Racconto Breve di Giorgio Michelangelo Fabbrucci
Cosina arrivò sul treno. Trafelato. La camicia aderente, cosparsa di piccoli pallini azzurri come zucchero colorato la torta, lasciava trasparire una peluria rada, chiara. Una pashmina beige, venata di ampie losanghe color caffé, sventolava dalla grande borsa Fendi, creando un contrasto dirompente con quel volto da gallina. Un viso assai modesto quello di Cosina, che trovava però nello sguardo indagatore, negli occhiali spessi D&G e ancor più (rimanendo nella famiglia dei volatili) negli aspri baffetti da sparviero, una specie di rivincita.
Sbuffava Cosina. Sbuffava come un pazzo perché era stato abbandonato dai suoi colleghi a Palazzo Pitti per gestire due piani di manichini e appendiabiti per una delle più importanti firme clone di tutto il globo. Da ragazzino Cosina sognava Gucci, Trussardi, Armani. Il destino però ebbe qualcosa di diverso per lui. Infatti, grazie alla metodica pignoleria con la quale appuntava ogni variazione delle collezioni (le segnava su di un taccuino Oxford standosene seduto per terra, all’ombra di un cameraman amico che lo spacciava per tecnico luci al fine di fargli assistere alle sfilate), divenne subito famoso in città per le invettive isteriche (e un po’ razziste a detta di alcuni) che indirizzava all’attenzione di arabi ed africani intenti a vendere merce nei pressi del Ponte Vecchio: “Non vedi che la scritta non coincide sui bordi della cucitura?” – “Ma dai, il brand sta a destra della polo, non lo sai?” – “E no scusi, a chi vuol darla a bere, questa borchia è di ottone! L’originale è in rame, non lo sa?”. Oltre a questo vezzo, Cosina ne aveva un altro: fotografare le vetrine. Anche in questo caso la sua innata puntiglieria lo portava ad eccessi bizzarri. Un giorno chiese al signor Bruno, rinomato sarto di camicie cifrate, di spostare un capo sulla parte destra della sua esposizione, in modo che fosse meno in ombra. – “Maybe mi si rovina la foto”, gli aveva detto. Fu così che Bruno lo fece entrare in negozio chiedendo una mano e, una volta portato Cosina in vetrina, lo riempì di botte: una brutta parentesi per Cosina, ma anche uno spettacolare Reality senza pari per passanti annoiati.
Arturo lo osservò. Non lo vedeva bene perché, tra lui e Cosina, si frapponeva un uomo riccioluto. Nondimeno pregò Dio che suo figlio non diventasse come Cosina, o quanto meno, che lui non lo venisse a scoprire. Lui desiderava che suo figlio iniziasse dal basso, dalle mansioni più umili, prima di prendere le redini della premiata ditta bergamasca “dei Fratelli Ponteranica”. In modo del tutto incosciente proiettava l’immagine dell’erede nell’iperuranio immutabile degli eroi classici. Muscoli scolpiti e lucenti, mentre con il sorriso e qualche goccia di sudore splendente al sole, trasportava travi e plinti su una spalla, salutando con la mano libera le belle donne in bicicletta che sfrecciavano come saette di Zeus laggiù, sotto il ponteggio. Crescendo suo figlio avrebbe avuto una moglie e tre amanti più belle della moglie, avrebbe saputo far bene di conto e inoltre, di questo era assolutamente persuaso, avrebbe conosciuto tutte le ultime tecnologie, o come si diceva dalle sue parti, tennologie. La premiata ditta “dei Fratelli Ponteranica” avrebbe così invaso la rete, avrebbe raggiunto le vette di Google e in più, avrebbe siglato partnership con le più grandi emittenti televisive, per le quali sarebbe diventata fornitrice monopolista di ponteggi per Action Movies ad alto rischio come “Carabinieri” o “Distretto di Polizia”.
Ancora sdraiato sul letto dell’ospedale, intimamente appagato della cifra a qualche zero che l’assicurazione avrebbe assicurato lui a parziale risarcimento delle violenze subite, Cosina ebbe una visita che gli cambiò la vita. Un signore niente affatto alto, dalla pelle color limone, intabarrato in un soprabito alla tenente Colombo, lo salutò con un vocino acuto. “Salve. Sono Wu”. Si presentò così. Diffusa era la leggenda che in Italia, per comprensibili ragioni di pronuncia, i Cinesi amassero farsi chiamare tutti Wu. Così chiese subito, come era proprio del suo carattere: “ma sei sicuro di chiamarti Wu? Maybe potresti chiamarti in mille altri modi incomprensibili!”. Il Cinese, che invero, come tutti noi sappiamo, avrebbe potuto ammutolirlo con un singolo colpo di karate, decise di sorridere e rispose quieto: “Glazie della domanda”. Successivamente, aiutato dal silenzioso stupore di Cosina, descrisse per un’ora il suo mestiere, chiedendo a Cosina: “vuoi diventale nostlo vetlinista intelnazionale?” – “Maybe”, rispose Cosina. Poche ore dopo firmò.
