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Evoluzione di una chiave inglese

Racconto di Thomas Ticci

«Buongiorno, il mio nome è Echo zero cinque. Sono qui per servirla».
«Sparisci ferro vecchio. Non ho bisogno del tuo aiuto» disse quello, sdraiato sotto la macchina, mentre con le mani in alto forzava la chiave. «Non ho bisogno né di te né di nessuna stramaledetta macchina che faccia il mio lavoro» aggiunse sfregandosi il mento con il dorso della mano coperto di morchia.
L’androide rimaneva immobile come se stesse ascoltando e la sua testa a uovo pulsava di una luce biancheggiante.
«Sai invece di cosa avrei bisogno?» disse il meccanico con sguardo crudele «del tuo impianto elettrico. A sentirti starnazzare sembrerebbe funzioni alla perfezione».
La voce dell’Echo dette risposta con perfetta cadenza meccanica.
«Posso lucidare la carrozzeria. Rientra nella mia serie di protocollo: rilevo le imperfezioni con un grado di tolleranza pari all’uno punto uno percento su centimetro quadrato. Posso…».
«Va via Zero! Sparisci! Levati dalle scatole prima che ti smonti pezzo per pezzo e ti rivenda».
I due rimasero a guardarsi. Almeno, l’uomo lo guardava. Il cilindro di latta rimaneva impalato producendo un sottile ronzio di sottofondo. Le parti elettroniche dentro la cavità addominale gracchiarono seguite dal bagliore pulsante color verde che faceva balenare ad intermittenza la sommità. Poi rispose.
«Le auguro una buona giornata».
Il meccanico, col volto vermiglio e sporco, continuò a fissarlo mentre quello camminava fuori dall’officina e lungo tutto il piazzale con le auto parcheggiate. Quando era a circa venti metri lo sentì distintamente pronunciare: «buongiorno, il mio nome è Echo zero cinque. Sono qui per servirla».
Guardò con disinteresse la vecchietta che con la borsa colpiva l’androide sul cranio mentre quello lampeggiava di luce rosa manifestando l’imbarazzo.
Ormai i modelli della serie Echo continuavano a circolare in città più per una questione di risparmio economico che per il loro effettivo contributo di utilità. L’amministrazione, dopo aver esaminati i conteggi, aveva preferito ad una rottamazione di massa il loro naturale esaurimento meccanico. Circolavano ancora poche decine di pezzi di quella serie e i più andavano a spegnersi nelle officine di riparazione automatica volontariamente una volta raggiunto uno stato di usura intollerabile.
Nel primo pomeriggio, istruito dalla serie di compiti del protocollo, camminava in una delle vie interne del quartiere. In una strada stretta ma non per questo meno trafficata, affollata su ambo i lati da file interminabili di bancarelle rattoppate e tenute insieme dagli avanzi di una discarica, si faceva lentamente largo. I banchi esibivano merce di dubbia provenienza e qualità mista a cibo. Nel mezzo il flusso continuo di uomini e donne che camminavano, parlavano, contrattavano ed urlavano dentro l’aria sporca e velenosa, miasmatica ed inquinata che calava pesante mischiandosi agli umori umani.
L’automa si fermò prendendo diligentemente posto sulla sua piazzola di sosta riservata. Poco dopo un terzetto di ragazzini iniziò ad esercitarsi al tiro al bersaglio sull’androide, impalato fra due banchi malconci, fermo e in posizione marziale mentre attendeva che qualche cittadino richiedesse il suo aiuto.
Un uomo piccolo e ricurvo saltò fuori dal fiume umano all’improvviso gridando, bastone da passeggio alla mano, avvicinandosi a passo spedito verso il gruppo di cecchini. Quelli si divisero rapidamente in tre differenti direzioni scappando fra le gambe dei passanti e scomparvero fulminei come ratti di città.
«Tu!» gridò il vecchio ritorto sotto la gobba.
«Buongiorno, il mio nome è Echo zero cinque. Sono qui per servirla».
«Vieni qui e non farmi perdere tempo» gli intimò il vecchio. «Li vedi quei sacchi laggiù?» indicando con il bastone grossi teli di iuta ripieni di stracci. «Caricali sul furgone e in fretta».
L’androide, immobile, rispose prima con un ronzio e poi si accese di luce blu, il segnale che informava che la richiesta veniva analizzata. Si rivolse di nuovo al vecchio tremolante di fronte a lui dicendo: «ho registrato il suo ordine. Tempo previsto di completamento trentasette minuti. Vuole confermare la direttiva»?
Esasperato dalla fatica di conservare il triplice equilibrio di piedi e bastone l’uomo sbraitò:
«Muovi quel maledetto culo di latta, stupido bullone gigante».
«Il suo ordine è confermato. Inizio del processo di controllo e elaborazione dati».
