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IL SESTO GIORNO

Racconto di Marco La Terra in omaggio a S.T.C. e E.H.

 

The Wedding-Guest sat on a stone:

He cannot choose but hear;

And thus spake on that ancient man,

The bright – eyed Mariner”

Samuel T. Coleridge – The rime of the Ancient Mariner, Part I, 17 – 20

L’avevano trascinato a viva forza in mezzo a quella baraonda multicolore e chiassosa per la festa del santo patrono, nel paesino di F.

Non ne aveva voluto sapere, all’inizio, ma dopo numerose insistenze, continue e assillanti, alla fine non era riuscito a negarsi.

Era una celebrità, del resto.

Così, di malavoglia, era uscito di casa dopo essersi dato una ripulita e aver indossato l’abito migliore, quello delle grandi occasioni, ancora intriso di naftalina: va detto che, riferito a Santiago, “uscire di casa” significava abbandonare la propria imbarcazione, dove si svolgeva la maggior parte dell’esistenza di quest’uomo riservato ma dallo sguardo chiaro e sincero.

Dimostrava un’età imprecisata, compresa fra i quaranta e i cinquantacinque anni: aveva un corpo ancora solido e una muscolatura compatta e nervosa, scolpita dalle intemperie e dalla perenne lotta contro gli elementi del mare. Il volto dell’uomo, dagli zigomi alti e pronunciati, il naso aquilino, imponente, e una bocca tempestata di denti aguzzi e irregolari, era decisamente brutto, per quanto lo sguardo forte e vigoroso fosse di tale intensità da attrarre l’attenzione di quelli che parlavano con lui. Gli occhi verdi, grandi e sinceri, riflettevano la stessa tranquillità del mare color smeraldo, dove era sempre vissuto, anche se i turbamenti dell’umore, molto rari a dire il vero, erano accompagnati da uno strano gioco di ombre e riflessi che rendeva il colore delle iridi simile al mare in burrasca.

La potenza dello sguardo era tale da mascherare non solo l’oggettiva bruttezza del viso, ma anche le numerose cicatrici che, in diversi anni, avevano ferito la sua pelle, bruna come il cuoio, in varie parti del corpo, rendendola simile a un’antica mappa geografica, tante e tali erano le incisioni su di essa.

Per guadagnarsi da vivere, Santiago faceva lo stesso mestiere del padre, il pescatore, oramai da quasi quarant’anni: tutte le mattine, ben prima che sorgesse il sole, per dodici mesi l’anno, si recava al largo, dopo il golfo di G., nelle acque tropicali limpide e calde, a pescare ciò che il mare, dal profondo della sua insondabile volontà, gli destinava.

Santiago era considerato fra i pescatori più esperti dell’intero arcipelago, forse il migliore: del resto, la sua fama aveva da tempo varcato i confini del luogo quando, cinque anni prima, si era imbattuto in un Marlin1 di circa novecento libbre mentre navigava a una ventina di miglia dalla costa, lungo una rotta per molti tratti inesplorata, raramente battuta dai pescherecci.

All’epoca possedeva una barca solida e ben equipaggiata, la Virgen del Mar, nata e perita con lui: all’alba del 5 settembre 1932 Santiago aveva incrociato la rotta del Marlin che, attratto dalle esche collocate a centocinquanta tese di profondità2, aveva abboccato e cominciato la sua lunga corsa nel tentativo di liberarsi dalla trappola in cui era caduto. Era talmente forte e vigoroso che la prima duglia3 di quaranta tese, attaccata alla lenza, si era esaurita rapidamente: con una mano Santiago aveva subito legato alla prima altre due duglie, di modo che il pesce rimanesse a una certa distanza dall’imbarcazione. Vista la mole spropositata, la sola cosa da fare era catturarlo per sfinimento: così, per tre lunghi giorni e tre interminabili notti, il pescatore aveva manovrato la lenza con pressione costante, senza movimenti bruschi o strappi, evitando che il Marlin decidesse di saltare in superficie, riuscendo così a liberarsi o, peggio, a rovesciare l’imbarcazione.

