Racconto scritto e proposto da ROS
Anno dopo anno ritorno per le vacanze ad Ostuni. Vi ho comprato una vecchia casa ‘nd a la terra, il vecchio centro dove un tempo c’era la vita e ora ci siamo noi villeggianti, usurpatori invisi ai pochi superstiti abitanti del luogo: gli altri sono andati ad abitare nella zona 176, dove hanno case nuove, comode, spaziose. La mia casa è piccola, scomoda: un tempo però ci stavano in dieci.
Quando arrivo ad Ostuni per le vacanze, prima ancora di salire sul terrazzo a controllare lo stato delle piante, il rito prevede una visita al garagista.
Lui è sempre lì: il cancello è aperto, il cortile invaso di gatti mezzo ciechi, davanti a una minuscola porta verde c’è un vaso di basilico ben curato. Non bisogna mai lasciare che l’acqua ristagni nei vasi, mi ha detto un giorno il garagista. Il cortile è come sempre deserto, ma non si deve assolutamente bussare: l’uomo presto emerge, come un’apparizione, dalla porticina verde socchiusa o da un androne oscuro, in fondo al quale mi sono sempre domandata cosa possa nascondersi. Il garagista ha un’età indefinibile, che non deve essere distante dalla mia, i calzoncini corti attorcigliati a renderli ancora più corti, la camicia semiaperta che lascia intravedere lo stomaco, i birkenstock ai piedi, di un colore violetto. Tra le mani stinge una sigaretta, che va a spegnere in un lavandino di pietra e poi getta in una vaschetta di quelle che usano i muratori per impastare il cemento, piena di migliaia di mozziconi. La trattativa è breve, mi offre come sempre un posto in fondo alla “caverna”, dove un tempo c’era un frantoio, cui si accede da una ripida rampa, col terrore di cozzare con la testa (dimentico quasi che dovrò percorrerla in macchina) contro il basso soffitto. Inutile provare a impietosirlo per ottenere un posto più comodo, il mio posto è quello: “non avrai mica paura a scendere? Qui fuori tengo le macchine più grosse”. L’unica macchina che vedo è un doblò verde, sempre lo stesso. Un villeggiante forestiero lo tiene qui tutto l’anno e il garagista se ne occupa con dedizione: lo sposta a seconda del sole, ogni tanto gli fa fare anche un giro. Quello che dirà lo so già, ma glielo lascio ripetere e lo ascolto con attenzione. Mi mostra dove si accende la luce dell’androne; mi raccomanda di non dimenticarla accesa perché altrimenti la lampadina si fulmina e cambiarla è un problema, vista l’altezza del soffitto; mi spiega esattamente la manovra che devo fare per posteggiare la macchina e per uscire; mi mostra i punti precisi dove le ruote devono andare a fermarsi. Nel frattempo siamo scesi nell’antro: c’è un forte odore d’umido, il pavimento è ondulato e sdrucciolevole, ho sempre il terrore di essere assalita da uno stormo di pipistrelli. Ma questo al garagista non lo dico, non vorrei offenderlo e sfodero tutta la mia sicurezza: perfetto non c’è problema. Quando riemergiamo la luce accecante del sole mi costringe a socchiudere gli occhi. L’uomo si dirige deciso verso il cancello, un vetusto portone di ferro che un tempo, come tutto qui dentro, dev’essere stato molto bello. Ora è mezzo scrostato, in alcune zone la ruggine ha aperto dei varchi, al punto che non si riesce a capire come faccia a stare in piedi. Ma per il garagista quello deve essere il più bello dei portoni possibili e lo è anche per me, così ascolto paziente la spiegazione che conosco già a memoria: mi dice come si deve usare la chiave, dove va posizionato il fermo dell’anta sinistra, come vanno bloccate le due porte perché il vento non le faccia sbattere. Alla fine mi dà la chiave, un gesto di grande amicizia perché lui quella chiave la concede solo ai clienti fidati, quelli che non lasceranno nulla in disordine. La spesa come sempre è modesta, ma non esiste un’unica tariffa: il garagista modella le sue richieste sull’utenza, a ognuno il prezzo che merita. Non so in base a cosa decida, forse ci studia mentre ascoltiamo la lezione, forse guarda le nostre macchine, o forse semplicemente ci guarda e capisce di che pasta siamo fatti. Quelli che superano l’esame a pieni voti, tra cui mio cognato che lui chiama col suo vero nome, ottengono il privilegio di qualche confidenza. Così apprendo che gli piacciono i Giganti, che di notte, dopo essere tornato dal bar, dove si reca puntualmente ogni sera vestito di tutto punto alle otto, dopo aver chiuso il prezioso portone, legge o guarda vecchi film. Cosa faccia di giorno non so immaginarlo. Ogni tanto, vergognandomene, provo a spiare oltre la porticina verde sempre socchiusa per rubare qualche traccia della sua intimità, ma quel che riesco a percepire è troppo poco. Forse il garagista di giorno dorme e si risveglia solo quando sente arrivare qualche macchina: controlla non visto e torna a dormire. Raramente esce, come quella volta che mi ha visto arrivare in compagnia della mamma (se arrivo da sola non lo fa mai, suppongo per discrezione) e ci ha accompagnate nella caverna per poi raccontarci la storia dell’affresco che ancora si intravede sul muro che ne sovrasta l’accesso. Si tratta di un dipinto della Madonna del Carmine, di cui suo nonno era devoto: anche lui partecipa ogni anno alla processione in suo onore che si svolge durante l’estate, con la devozione che immutabile nei secoli si tramanda quaggiù, di padre in figlio.
Mi piace questo mondo, vorrei che restasse per sempre così, vorrei proprio che il garagista fosse eterno, come una statua o come i muretti a secco che circondano la sua casa o le pareti coperte di calce.
Vorrei che la mia nipotina facesse in tempo a conoscere tutto questo.