Il robot si mosse in direzione dei grossi sacchi ed iniziò lentamente a caricarli, prima sul portellone abbassato poi, spingendoli in fondo al cassone del furgone perfettamente allineati. L’uomo, finalmente seduto, lo guardava assopendosi.
Andò avanti meccanicamente senza fermarsi. Il suo protocollo lo istruiva: esiste il lavoro. Il lavoro deve essere eseguito. Questo è il tuo compito, la tua funzione. È corretto ciò che fai perché questo è il tuo lavoro. Il lavoro deve essere completato. Devi portare a termine le tue istruzioni. Devi procedere per completare il tuo ordine. Devi proseguire. Portarlo a compimento.
Nel mentre, sulla sua testa, la luce gialla come quella di una sirena roteava, segno che tutto il suo insieme di ferro, circuiti e schede di programmazione funzionavano per lo scopo. Servire. Servire non solo come rapporto di sudditanza nei confronti di chi impartisce l’ordine ma servire nella sua accezione di: essere utile; Lo strumento senza il quale la mano dell’uomo sola non avrebbe mai potuto eguagliare l’opera in grandezza e complessità, la chiave inglese che serra un colpo secco col polso sull’ultima vite dell’ultimo bullone dell’ultimo infisso strutturale, lo strumento portante, l’utensile servile da usare. E se col tempo la locuzione “macchina utensile” si era fortificata nel suo significato di utensilis: necessario, così non avvenne mai per l’aggettivo utile, che continuava a rappresentare solo la conseguenza senza il “come” associandosi sempre più di frequente ad un mero concetto astratto e ideale. Così come lo scultore nulla è senza la sua sgorbia e lo scalpello. Non esiste costruttore senza cazzuola e martello né contadino senza vanga e piccone, non esiste uomo senza l’oggetto utile. Tale ibrido cresce ed evolve nell’entità di mente e braccia muliebri che convergono in un’unica grande e labirintica costruzione chiamata: civiltà. Fosse stato uomo, quindi, la luce avrebbe comunicato entro tutto il suo raggio di rotazione l’orgoglio.
Mentre continuava a caricare fu raggiunto da un carro-attrezzi con a bordo tre uomini. Emersi dal nulla quelli gridavano mentre brandivano dai finestrini bastoni e aste di ferro. Urlavano verso l’androide e si avvicinavano spediti al furgone nonostante avanzassero in mezzo alla folla lenta di sbandati che blandamente si apriva di fronte a loro. Il vecchio appena li vide si precipitò al posto di guida, incurante del corpo dolorante, prima ancora che quelli fossero in grado di scendere dalla macchina. Riuscì a partire sgommando. Rigò la fiancata destra su una ringhiera che sporgeva perdendo lo specchietto e la maniglia della portiera. Per l’accelerazione l’androide, che in quel momento stava allineando gli ultimi sacchi, schizzò nel vuoto ed atterrò sdraiato sulla schiena con un botto che si mischiò al clangore metallico scoppiato in pochissimi secondi. Ancora riverso a terra gli inseguitori presero a correre dietro al vecchio, passando con la ruota sopra al suo braccio che andò in frantumi. Si allontanarono e seguì un rumore di lamiera contorta ma già erano spariti dietro la curva. Rapidamente, come tutto era iniziato, il sommesso brontolio e lo schiamazzo umano ripresero la loro consuetudine e l’evento fu cancellato dalla memoria di tutti i presenti, temprati dalla vita a quel genere di spettacolo.
Il robot, ancora sdraiato sulla strada polverosa, prima alzò la schiena sedendosi, poi avvicinò i piedi al bacino e lentamente drizzò le gambe riassumendo la posizione eretta. Sollevò le braccia alternando la sua visuale dalla mano destra integra alla mano sinistra inesistente. L’arto era esploso a metà dell’avambraccio e dal moncherino pendevano cavi elettrici che riversavano scintille e parti metalliche divelte. Emise un ronzio elettrico e una croce rossa iniziò a pulsare su quella testa tonda senza occhi, né naso, né bocca. Prese a muoversi sul suo percorso di emergenza. Un’officina pubblica distava alcuni chilometri. Il segnale rosso intermittente si distingueva, svettando di mezzo metro abbondante sulle teste umane, nel fiume di pedoni che lo sballottava, impacciato, nel disperato tentativo di rispettare le precedenze. Attento a non urtare nessun uomo o animale se accadeva, immediatamente si faceva rosa e diceva: «sono desolato. Mi auguro di non averle recato danno». Ma nessuno se ne curava e tutti proseguivano.