Così iniziò a viaggiare per il globo, mostrando al mondo gli abiti belli di Pucci, Trada, Argani, Prussardi ed altri mille stilisti che, con il sostanzioso aiuto della crisi economica, divennero ben presto apprezzati, o se non altro, acquistati.
Definirlo orgoglio potrebbe essere un esercizio polemico, di dubbio gusto a dirla tutta. Ma Alfio amava nutrire questo genere di sentimento notando la drastica differenza che intercorreva tra i suoi pantaloni a zampa e gli altri, noiosamente identici, con quella conclusione scontata alla caviglia, con quell’adagiarsi preciso e seriale su scarpe in pelle. Lui era differente, perché il Tao aveva scelto così per lui, ed il pantalone a zampa lilla era solo una delle innumerevoli dimostrazioni estetiche del suo essere altro. L’Arte, con tutte le muse greche e cinesi commiste, lo aveva scelto come suo cantore. Ne era certo. Per questo a soli sedici anni scappò di casa con la sua fidata Fender ed una lunga coda di cavallo anglo-arabo-sardo. Se ne stava seduto anche lui, cullato dal tung tung del binario, cercando assonanze folli con gli asoli di Hendrix, che avrebbe poi interiorizzato, riproponendoli tra le vie di Milano con la sua custodia aperta di questua vermiglia, tra i passanti assenti, indifferenti alla genialità che spontanea, vibrava tra le corde pizzicate. Eppure vi era una vibrazione negativa nell’aria. Un’energia livorosa e disperata, che quasi fosse un’onda d’urto di un tamburo di abisso, batteva agli stipiti della sua concentrazione zen. Fu allora che Alfio sollevò il capo dal pavimento, e scoperchiò le palpebre come in un primissimo piano sullo sguardo di un guerriero da epic movie cinese… e vide Cosina. “In lui di certo dimora un soverchiante Yang”, pensò. Richiuse pronto gli occhi, serrando le mani e cercando nel suo IO più profondo la dispensa di forze positive che avrebbe richiamato alle armi dai recessi del suo animo. “Mmmmm”, gridò dentro di se, pronto allo scontro meta fisico.
“Cioè capisci? Mi hanno lasciato sola con due piani da gestire. Poi non che avessi tanta possibilità creativa. Ma allora cosa sono? Cioè mi danno le fotografie e devo sistemare i manichini, e gli ometti e l’armonia dei colori? Capiamoci. L’armonia può essere anche contrasto. Ma se questi cinesi non capiscono altro che il degradare di bianco e di beige io cosa esisto a fare? Si! Due piano dico io. Due piani di bianco e di beige, con qualche manichino senza testa, di quelli demodé… si, si, esatto quelli che mia nonna li vedeva dal sarto. Ma dai. E va beh. No. No, in realtà no. Perché poi arrivo a casa la sera e piango. Cioè sto andando a Milano, sono tutto sudato… tutta suduta. E poi dopodomani New York, e settimana prossima Honk Hong. Anyway… Si maybe sono più fortunata di altri. Però io quando esisto? Cioè non ho più nulla per me. Non penso più a me e mi viene da piangere!
Io mi siedo in albergo, guardo la finestra, penso sia una vetrina e poi piango. Piango!”
Era ben chiaro che da quello smartphone proveniva un sovraccarico di negatività. La disperazione di quell’ometto, unitamente al campo elettromagnetico dell’arnese, che a sua volta andava a sommarsi alla rete wireless di Trenitalia, che invero funzionava maluccio, creava un leviatano che non poteva essere combattuto con la semplice concentrazione. Fu così che le mani di Alfio iniziarono a comporre linee equilibrate, con movimenti asincroni, ma pur sempre armoniosi. I palmi avanzavano e indietreggiavano e roteavano per poi incrociarsi ed opporsi. Le dita unite e parallele erano come ali in questa magia. “Mmmmm”, pensava il suo IO dentro di sé, il ché significava che a breve anche Cosina avrebbe sentito l’umile arrendevolezza dello Yin: la quiete delle notte, il potere della luna. Tra un volo intercontinentale e l’altro avrebbe visto gli occhi alla nicotina di Hendrix, e le sue labbra grandi come alba africana, stagliarsi sugli orizzonti della sua anima di vetrinista inquieto. “Foxy Lady” pensò il suo IO dentro di se. Forse l’anima di Kathy Etchingham era in quel treno con loro. “Are you experienced?”, domandò il suo IO tramite se stesso al pensiero di Cosina, il quale, nonostante il feedback acustico che Alfio era convinto di aver pontificato, continuava a disperarsi al cell.
