Racconto scritto e proposto da Daniele Di Maglie
“dove sono Aldobrandi
dove sono
i tuoi riccioli biondi”
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La Casa delle Blatte.
C’era scritto così s’un monolite di marmo, all’ingresso del viale. Scese dall’auto.
La terra pagava il suo tributo al sole, inerme, nell’arsura affogata dove le siepi aspettavano fiamma.
Eccola.
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Dietro una cancellata spettrale, infestata di sterpi.
Eccola, la casa delle Blatte.
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Pronunciò queste parole non senza un fremito assurdo che salì sulle gambe, e poi sulla schiena. Giù.
Nel fondo dell’anima. Nel pantano appiccicoso della memoria.
Dove abitava Virginia.
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Ci abitava Virginia in una casa così. Era estate.
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(Quasi la vedeva, anni fa, arrampicarsi sulla collina, nel suo ventre fiorito, accigliato).
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LA CASA DELLE BLATTE.
Era scritto così sul cancello. Sotto le cicale.
Sotto il sole infuocato di luglio.
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S’ergeva inquieta, dominando distese di cardi, ammantati di luce.
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Era riconoscibile una certa signorilità strutturale, specie negli ornamenti floreali alle pareti e nelle guglie a cresta di gallo sul tetto. Le finestre sprangate, abbandonate. Era chiaro che nessuno l’avrebbe accolto, nessuno gli avrebbe offerto da bere e nessuno gli avrebbe detto dov’era e come faceva a tornare a casa.
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Aprì con forza il cancello, ammirando le antiche fontane in pietra mangiate dal muschio e alcune statue di cui s’intravvedevano i piedi. Soltanto. I piedi.
Una testa di marmo, smunta, affiorava dalle spine, puntando il cielo senza vento. Immobile, tra gli sterpi.
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I piedi.
Nella luce crudele dell’afa. Non c’erano lucertole. Nemmeno una foglia si scuoteva. Nemmeno gli insetti. E la fronte friggeva d’olio e i rivoli solcavano il viso bruciandolo. Bruciandolo alacremente.
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BRUCIANDOLO ALACREMENTE.
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Qualcosa attirò la sua veglia.
Un cigolio. Il cigolio di un’altalena. Le cicale zittirono, tutte insieme.
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(La vide, sotto due enormi pini le cui creste superiori si intrecciavano a formare un arco).
Un bambino stava dondolandosi con la testa sul petto. Stava dormendo.
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>.
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Avvertì forse un po’ di vento, qualcosa.
Un debole, impercettibile soffio sul viso e sugli occhi.
L’altalena si fermò quando quello puntò i piedi e, sollevata la testa, lo vide: gettando un urlo e correndo via, dentro la casa.
Era lui.
Era lui quel bambino.
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Così le cicale ripresero a frinire e non ci fu tempo di pensare compostamente a nulla di più sensato se non di entrare là dentro (ADESSO) e ritrovare quell’apparizione per chiederle chi fosse in realtà e che ci faceva tutta sola in quella desolazione.
…
LA CASA DELLE BLATTE.
Entrò, attraversando un portone dall’aria austera che lo impressionò non poco per via di una iscrizione latina che non riuscì a decifrare.
…
> la voce rintuzzò alle pareti facendole vibrare, trasformandosi in qualcos’altro. Qualcosa di molto diverso da una semplice eco.
Un portentoso riverbero che frastagliava il suono, spezzettandolo per gruppi di ugual misura, come un delay.
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Forse per via dell’insolita struttura a labirinto o per le arcate e le volute piuttosto marcate che lasciavano presagire l’ingegno sopraffino di un antico architetto che senz’altro ne capiva di acustica. Antico, perché era evidente che quella casa aveva qualche anno in più: qualche secolo in più.
Il soffitto, le nicchie, il colonnato, gli affreschi, risentivano il peso di estati interminabili e gelsomini e mandorli in fiore, e inverni faticosi e freddi – bambini in corsa nei lunghi corridoi o vecchi solitari a lume di candela, coi volti aviti appesi alle pareti o altre faccende: ALTRE FACCENDE ANCORA -, mentre fuori cambiava inesorabilmente il mondo e il modo di costruire, di muoversi e andare dappertutto, e s’alzarono dapprima semplici palloni bianchi, neri, rossi… poi le macchine e infine la luna…
Altre storie.