Era un pesce di dimensioni mai viste prima, ricorda adesso Santiago, e se fosse riuscito a catturarlo la sua vita sarebbe cambiata: non più pesce crudo e caffè amaro ma un pasto dignitoso, finalmente. E poi nuove attrezzature per il peschereccio (magari una barca nuova, con buona pace per la Virgen che, oramai, aveva fatto il suo tempo), un paio di abiti al posto della solita camicia a scacchi, lurida e sdrucita, il barbiere una volta al mese: un ritorno alla vita insomma, dopo tanti anni passati a tirare la cinghia.

Questo sognava Santiago, con la forza della disperazione, mentre il pesce continuava a tirare nel tentativo di rimuovere l’esca, penetrata in profondità nelle carni: erano stati tre giorni e tre notti di autentica battaglia, condotta dal pescatore con tutta la pazienza e l’abilità di cui era capace. Verso il tramonto del terzo giorno il Marlin, giunto allo stremo delle forze, aveva cominciato a saltare diverse volte, nel tentativo disperato di rovesciare l’imbarcazione fino a quando, lentamente, si era fermato esanime e dissanguato.

A quel punto, il problema fondamentale era consistito nell’allontanarsi da quei luoghi il più in fretta possibile, prima che l’odore del sangue giungesse all’olfatto di qualche branco di pescecani.

Il Marlin era talmente grosso da superare la lunghezza della Virgen di circa mezza tesa, e così pesante da rendere impraticabile ogni tentativo diverso dal trainarlo lungo la rotta per F., ammesso che riuscisse a ricordarla nuovamente.

Purtroppo per Santiago la fortuna era finita lì, e lungo la via del ritorno la morte del Marlin aveva preso a somigliare all’uccisione dell’Albatros, narrata nel famoso poema4: contrariamente alle sue speranze era calata la bonaccia e il pescatore, già duramente provato, faticava sui remi sentendo le forze venirgli meno.

Nutrendosi di due alalonghe, pescate con altre lenze, e la poca acqua rimasta, nel tardo pomeriggio del 10 settembre, oramai disidratato, aveva scorto in lontananza le flebili luci delle case, poco distanti dal molo, che avevano riportato in lui il desiderio di salvezza, oramai martoriato come la carcassa del Marlin, divorato dai pescecani: il sogno di portare a termine l’impresa era tramontato presto.

Dopo parecchie ore trascorse a respingere gli attacchi di squali famelici e aggressivi, infatti, Santiago si era accasciato, esausto e scoraggiato, abbandonando le carni del Marlin alle brame dei suoi simili.

Era rimasto in quella posizione per ore, immobile e supino, vittima del delirio e della febbre, prigioniero di quel mare senz’anima, denso e oleoso, sotto una luce violenta e aggressiva, senza speranza alcuna, vittima suicida della natura che aveva osato sfidare5. Era rimasto lì, svuotato e rassegnato, con il volto contratto dalla fatica e le profonde rughe a venargli la pelle, mentre il sudore scendeva copioso annebbiandogli la vista e rendendolo ancor più consapevole della propria impotenza.

Dopo un lasso di tempo imprecisato, sospeso tra sogno e realtà, Santiago aveva udito un graduale vento di Scirocco sospingerlo verso Nord, lungo la rotta da percorrere: l’uomo, motivato da quella circostanza, riprese il controllo della barca raccogliendo le ultime energie rimaste.

Per i successivi tre giorni era stato costretto a razionare l’acqua, nutrendosi col poco cibo rimasto: sotto il sole cocente, sentiva la pelle tesa e dura aprirsi in numerosi tagli che bruciavano per via della salsedine. Le sue mani, forti e nodose, con il profilo delle ossa in rilievo e le vene che parevano avvolgerle come le viti i tralicci, erano gonfie e doloranti: ogni vogata era un calvario infinito.

