili e vacue, che di notte non fanno altro che dormire senza curarsi della bellezza sporca e incrinata di questa riserva, delle mattine di forte turchese e delle albe violenti e urgenti, di queste strade deserte, sabbiate e troppo ampie, dei filari di palme, spellate e rosolate, degli orizzonti lineari e infiniti di case a un piano, spartane, affascinanti, che riempiono il cuore di pena per quello che potrebbero essere e invece non sono mai state.

Sempre più spesso il mio cervello è malato e di notte ritorna al ventisei febbraio 2004, a quel sabato sera nel quale ci rovinammo per sempre. Quella notte in cui saremmo potuti finalmente ritornare a casa e che invece ci vide arenare in Liguria, coprendo le nostre vite di fango in una maledetta cittadina chiamata Laigueglia, dove finimmo l’assenzio appena comprato e scendemmo dal camper, con il vento a tagliarci le guance di burro scuro. In un pub del centro storico tracannammo larghi bicchieri di birra belga a dieci gradi e incrociammo una tizia inglese, che ci aspettava seduta con altri tre trentenni di nazionalità diversa, decisamente soprappeso.

La invitammo a salire sul nostro camper e quando entrò le mancò subito il respiro per il caldo e la camminata, portandosi una mano al grosso petto presagendo ciò che poteva accaderle e per quello che vide. Il mio socio in affari le fu subito addosso, facendola cadere rovinosamente. Io mi dovetti rifugiare nel cesso con gli intestini che mi ribollivano per l’assenzio. Non stavo bene, non stavo bene per niente, erano tre settimane che i crampi intestinali mi lasciavano a terra più volte al giorno, contornati da ripetuti attacchi di emicrania che mi aggredivano ovunque mi trovassi. Ero dimagrito, avevo cominciato a farmi crescere la barba e avevo i capelli bruciati dal sole, come la pelle.

Quando uscii dal bagno trovai un grande circo violento che vorticava attorno all’inglese, nuda e incastrata con il suo enorme busto ansimante tra il sedile del guidatore e il sedile del passeggero, con la faccia collassata rivolta verso l’alto, le guance paonazze infuocate con violenza. Vedevo nei suoi occhi che cercava di fuggire, di rinchiudere la sua mente in una Stanza Bianca lontano da lì, dietro le sue palpebre scorrere frenetica la cantilena “adesso finisce adesso finisce adesso finisce adesso finisce adesso finisce”. Arrivò a mormorarla quella litania, fino a recitarla per renderla più credibile, spessa, per riuscire ad avvinghiarla. Poi Le Parisienne si portò la mano destra dietro la schiena e, impugnando la pistola per la canna, con tre rapidi gesti le fece saltare i denti e successivamente, impugnandola stavolta dalla parte giusta, riempì quella cavità corrotta e straziata con il ferro di quella stessa pistola, premendo il grilletto e facendo esplodere frattaglie scure e appiccicose per tutto l’abitacolo, in una nube di ossa vaporizzate e soffocanti.

Quella fu per me la prima volta che il tempo rallentò fino a quasi fermarsi. Ricordo il cranio dell’inglese espandersi come una medusa di nebbia calcificata, i denti come un diadema di filamenti di gengive e radici sanguinolente schizzare alla velocità delle galassie. Seguii con lo sguardo il rinculo del colpo di pistola correre sotto i muscoli dell’avambraccio di Le Parisienne e andare a incassarsi dentro la spalla. In quel momento lui mi guardò negli occhi, inebetito: il suo volto era un primo piano straziato, dietro di lui l’Aurelia, le auto e i pedoni attoniti. Immobilizzato in quegli attimi fermi, lo vidi per la prima volta del tutto svuotato da ogni idea e sensazione, pensiero e giudizio, veramente puro e libero.

Poi iniziai lentamente a uscire dall’abisso: risalivo come un sommozzatore le atmosfere del tempo, la pressione dello scorrere dei secondi mi premeva sui timpani delle orecchie, le luci blu che dalla strada iniziarono ad apparire dietro Le Parisienne mi ricordavano le bolle di luce che illuminano i fondali marini e gli coronavano il cranio degli abissi.

Era un cristo elettrico e immobile.

Vedendole vorticare nell’abitacolo, Le Parisienne percepì tutto il loro carico di conseguenze: ricordo con chiarezza il momento esatto in cui si rese conto e andò in pezzi, in cui il suo animo svuotato venne riempito con forza, inondato e allagato da tutto il fango che aveva iniziato a caderci addosso.

Con sforzo onirico iniziai a togliermi le schegge di ossa, mentre alle dita delle mani si erano attorcigliati i lunghi capelli arruffati nel sangue denso e nella bocca. Sulla mia lurida maglietta vorticavano sempre più velocemente le luci della polizia, mentre cercavo di ignorare tutte quelle maledette zanzare che affollavano la mia testa e chiedevo a me stesso se mai ancora ce l’avrei fatta, se sarei mai riuscito a trovare anche un piccolo posto permeato di amore, nella mia vita, in mezzo a tutto quello che da lì in poi avrei custodito nel cuore.

Cinque anni fa sedevo sul muricciolo che porta alla spiaggia, proprio come in questo momento. Si vedevano le stesse mille stelle nel cielo che vedo ora. Quella notte l’oceano ringhiava dal buio, dal profondo, da dove la sabbia spariva e sparisce non vista. Senza dormire, senza sentire i rumori dei bar e dei festeggiamenti, nè le urla delle ragazze nel centro dell’intestino, intriso di calce e gente. Scrivevo una cartolina a Isabella, banalità e stronzate in uno spagnolo da far pena, come usavo da ragazzino quando volevo miseramente far vedere che ero perfettamente entrato in sintonia con i paesi stranieri che percorrevo, con le loro lingue e i modi di dire, per dimostrare che ogni volta ne uscivo cambiato dentro.

Allo stesso modo, adesso scrivo di Isabella.

Lo faccio ogni volta che ritorno in un posto caro che è stato mio e lo trovo scomparso, cambiato, perso per sempre.

L’unico modo che ho per farlo rivivere è scrivere.

Adesso Isabella danzerà nella discoteca a cielo aperto, un vapore misto di corpi veloci: i suoi minuti staranno correndo all’impazzata.

Starà stringendo mille mani e mille mani attenderanno l’alba.

Io invece resto qui coperto di fango, distante da lei non nello spazio ma nel tempo: cinque anni.

Guardo le galassie allontanarsi, scorrere davanti e dietro ai miei occhi come ombre nere: lei è diventata come loro oramai,  come uno di quei posti a me cari e scomparsi.

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Racconto di Marco Mazzucchelli

Author: Alieni Metropolitani

Gli Alieni Metropolitani non cercano soluzioni. A volte ne trovano… é irrilevante. Appartengono alla Società e con sguardo consapevole ne colgono l’inconsistenza. Non sono accomunati da ideologia, religione o stile di vita ma da una medesima percezione del mondo. Accettano i riti della vita, riuscendone a provare imbarazzo. Scrivere! Una reazione creativa alla sterile inconsistenza del mondo.

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