Recensione di Marco La Terra
Il mio approccio ad Amore mio infinito è stato successivo rispetto a La vita oscena: questo per dirvi, o meglio per avvertirvi che, inevitabilmente, chi scrive è in parte condizionato dal giudizio negativo nato dalla lettura di quel libro (nel dettaglio, rimando alla relativa recensione).
Dovendo comunque mantenere un atteggiamento professionale, e dunque terzo rispetto ai moti sussultori del mio intestino, direi di cominciare dalla trama.
Come si legge nell’edizione Einaudi – Stile Libero, il protagonista della vicenda è Matteo, classe 1972, un ragazzo di ventotto anni che lavora per una ditta che produce banconi per pesce: all’interno della sua esistenza piatta e monotona, Matteo ha quattro cose da dire.
Il problema è che decide di raccontarcele.
Gli episodi narrati sono ambientati, rispettivamente, nel 1982, 1985, 1987 e 1999: calcolando che l’Io narrante parla in prima persona, nell’esatto momento in cui i fatti si svolgono, per tre quarti del romanzo il lettore dovrà operare lo sforzo mentale di confrontarsi coi pensieri sbocconcellati di un fanciullo e sviscerare, al di sotto dell’apparenza, il messaggio che l’Autore intende comunicare.
Sul piano stilistico, bisogna riconoscere l’abilità di Nove nel riuscire ad esprimersi ponendosi nei panni di un bambino, ricreando in tal modo un’atmosfera innocente e pura, tipica dell’età infantile, il cui deja vu produce sensazioni positive nell’animo di un lettore adulto (anche se il protrarsi di un simile lessico per una parte così cospicua del romanzo risulta molto pesante).
In questa parte dell’opera, al di là di reminiscenze personali legate all’età della fanciullezza, i contenuti sono pressoché assenti, dovendosi assistere impotenti agli anarchici sproloqui del protagonista – bambino: così impantanato nella narrazione, un lettore armato di buona volontà non avrà altro desiderio se non quello di giungere il prima possibile al quarto episodio (ovvero a pag. 133, non proprio dietro l’angolo), ambientato nel 1999.
L’aspetto tragico della vicenda (vista dalla prospettiva del lettore) è che giunti alla fatidica pagina 133 la situazione peggiora sensibilmente, poiché Nove palesa la scelta di dipingere Matteo quale ventisettenne semianalfabeta, con marcati aspetti di disadattamento sociale: le ultime sessanta pagine sono un lento calvario sprovvisto delle più elementari regole di punteggiatura, dove l’unico messaggio che sono riuscito a rinvenire è “l’amore esiste, basta desiderarlo con tutto se stesso ed illudersi di averlo trovato, non appena la prima donna che passa rivolge lo sguardo su di te”.
Sarò cinico e senza cuore, o forse limitato, ma credo che un argomento raffinato e complesso come l’amore, in linea di principio ben introdotto dall’idea di presentarlo con gli occhi di un bambino, avrebbe meritato un epilogo più profondo e completo rispetto agli illogici deliri di un disadattato sociale con problemi di alfabetizzazione che finalmente, con enorme sollievo del lettore, trova (o s’illude di aver trovato) l’amore, ritornando nel suo limbo di mediocrità.
Cinico o no, il mio animo non riesce a spingersi sino ad augurarvi buona lettura: potreste giustamente pensare che vi stia prendendo in giro.
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3 maggio 2012
Questo sì che è parlar chiaro! E condivido pienamente, al cento per cento. Ora il problema è: qual è il confine tra sperimentazione e “analfabetismo” letterario? Che dicono gli alieni metropolitani?
3 maggio 2012
Ti ringrazio Anna: per come la vedo io, la sperimentazione nasce nel momento in cui si parte consci dei propri limiti, dei propri difetti e, dall’altra parte, di pregi e potenzialità. Nel momento in cui il primo aspetto prevale sul secondo, e si procede sopravvalutando il proprio supposto talento, inevitabilmente si ottengono risultati mediocri… la sperimentazione nasce nel momento in cui si è appreso molto, e si decide di avanzare lungo una direzione diritta, per quanto impervia, rispettosi di ciò che la letteratura passata ha insegnato.
Non sbeffeggiandola negli esiti.