In effetti, rifletteva l’uomo mentre si avviava alla festa, salvare la pelle era stata davvero un’impresa.

Ora procedeva lungo la via principale con passo lento e compassato, di pessimo umore: non aveva alcuna voglia di recarsi in piazza, dove si stava svolgendo la festa del santo patrono.

Del resto aveva dato la sua parola, e non poteva più rimangiarsela.

Per guadagnare tempo decise di fermarsi a mezza strada con la scusa di sistemarsi il cappello, leggermente largo, e allacciare le fibbie degli stivali, neri e lucenti.

Con questa scusa indugiò qualche minuto a osservare i dintorni, notando con disappunto che non c’era anima viva, nei paraggi.

Inspirò a pieni polmoni l’aria fresca della sera, estraendo dal taschino della camicia candida e profumata un pezzo di tabacco che cominciò a masticare lentamente: subito, sentì con piacere la ben nota consistenza, amara e morbida nella sua bocca, diffondersi dentro di sé, infondendo una sorta di benessere passeggero.

Rassegnato, continuò a camminare in direzione della piazza che scorse in lontananza gravida di gente festante, chiassosa e ubriaca.

Per placare il fastidio da cui non riusciva a liberarsi, si rifugiò di nuovo nei ricordi di quei giorni: anche cinque anni prima aveva visto una folla gremita, all’orizzonte, ma quella massa di corpi, a differenza di adesso, non si agitava convulsamente in una baraonda sconclusionata di luci e suoni incomprensibili. No, allora i compaesani erano rimasti lì, sul molo, immobili e silenziosi a scrutare il lento incedere della barca, ridotta oramai a un relitto.

Il suo peschereccio, o meglio, ciò che ne restava.

Rivide come fosse ieri la gente in piedi, sul molo, raccolta e vagamente stranita: lo conoscevano tutti del resto, e da quando il suo vagabondare lo aveva condotto nel paesino di F., quindici anni prima, non si era mai assentato per più di due giorni consecutivi. Del resto, quasi ogni sera i suoi compaesani erano abituati a vederlo camminare lungo la via principale con quel suo passo lento e trascinato, mentre fumava o masticava tabacco, perso in chissà quali pensieri prima di iniziare un nuovo ciclo della propria esistenza randagia, smarrito nel silenzio del mare.

La sera del sesto giorno la gente era lì, immobile, con le lunghe ombre proiettate sul selciato del molo, in prossimità del mare, e un cielo di fuoco a illuminarne gli sguardi che studiavano l’orizzonte.

Aveva salvato la pelle, ma aveva perso tutto.

Quella era stata l’unica volta in tutta la sua vita in cui era stato davvero contento di vedere un gruppo di gente in attesa del suo arrivo.

A parte quell’episodio, e forse proprio a causa di questo, non aveva mai voluto saperne di nessuno: non si trattava di superbia o supponenza, ma di semplice apatia nei confronti di persone che, specie dopo l’accaduto, avevano dimostrato di non riuscire a capire il suo modo di essere.

Del resto nemmeno in precedenza si era dimostrato una persona particolarmente incline alla socievolezza: scampato alla morte, un silenzio di piombo si era impadronito di lui, serrandogli il cuore entro una presa dalla quale era impossibile liberarsi.

Per queste ragioni, le rare occasioni di mondanità erano fonte di ansia e disagio.

L’esperienza vissuta l’aveva reso consapevole di molti segreti sconosciuti ai più, suggerendogli che l’autentica verità, o meglio la Verità rivelata, giacesse nascosta nel silenzio del mare: quello era il regno in cui aveva deciso di vivere, da lì in avanti, con i suoi libri e i suoi taccuini, lontano da qualsiasi rumore che non fosse l’infrangersi delle onde sulla chiglia della propria imbarcazione, e da qualsiasi odore diverso dalla salsedine, marchiata sulla pelle come squame di pesce.