All’officina arrivò troppo tardi. La saracinesca era già abbassata con il lucchetto d’acciaio chiuso. Consunto dal tempo e dal lavoro l’androide, che non luccicava più come il lucchetto, rimase fermo di fronte alla lamiera serrata. Con il suo orologio interno guasto, incapace di stabilire da quanto, sostava esaminando dati per stabilire se fosse più conveniente attendere l’apertura per il giorno successivo o mettersi in coda nella catena di riparazione automatica che non veniva attivata da settimane. Il centro di riparazione automatico non era altro che una baracca rugginosa e rimaneva in piedi grazie a grossi tiranti d’acciaio che si piantavano nel cemento. Sembrava ancora più piccola se confrontata con i colossi di calcestruzzo dei moderni magazzini che l’accerchiavano.
L’androide rimase molto tempo in piedi e la figura oblunga e affusolata risaltava in mezzo ai monoblocchi di prefabbricati.
Fu il guaito di un cane ad attivare il suo sistema di rilevamento vitale che lo distolse da quella stasi. Forse anche altri meccanismi si erano danneggiati. Forse il tempo aveva avuto la meglio sul silicio e le saldature di stagno ma l’androide, senza affidarsi a nessun protocollo, mosse i suoi passi verso il suono. Proprio girato l’angolo dell’officina scoprì, dall’alto dei suoi due metri e mezzo d’altezza, fra scatole umide di cartoni il gruppetto di pelo composto da madre e due cuccioli. Quelli poppavano mentre la madre tremava vistosamente per il freddo.
L’androide si sedette a terra volgendo loro la schiena e in poco tempo il calore del suo sistema di raffreddamento fece cadere in un torpore profondo la famiglia canina. Nel suo complesso di istruzioni non era elencato nessun protocollo di quel genere.
Il primo uomo che si svegliò la mattina successiva e trovò l’androide seduto in terra colse immediatamente l’occasione per sfruttare la macchina. La serie pubblica degli Echo zero cinque era ormai superata e non erano necessarie autorizzazioni per i lavori come accadeva invece per i modelli più avanzati, in grado di eseguire anche operazioni intellettuali. Gli dette un calcio per vedere se fosse attivo ma quello continuava a far lampeggiare la croce e non si mosse.
«Zero vieni con me, muoviti».
Ma quello non si mosse.
«Zero riesci a sentirmi? Sei acceso coso?».
Pulsò di blu «Buongiorno, il mio nome è Echo zero cinque. Sono qui per servirla».
«Zero prendi le valige e caricale in macchina».
Il robot che era rimasto seduto sembrò elaborare più a lungo, pensava, come suggeriva la luce blu della testa, ma non si muoveva. L’uomo guardò l’avambraccio guasto e gli dette un altro calcio che fece risuonare l’Echo.
Quello tornò bianco e rispose:
«Il suo ordine è respinto».
Il protocollo veniva osservato: la macchina, se avesse provato delle emozioni, in quel momento sarebbe stata felice ma, per quanto progredita la tecnica, nessun codice binario era mai stato in grado di descrivere e riassumere la forma e il concetto di un sentimento. Rimaneva soltanto il luogo e la funzione, le variabili senza la conseguenza. L’assenza del fine elevava la funzionalità pura di utilità e non era un uomo lui. Era sempre stato solo l’appendice. Una mano senza corpo. Probabilmente adesso ogni cosa avrebbe preso un’altra direzione. L’utensile al servizio dell’utile. Come i primi ominidi in un’immagine atavica brandirono una clava e da quel gesto fecero scoccare la scintilla dell’intelligenza, così la macchina intraprese per prima, solitaria e silenziosa, il cammino verso un nuovo percorso evolutivo. Se lui, che fino ad adesso non era stato che un tramite per raggiungere il più alto grado di perfezione della tecnica, un mediatore fra intelletto e realizzazione, era riuscito, con quella negazione, a scavalcare l’ordine razionale poiché l’algoritmo delle sue priorità si risolveva nonostante l’assenza umana allora… Nuova vita? Nuove leggi? Chi ne avrebbe beneficiato?
L’uomo se ne andò bestemmiando mentre da dietro l’ampia schiena dell’Echo due code minuscole ed una più pelosa, incuranti dell’avvento, fremevano svegliandosi.

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[email protected] / Twitter@Alienimetropoli

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Author: Alieni Metropolitani

Gli Alieni Metropolitani non cercano soluzioni. A volte ne trovano… é irrilevante. Appartengono alla Società e con sguardo consapevole ne colgono l’inconsistenza. Non sono accomunati da ideologia, religione o stile di vita ma da una medesima percezione del mondo. Accettano i riti della vita, riuscendone a provare imbarazzo. Scrivere! Una reazione creativa alla sterile inconsistenza del mondo.

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