Altre storie da scrivere.
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E sotto il peso di quella tesoriera, un pensiero s’innestò all’altezza della ghiandola pineale: questa casa è stregata, pensò.
(Senza fronzoli, lì per lì).
QUESTA CASA É STREGATA, disse. Mettendo le sillabe in fuga dentro il labirinto.
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(que-que-que)
(sta-sta-sta)
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Non era uno che si lasciava impressionare, né s’era mai mostrato avvezzo a familiarizzare in termini perturbativi con superstizioni di sorta o con tutte quelle astruse e ardite fantasticherie che però gli piacevano tanto e di cui nutriva, avidamente, il suo orgoglio. Il suo immaginario scettico. Uno scettico che ama gli oggetti del suo scetticismo. Per questo probabilmente doveva trovare quel bambino. Perché non credeva ai fantasmi. Questo era.
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Dentro però non si vedeva niente o si vedeva male.
E s’aprivano stanze che davano su altre stanze più grandi e più piccole, e poi scale che portavano sopra e portavano sotto…
Sentì qualcosa ai piani alti. Percorse una traiettoria circolare.
Tutto il labirinto aveva una struttura circolare, almeno a giudicare dalle curvature dei muri (per quanto la palazzina, avesse forma rettangolare e fosse disposta su due o tre piani al massimo. Di questo era sicuro. Quasi).
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Finalmente i passi. Non era lui.
> disse >.
Lo stava aspettando per mostrargli una cosa. Una cosa importante dietro una porta in cima alle scale. Una porta che aprì con delle chiavi che tirò fuori prontamente dalla tasca. Non aveva dubbi. Per quanto inammissibile e assurdo o incredibile e irrazionale, doveva convenire ch’era lei: Virginia, quando aveva dieci anni.
(“Dove sono Aldobrandi, dove dono i tuoi riccioli biondi”).
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Cominciò a raffreddare la temperatura corporea: non c’era nulla di reale in ciò che andava vedendo o annusando. Non era un sogno. Anche se non poteva stabilirlo. Nessuno può stabilire nel sogno alcunché, con assoluta certezza.
Trovandosi lì dentro una casa di blatte a cercare se stesso al cospetto dell’unico amore che avesse mai avuto e che morte avvinse, anni fa. Maledetta.
Uno spettro.
Uno spettro dell’arsura e della sete.
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Stava forse impazzendo.
Stava forse impazzendo.
Non riusciva a decifrare un percorso credibile. Non ricordava più dov’era stato il giorno prima. E perché il paesaggio era cambiato, a furia di guidare. E molte e molte altre cose.
…
Nel deserto accade frequentemente di avere allucinazioni.
Pure nel cervello degli psicotici.
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>.
>.
>.
Passarono attraverso quella porta e gli indicò qualcosa: una scatola di legno al centro della stanza, da cui spuntava un’antenna. Non una comune antenna. Aveva più la forma di un alfiere. Un alfiere degli scacchi. Un metro circa. Più sottile. Emanava uno strano bagliore.
Tutta la stanza era irradiata di una luce nuova, diversa.
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>
>
>.
>.
L’abbraccio era tangibile, vero.
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> disse lei, ritraendosi >.
>
>.
>.
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>.
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Rapidamente cominciarono ad adunarsi numerosi personaggi, molti dei quali non faticò a riconoscere e a salutare più o meno calorosamente, altri che invece non aveva mai visto: dalle strade affollate, dalle cose perdute o dimenticate. Venivano a braccetto. Venivano accompagnati e scortati. Venivano.
Venivano all’antenna.
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Come se lì in quella casa, prendesse forma e si visualizzasse ogni pensiero.
Ogni sepolto desiderio.
Come se stesse lui proiettando ogni cosa, fosse lui a governare.
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>.
>.
