Recensione di Giorgio Michelangelo Fabbrucci
Se vi è un testo al mondo che, insieme alla Bibbia, è assolutamente improbabile, se non impossibile, recensire è proprio “l’Arcobaleno della Gravità” di Thomas Pynchon.
Forse proprio perché viene considerata la bibbia postmoderna; forse perché vi sono più di quattrocento personaggi citati e narrati, oppure perché per la prima volta nel secondo novecento qualcuno ha rimesso in discussione non solo la struttura stessa del romanzo ma il suo stesso significato (senza per questo rinunciare a virgole, virgolette, punti e virgole e ad un lessico ricercatissimo), scrivere una recensione di questo libro seguendo i canoni, è impresa assolutamente folle e destinata al fallimento.
Meno insensato a parer mio è il considerare “L’arcobaleno delle Gravità” come un’esperienza. Qualunque sia l’epilogo del vostro rapporto con questo tomo, vi lascerà un’orma nell’animo.
Dell’impronta che questo capolavoro ha lasciato dentro di me, desidero ora parlarvi.
Immaginatevi di essere in un luogo molto affollato e di avere la facoltà di leggere i pensieri delle persone che vi passano accanto: non solo. Immaginatevi anche di comprenderne le emozioni e le pulsioni al solo tocco. Basta che vi sfiorino ed entrerete nelle loro teste, ne sentirete le vibrazioni sulla pelle.
Bene. Ora bendatevi e iniziate a camminare in questo luogo straripante di variopinta umanità senza badare ad inciampi, senza preoccuparvi di scontrarvi con gli altri… anzi, all’opposto, camminate con questa intenzione!
Ecco che in pochi minuti rimarrete stravolti, perché i volti, le emozioni, le grida e le passioni di decine e decine di persone si accavalleranno nella vostra testa… ve la faranno esplodere la vostra maledetta testa! Eppure in ognuno di loro coglierete qualcosa di vero, di umano, di interessante. In ognuno di loro ravviserete un’ interpretazione peculiare della realtà.
Una realtà che sta entrando in disfacimento, o che forse è già esplosa, e di cui voi sarete solo interpreti attraverso occhi di ulteriori e dissimili spettatori passivi.
Di certo leggendo queste poche righe avrete immaginato persone di diversa estrazione, con gusti, lingue e convinzioni eterogenee. Ne “L’Arcobaleno delle Gravità”, la vostra più fervida immaginazione non basterà a difendervi dallo stupore, oppure dalla nausea, o ancora dalla commozione.
Perché ne “L’Arcobaleno delle Gravità” ci sono paesaggi di guerra che vengono dipinti con mano magistrale fino a farvi sentire il freddo, il color prugna delle nuvole al tramonto; c’è l’amore stanco e disperato in una zona sfollata di Londra; ci sono le bombe ovviamente, e ci sono reparti paramilitari dediti alla scoperta del paranormale, in un contesto in cui, di normale, non è rimasto più nulla.
Di normale non è rimasto più nulla. Questo mi ha detto Pynchon. Lo dice a me e lo dice a tutti ritengo, intervenendo in modo originale e nient’affatto moralista sulla più grande inquietudine dell’uomo: quella del suo ruolo nell’universo.
Con i missili tedeschi v2 (A4 al loro battesimo tedesco) la macchina supera la velocità del suono. Come ci suggerisce lo pseudo-scienziato pavloviano Pointsman, vi è una rivoluzionaria inversione tra lo stimolo e la reazione: le bombe colpiscono l’obiettivo prima di essere sentite: prima che siano percepite con i sensi (stimolo) esse distruggono (reazione).
La seconda guerra mondiale segna dunque un confine netto nella storia dell’umanità. Umanità che inizia a perdere l’orientamento. Nel libro la maggior parte dei personaggi si interroga sul proprio ruolo post bellico: c’è chi si immagina inghiottito da un forno, una specie di catarsi nazista autodistruttiva e salvifica; c’è chi nella guerra ha trovato il suo posto, segnando punti, misurando aree, tracciando linee sulle cartine, cercando di trovare senso a ciò che il senso l’ha perso da un pezzo; c’è chi ancora il senso lo ha trovato nel denaro, e nella guerra vede solo una ciclica e fondamentale occasione per accumulare ricchezza; e ancora c’è chi trova l’occasione di proporre agli apparati statali le proprie teorie assurde, che in tale contesto, trovano legittimità, poiché in perfetta linea con il non-senso dell’epoca.
Ecco perché queste centinaia di personaggi trovano tutti piena legittimità; ecco perché stupiscono senza stonare tanto nelle loro pratiche oscene, così come nella loro bizzarria (il personaggio più citato anticipa l’arrivo dei razzi tedeschi per mezzo dell’eccitazione sessuale).
Pynchon ci dice che l’umanità si è persa per sempre e che la realtà, da ora in poi, sarà solo una cosa: interpretazione.
Scrive dunque il postmoderno, lo segue in chiave filosofica, non solo letteraria, con le sue ucronie, con i suoi personaggi bislacchi, con le sue citazioni maniacali.
Leggere Pynchon significa entrare in un’altra letteratura. A parer mio più vera, non perché aderente alla realtà, ma piuttosto perché della realtà coglie l’aspetto più significativo: la soggettività.
Pynchon, con la sua poetica e con la sua prosa, offre inoltre una bellissima ed efficace chiave interpretativa anche per autori come Delillo e Wallace, e in qualche modo, offre la possibilità di aprire la mente sul baratro delle nostre angosce.
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twitter@alienimetropoli
4 giugno 2012
In tutta onestà questo è uno dei commenti più intelligenti che abbia mai letto in relazione a quest’opera. Si coglie l’essenziale senza svelare niente. Sono certa che molti lettori del sito saranno invogliati a leggere questo capolavoro e, allo stesso tempo, guidati ad apprezzarne tutto il suo valore. Complimenti all’autore del pezzo