Il riccioluto, Cosina, Arturo e una dozzina di altri occhi seduti davanti e dietro loro, seguivano con finto stupore (quello di coloro di che, fingendo di tollerare la stranezza, sono diventati maestri nell’indifferenza) le mani danzanti di Alfio che di colpo si interruppero.
Fai le farfalle con le mani? – chiese la bambina.
… scusa bambina?
Lo sai che io sono stata in un grande prato? Perché il nonno ha una grande fattoria con un grande, grande, grandissimissimo prato verde davanti e dietro. E allora ho visto le farfalle. E tu fai le farfalle con le mani, vero?
eh, eh… che bello bambina… si, sono più o meno farfalle!
E lo sai che poi c’erano un sacco di altri animaletti e che io ci ballavo in mezzo? E lo sai che poi ho preso un rametto e fischiava? E Lo sai che poi mi sono anche arrampicata e ho visto il fiume? E lo sai che poi il Sole ha cominciato a scendere e che tutto tuttissimo ha cambiato colore? E lo sai che quando la mamma è venuta a cercarmi abbiamo giocato a nascondino e la sua gonna che era bianca che poi è diventata un po’ verde perché l’erba mi nascondeva? Eh? Lo sai?
che bello… sei proprio stata fortunata!
Anna, stai disturbando i signori, – proruppe il riccioluto.
Signori ma voi ci andate nei prati? Eh?
Al di fuori del cantiere Arturo non si ricordava dell’ultima volta. In quella che era la “dorsale”, ovvero la strada più esterna della sua cittadina, forse un tempo c’era un prato, che lambiva come un confine naturale la sterrata. Allora, forse un tempo, molti anni fa, su quella dorsale ci andava in bicicletta. Il sentiero era aspro e sassoso e le ruote si bucavano. Quel giorno era troppo stanco per portare la bicicletta a braccia sino a casa e si sdraiò con un filo d’erba in bocca a prendere fresco e a guardare le nuvole, mentre il prato danzava, nella sua nenia delicata, nel suo cielo di pollini ed insetti. Lo stesso prato che Cosina, forse in una grigliata sul lungo Arno o sul lungo Naviglio (é al cell e non ricorda), aveva guardato al fianco di lui. Protetti e celati dagli sguardi scandalizzati degli amici e della gente. Il prato come una coperta. Il prato come un mantello magico che li proteggeva dal giudizio feroce del loro tempo, mentre frugavano tra i corpi incuranti della gente lontana, mentre si segnavano le pelli dure con quei coralli sporchi di catrame che erano i denti, perché erano dentro il ventre profumato e verde che abbraccia e graffia ogni cosa, lasciandoti la possibilità di scegliere se vivere o morire al mondo. E quante lattine di birra, quante cicche di sigaretta aveva dimenticato Alfio in quei maledetti prati dove lui suonava. Eterna colonna sonora di baci altrui. Quel maledetto prato dove gli astanti, insensibili al suo talento, chiedevano sempre canzoni più vecchie. Sonorità noiose da gita in pullman, da donne rugose che vogliono tornare ragazze e muovere le labbra su spartiti laceri quanto la loro fibra smunta. Eppure nel prato Alfio ci aveva fatto l’amore. Quando un altro gruppo ebbe successo sul palco e lui venne preso per mano, trascinato in macchina, da quell’unica fan con la sigaretta in bocca ed i polpacci grossi che gli bisbigliò lui: “vieni, stanotte andiamo per campi”.
Il treno correva tra i colli e tra i campi, nel segno di metallo che per lui era stato tracciato decide di anni addietro. Correva con il suo contenuto di anime, di ambizioni e di pensieri. Correva la freccia rossa, come rosso il sangue che pompava nei cervelli dei sapiens sapiens che dovevano arrivare alla meta, per poi superarla ancora.
Il treno si sarebbe fermato a Milano, per poi ritornare a Roma e poi ripartire alla volta della Toscana, dell’Emilia, dalla Lombardia. Loro no. Non si sarebbero fermati. Loro non potevano tornare indietro. Dovevano strappare applausi, agghindar vetrine, elevar ponteggi. Dovevano tirare dritto, lontani dal quel prato ingenuo, da quell’erba maligna che se ci pensi ti fermi e non ti rialzi più.
“Povera bambina”, pensarono assieme, guardando con sollievo ai finestrini, dove il prato moriva ed iniziava la civiltà delle nostre illusioni.
Giorgio Michealangelo Fabbrucci ___ twitter@Alienimetropoli Leggi altri racconti degli Alieni Metropolitani… clicca qui.