Recensione di Andrea Corona
«In poche parole, il mondo è fottuto». L’eroico e solerte agente Pat Coyne, soprannominato Mister Suicidio per via di uno sprezzo del pericolo alla Joe Swanson de I Griffin, si sveglia un mattino accorgendosi di non capirci più nulla della vita della metropoli, della sua Dublino, dell’Irlanda e in generale del mondo “civilizzato”. Non c’è discorso dell’agente Coyne – appassionato di antropologia e di ecologia, oltre che di precisione linguistica e grammaticale – che non sfoci in una dissertazione sul consumismo o sull’inquinamento. Più precisamente, con lui tutto culmina con la fine del mondo. E con l’idea fissa di un diluvio che sommergerà l’Irlanda.
Eppure, Pat Coyne è come un padre per la città di Dublino, i cui sobborghi e abitanti sono protetti dal suo occhio vigile e dal suo braccio potente. Non c’è angolo di strada che non abbia conosciuto la sua gentilezza o, all’occorrenza, il suo manganello. Coyne è un semplice agente di pattuglia, ma decide che è giunto il momento di dare una ripulita alla città; e l’unico modo per farlo è quello di «risalire direttamente dalla merda al culo che l’ha cacata». E il culo di Dublino si chiama Berti Cunningham, detto il Batterista, un gangster che in pubblico si atteggia a filantropo e che ha la faccia tosta di organizzare un evento in memoria di Dermot Brannigan, un uomo che ha egli stesso torturato, crocifisso e trucidato. Ma quando Coyne si troverà finalmente face to face con il Batterista, non riuscirà ad esprimergli tutto il suo odio se non gridandogli a pieni polmoni che l’insegna del suo locale presenta un errore ortografico.
Era molto tempo che un romanzo non mi divertiva così tanto, e non solo per le metafore di carattere fecale che vi abbondano. Il punto è che Pat Coyne è soprattutto un incompreso, perché è l’unico a conoscere il vero volto della metropoli, un volto sudicio e al contempo grottesco che gli si mostra quotidianamente durante il pattugliamento: ragazzi che parcheggiano in sosta vietata allo scopo di mostrare le chiappe a chiunque gli si avvicini, zingare che prendono a colpi di remi gli autobus agli incroci stradali, furti dove sono i ladri a chiamare la polizia perché li tragga in salvo dai serpenti, cadaveri impiccati che si scoprono essere fantocci di film horror… Come se la follia urbana non bastasse già a mandarlo ai pazzi, inoltre, Coyne scopre che da un po’ di tempo la moglie Carmel posa nuda per un imbecille, tale Gordon Sitwell, un latin lover da strapazzo che tiene un corso d’arte per principianti. E Coyne, va detto, odia l’arte. Come si evince dai suoi reiterati borbottii e brontolii («C’è troppa creatività nel mondo. Ecco cosa c’è che non va in questo posto. Troppe porcherie»).
Non è difficile capire perché l’agente Coyne, un po’ come lo sceriffo maccartiano-coeniano di Non è un paese per vecchi, inizi a sentirsi disorientato e alienato. E a fantasticare di fuggire in Amazzonia a bordo di una zattera. Anche lui, in fondo, è un cowboy stanco di cavalcare. O, se preferite, uno scoppiato.
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Andrea Corona
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