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Il bimbo dell’altalena era seduto per terra con altri coetanei. Non era lui. Probabilmente s’era sbagliato nel giudicarlo prima. C’erano i suoi genitori.
(Prego).
>.
>.
>.
(Prego. Si accomodi).
La voce del suo vecchio professore di fisica all’università, dietro di lui. Il professor Imhemoto, giapponese. Era stato lui a parlare. Portava un cappello di raso schiacciato sugli occhi. Conosceva bene la nanotecnologia.
(Tenga il braccio, tenga).
>.
> il padre lo interruppe >.
>.
(Come?).
>.
(Faccia un respiro adesso, si rilassi).
Il professore annuiva, nascosto dal fumo azzurro della pipa e dal cappello. Sguardo penetrante. Attivo.
>.
>.
>.
>.
> disse, puntando gli occhi sulla madre >.
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Scosse la testolina bianca.
Non sapeva che dire. Lo voleva medico.
Lui invece conseguì una laurea in Scienze nautiche e passò molto tempo a scortare turisti nei mari del Sud, prima di rinunciare definitivamente al teatro o al cinema, la sua vera passione.
LA SUA PASSIONE.
Non sapeva che dire, sua madre. La madre di Marsilio.
Marsilio Aldobrandi: capitano in seconda del mercantile ARTEMISIA.
Attore di terza fascia.
Protagonista in “NON CHIEDETEMI PERCHE’LO FACCIO”, “IL RITORNO DELLE SABINE”, “LA DICHIARAZIONE DI GUERRA DI JACK LA FALENA”.
Film che nessuno ha visto.
Marsilio.
Detestava la marsigliese perché aveva sempre appoggiato gli inglesi.
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Suo padre lo considerava un fallito.
E lo coinvolse nell’esperimento, a sua insaputa. Anni fa.
Era ancora un bambino quando lo iscrisse al Programma. Dovevano testare alcuni prototipi su “cavie da laboratorio”. Davano un mucchio di soldi. Ma lui non lo fece per soldi.
Lui, suo padre: credeva alla nanotecnologia, perché le nanomacchine, diceva, avrebbero liberato il vero potenziale umano, sollevando il mondo dal dolore e dalla malattia.
Per sempre.
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L’aria era piena di fumo. Non c’erano fessure o spiragli.
Con un colpo di tosse, finalmente, parlò il professore:
pietra filosofale. Oggi, qui, in questa casa, abbiamo avuto dimostrazione del fatto che possono collegarsi tra loro. In verità lo sapevamo. Possono dare corpo ai pensieri, alterando sensibilmente le nostre percezioni. Possono chiamare a raccolta. Comunicare telepaticamente. Questo pone un problema circa la loro autonomia e circa la possibilità che possano evidentemente svilupparsi nanotecnologie nemiche o antagoniste. Ma a tutto questo. A tutto questo, caro mio: come verranno utilizzate e con quali scopi e chi le controllerà e con quali garanzie, ci penseremo dopo. Oggi è un giorno straordinario. Oggi siamo entrati nel futuro>>.
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La luce diventò bianca, forte. Calda. Sul torace. Sui capelli. Sugli occhi.
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>.
>.
Aveva il camice bianco, gli occhi accigliati.
>.
…
Le facce iniziarono a moltiplicarsi. A parlare.
Le voci s’intrecciarono, mescolandosi intorno all’antenna. E tutti si accalcarono.
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E dalle pietre, dalle fessure, dal fondo delle tubature arrivarono le blatte.
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Centinaia, migliaia di blatte, con le antenne lunghe e gli addomi luminosi.
Le zampe seghettate, viscose. Gli occhi neri.
Salirono sui corpi. Entrarono nelle narici. Nelle bocche. Nei buchi di culo.
Fino a che, a mezzanotte, l’antenna si spense.
…
L’antenna si spense, la luna si spense. L’ospedale si spense, mutando per sempre il suo aspetto.
E tornarono a casa.
(Tutti, tranne Virginia che era morta e avrebbe abitato i suoi ricordi ancora per poco. Le nanomacchine l’avrebbero cancellata per sempre).