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L’unica volta che ho ucciso, ho avuto una complice

Racconto scritto e proposto da Chiara Vinci

Killer Woman by GuyLeRoy on deviantART

L’unica volta che ho uccisoho avuto un complice: il cancro aveva già divorato tutto quello che si poteva mangiare, io ho solo finito il lavoro. Mia nonna diceva ”Fattela con chi è meglio di te” e così feci.

Eravamo tutti in cucina per mangiare: i tre cugini, mia zia, mia madre ed io. Lo stronzo, mio zio, dormiva nel suo letto al primo piano. Mia madre mi chiese di prendere la spesa in macchina.

Mentre stavo aprendo la porta di casa, sentii chiamare.

Teresa, vieni”.

Nessuno in cucina si mosse. Salii le scale.

Non ho chiamato te, voglio Teresa” disse mio zio appena mi vide.

Zia sta mangiando. Cosa vuoi?”

Teresa”.

Allora non hai capito? Sta mangiando. Che cosa vuoi?”

Il dottore aveva detto che le metastasi non erano nel cervello: il rincoglionimento era dovuto alle medicine.

Accompagnami in bagno”.

Io ti accompagno davanti alla porta, poi fai tutto tu”.

Certo”, e tolse le coperte dal corpo malato.

Non guardare. Aiutami”.

Ero a braccetto con l’uomo che mi aveva rovinato, nell’ordine: tre Natali, tre Pasque, due compleanni, la cinta di El Charro, una maglia della Stone Island e una cassetta dei Depeche Mode. Mio nonno l’aveva detto a mia zia: “non sposarlo, non mi piace” ma lei non l’aveva ascoltato.

Io odiavo lo zio perché negli ultimi quattro anni aveva rovinato il mio mondo, non me ne fregava un cazzo della famiglia: a quattordici anni pretendevo attenzione, ero nella piena fase adolescenziale.

Al mio dodicesimo compleanno, mentre aprivo i regali, arrivò una telefonata dei Carabinieri, i miei zii dovevano presentarsi in caserma. “Sarà un’eredità?” chiese mio padre. “Ma quale eredità? Questo è lui”, rispose mia madre. Mio padre è sempre stato un ingenuo.

Lo zio aveva diffidato tutti i parenti ad avvicinarsi a casa sua, non li voleva più vedere nella sua proprietà. Risultato: compleanno rovinato dalle solite urla e dai soliti pianti.

Le cose che il malato aveva fatto scomparire, ossia la cinta di El Charro, una maglia della Stone Island e la cassetta dei Depeche Mode, erano in realtà state prese da mia nonna per farne dei regali ai miei poveri cugini. Poveri? Stronzate! Mio zio guadagnava più di mio padre, loro erano i ricchi, i poveri eravamo noi: avevo sudato per quelle cose, avevo pulito i bagni, avevo aiutato mia madre a fare la conserva di pomodoro, avevo portato a pisciare anche il cane del vicino di casa. Anche se per certi versi mi facevano pena io li odiavo i cuginetti, sempre vestiti con le marche e seduti nella loro bella Mercedes.

E a me chi ci pensava?

Odiavo lo zio perché picchiava a sangue mia zia, a volte facendola ubriacare per aumentare la sua dose di divertimento. Morale: spesso la zia finiva per prenderle di brutto, a volte perdendo conoscenza. Mi ricordo che in qualche occasione abbiamo dovuto trascorrere Natale al Pronto Soccorso, aspettando che la ricucissero.

Qualche esposto, qualche denuncia e nulla più: tutto finito nel vuoto.

La solita storia insomma.

Quello stronzo aveva rovinato la mia esistenza di quattordicenne, oltre alla faccia di mia zia e al fondoschiena dei miei altrettanto odiati cugini.

Tutto questo pensavo, mentre accompagnavo lentamente il malato a pisciare.

Dimmi un po’, tuo padre non è proprio venuto a trovarmi?” chiese.

No”.

Tuo padre è un povero fallito”.

Non dissi nulla perché non sapevo cosa rispondere al Male.

Ma tu adesso quanti anni hai?”.

Quattordici”.

Quando guarisco ti porto in un posto bellissimo a farti vedere una cosa”.

Mi fermai, stavamo proprio sulle scale.

Tu non guarirai. Tu stai morendo”.

Tremo ancora se ci ripenso. In quel momento sul suo viso si stampò un ghigno, e con tono glaciale disse: “io non morirò, e tu verrai con me”.

La paura che lui potesse salvarsi dal cancro si impadronì di me. “No, no, morirà, l’ha detto anche il dottore”, pensai. “E se si fossero tutti sbagliati?”.

Lui era proprio sulle scale e in quel momentonon ebbi nessun dubbio.

Fu un attimo: mentre rotolava, con un grido strozzato in gola dalla sorpresa, capii che non avrei più visto mio padre litigare con mia madre, non avrei più visto quei segni rossi dietro la schiena dei miei cugini e non avrei più visto le mie cose in altre case.

Ci saremmo liberati del Male, da quel momento in avanti.

Il malato, scomposto e immobile, giaceva esanime davanti alla porta della cucina: corsi in bagno e scivolando attraverso la finestra mi ritrovai fuori di casa.

Bussai alla porta con in mano le borse della spesa, mio cugino dodicenne venne ad aprire. “Papà è caduto dalle scale”. Andai subito vicino agli altri: “respira?”, chiesi a mia madre, piegata su di lui. Mia madre fece di no con la testa. Avrei voluto urlare di gioia ma mi limitai a dire: “e ora?”.

Fu un attimo e forse lo immaginai quel sorriso, o forse no, mentre mia madre si girava lentamente verso di me, e con fare quasi studiato, con quella sua voce calda mi disse impassibile: “E ora si organizza il funerale”.

 Chiara Vinci

Author: Alieni Metropolitani

Gli Alieni Metropolitani non cercano soluzioni. A volte ne trovano… é irrilevante. Appartengono alla Società e con sguardo consapevole ne colgono l’inconsistenza. Non sono accomunati da ideologia, religione o stile di vita ma da una medesima percezione del mondo. Accettano i riti della vita, riuscendone a provare imbarazzo. Scrivere! Una reazione creativa alla sterile inconsistenza del mondo.

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