Bastava imparare ad ascoltarlo.

La festa era al suo culmine: una massa urlante, composta da persone indistinguibili, del tutto indifferenti ai suoi occhi, emetteva suoni convulsi, parole e canti che per Santiago non avevano senso alcuno.

Dall’altra parte del paese il silenzio del mare lo richiamava a sé: incapace di resistere a quel dio soprannaturale, Madre e Padre al contempo, l’uomo indugiò pensieroso. Non avrebbe mantenuto la parola data, ma la cosa non gli importava granché, in fondo: aveva ormai assimilato altri principi, dopo quell’esperienza, e nulla era più come prima.

Nulla avrebbe più potuto esserlo, del resto.

Così, lentamente, diede le spalle alla festa, alla folla e al suo incomprensibile frastuono e si avvìo verso il porto, lungo la baia, scrutando coi suoi limpidi occhi verdi la luna, alta sul mare: pian piano la sua sagoma, curva e claudicante, venne inghiottita nel buio della notte, nel silenzio più assoluto.

He went like one that hath been stunned,

and is of sense forlorn:

A sadder and a wiser man,

He rose the morrow morn”

Samuel T. Coleridge – The rime of the Ancient Mariner, Part VII, 622 – 625

NOTE

1 Noti anche come ‘pesci vela’ o ‘aguglie imperiali’, sono simili al pesce spada differenziandosene per la presenza di piccole scaglie e denti, la spina dorsale lunga, pinne ventrali, il rostro cilindrico (“spada”) e la presenza di quattro carene sul peduncolo caudale (due per lato). Il colore di solito è blu acciaio sul dorso e bianco madreperlaceo sul ventre, ma in molte specie sono presenti anche linee verticali e punti di vario colore. La pinna dorsale dei pesci vela (Istiophorus) presenta colori brillanti, blu e violetto, con punti e macchie scuri. Si tratta di pesci di grosse dimensioni, con lunghezze che variano da meno di due metri per la tipologia Tetrapturus georgii ad oltre cinque metri per quella Makaira.

2 Antica unità di misura corrispondente all’apertura delle braccia.

3 Rotolo di cavo.

4“God save thee, Ancient Mariner! From the fiends, that plague thee thus! Why look’st thou so?” – With my cross-bow, I shot the Albatross (Samuel T. Coleridge – The rime of the Ancient Mariner, Part I, 79 – 82).

5“Day after day, day after day we stuck, nor breath nor motion; as idle as a painted ship upon a painted ocean” (Samuel T. Coleridge – The rime of the Ancient Mariner, Part II, 115 – 119).

 

Author: Marco La Terra

Marco La Terra, classe 1977, vive il senso di alienità dell’epoca infausta in cui è recluso in modo viscerale e sofferente, cercando di rintracciare in tutto ciò che è “altro da sé” una forma spuria di logica superiore.

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2 Comments

  1. I miei complimenti a Marco La Terra! Difficilmente sul web si leggono racconti del genere (e i racconti umoristici, avant-pop, pulp e noir alla lunga stancano). Personalmente adoro questo stile un po’ distaccato e solenne, quasi da ‘parabola’. E a tratti, mentre leggevo questo racconto, mi è venuto in mente Nathaniel Hawthorne 😉
    Insomma, ringrazio Marco per questo – apprezzatissimo – omaggio alle radici della narrativa americana!

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  2. Ti ringrazio Andrea, certi commenti aprono il cuore e spingono chi scrive a superare le proprie possibilità, insistere e perseverare all’interno di questo insondabile percorso espressivo. Vivo la scrittura come un lungo e tormentato cammino nel quale cerco di vestire le pieghe del mio animo con le parole più adatte: perciò, se sono riuscito a comunicare qualcosa, ne sono davvero felice.

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