Recensione di William Dollace
Finire un libro come Casa di Foglie di Mark Z. Danielewski mette una sensazione indefinibile di malinconia, almeno fino a quando non se ne inizia un altro. David Foster Wallace ha detto: “I romanzi sono come i matrimoni. E’ così triste finirli.” E immagino quanto dev’essere stato triste e devastante e vuoto per Danielewski finire di vivere con Casa di Foglie dopo ben dieci anni di totale simbiosi. Non credo che dopo aver letto Casa di Foglie si possa ancora parlare del vuoto stilistico della post-modernità ammesso che si sappia di cosa si parli quando si parla di post-modernità o di vuoto stilistico e visto che per alcuni parlare di postmodernismo è come parlare di niente, di un “vuoto inganno” non-sense, risponderò subito alla superficiale domanda “ma in casa di foglie c’è una fottuta storia?” Eccome, e non solo una, e come in tutte le storie, ci sono storie che si perdono lungo rampe di scale in salita, lungo scale a spirale che mutano continuamente il loro diametro ruggendo nel buio, dietro gli armadi, fra gli spazi incomprensibilmente in movimento, in fondo a ogni infinito corridoio e dietro ogni infinito scherzo, ci sono storie messe lì per raccontare altre storie o semplicemente altro, come la vita, storie che sono tutta la Storia, storie, e case, e foglie, sparpagliate tutto attorno.
Le frasi non seguono una sequenza logica ma un’apparente fluidificante crociata digitale, appaiono e scompaiono come cateteri cubitali in uno schermo luccicante, poi si sdoppiano, poi ricompaiono veloci in flash e rettangoli ricomposti e ben definiti come torrioni analogici impenetrabili. Una telecamera osserva i corpi dislocarsi secondo la noia e il disprezzo e l’ansimare della vita dentro la morte apparente, la telecamera continua a registrare gli sguardi storditi, le sedie capovolgersi, le fauci tramare, le vite scemare. Scansiona il tremore, cataloga occhi fuori sincrono scrutare. Le porte si aprono, poi lentamente si chiudono.
C’è Danielewski che narra di Johnny Truant che narra di Zampanò che narra di Will Navidson e Karen Green [omonima della moglie di Wallace] che rievocano l’esperienza dell’opera cinematografica avanguardista e sperimentale tratta dalle esplorazioni numerate della loro Casa-Incubo, “The Navidson Record”. Casa di foglie, I like it, un delirio grafico e narrativo di ottocentoerotte pagine che graffia, che fa precipitare il lettore in un buio metanarrativo multinarrativo e sovranarrativo e psiconarrativo [horror-narrativa-cinema-fotografia] per poi riacchiapparlo per capitoli e capitoli di lirismo lucido ed acuto tale da far schiantare gli occhi e da far scavalcare e scollinare le pagine laggiù oltre il vuoto insinuante che attanaglia lo stomaco.
E che dire delle note? Vero e proprio romanzo nel romanzo nel romanzo, infinito scherzo in cui si affacciano poesie collage lettere immagini scomposizioni grafiche dannazioni redenzioni urli nel silenzio candele che rischiarano un buio totale disorientante.
Casa di Foglie è un horror partorito dalla realtà e dalla penna tremolante e fulminante di Danielewski che fa ridere, che fa piangere, che non lascia scampo.