4 maggio 2012
Partecipo a questa discussione riflettendo sul fatto che spesso, oggi, gli scrittori sperimentali hanno una scarsissima considerazione del lettore. Nel senso che lo sottovalutano, e si adeguano all’idea che di lui offre il mondo editoriale. Parlo degli scrittori in buona fede, ovvviamente (come credo sia Aldo Nove). Quelli in mala fede cavalcano l’appiattimento generale, contribuendo al suo stesso esistere…
4 maggio 2012
Non ho letto il libro ma devo ammettere due cose:
1. la tua recensione è bella
2. nonostante le tue siano parole che acrobatano tra il negativo e il sarcastico, nel finto tentativo di mettere equamente un piede davanti all’altro, vien voglia di leggerlo il libro, solo solo per constatare la similarità dell’approccio ( si sa mai che una donna lo percepisca diversamente )
Bravo.
4 maggio 2012
@Alessandra, quando lo avrai finito ci scriverai cosa ne pensi ok?
4 maggio 2012
Secondo me la sperimentazione è un’esigenza che s’innesca nel momento in cui percepiamo una deficienza da parte del linguaggio ordinario ed abituale. Si sperimenta per superare le limitazioni che i canoni impongono ma, al tempo stesso, la sperimentazione è tale solo quando non viene inglobata dal canone. La sperimentazione è possibile quindi solo la prima volta. La sua riproduzione e ripetizione, credo sia appunto il caso di Nove, la smonta dalla particolare caratteristica d’innovazione.
4 maggio 2012
@R.F.: certo, con piacere.
5 maggio 2012
Sul confine tra sperimentazione e “analfabetismo” letterario.
Carissimi,
se fossimo in un’altra epoca, una qualsiasi a vostra scelta, sarebbe molto facile discutere di questo tema. Avremmo infatti una concezione netta, una divisione chiara, tra ciò che è brutto e ciò che è bello, ciò che è giusto e ciò che non lo è.
Purtroppo viviamo in questo pozzanghera inutile che è l’epoca postmoderna in cui il bello viene misurato secondo parametri mai sperimentati dall’uomo.
Se Leopardi vivesse ai giorni nostri, per colpa del suo aspetto e del suo carattere, verrebbe facilmente surclassato dall’ultimo scribacchino donnaiolo dal bell’aspetto, oppure dal cuoco tanto apprezzato per le gustose ricette distribuite alle massaie della contrada.
Ciò che voglio dire è che il parametro odierno per valutare un prodotto è oramai il consenso, spesso strutturato e alimentato prima che il prodotto sia tale, ovvero che venga costruito e presentato.
Ad esempio è di questi giorni la notizia che il rocker Luciano Ligabue sia diventato improvvisamente il nuova Carver italiano. Verrà dunque digerito come tale, senza giudizio critico, dalla grande maggioranza di lettori che Carver non sanno chi sia e che invece conoscono a memoria “buon compleanno Elvis”. Non aggiungo altro a riguardo.
Cosa possiamo fare? Gli Alieni, lo dice il nome, hanno già preso la loro strada: alienarsi dalla melma, reagendo creativamente alla stessa.
Nondimeno, laddove si chieda di porre paletti o nuovi parametri di giudizio, non penso sia lecito essere ottimisti, o anche solo provare a organizzare un discorso serio. Infatti, vivendo in quest’epoca, ci limiteremmo a dare un giudizio del tutto soggettivo, privo di legittimità e quindi sempre e comunque contestabile, relativo.
Per quel che mi concerne, prestando il fianco al giochetto soggettivista del “tanto è la tua opinione che vale quanto tutte le altre”, so cosa voglia dire scrivere bene, avere rispetto del lettore e soprattutto avere una poetica intelligente. Aldo Nove, per quel che vale il mio parere (ovvero uno su 7 miliardi di opinioni egualmente valide), non fa nulla di tutto questo e rientra a pieno diritto nei grandi artisti del secondo novecento, gli stessi che tagliano la tela e inscatolano la merda, definendola d’artista, con il plauso del popolo e soprattutto dei borsisti dell’arte.
6 maggio 2012
Il taglio di Fontana e il ready-made sono stati epocali, il 99% del pubblico probabilmente non ne sa il perché, ma restano epocali. Trovo che nella dittatura dell’istante ci sia un eccesso di protagonismo, di volontà di sentirsi speciali: “se questo piace a tutti allora è banale”, “Io sono superiore.” Ci isoliamo in sperimentazioni, avanguardie, e poi alla fine, scemate le classifiche, ciò che perdura nel tempo parla a tutti, di tutti, di tutto. Nello squarcio della tela la realtà entra senza alterazioni nell’opera d’arte, nelle opere contemporanee non entra niente, non esce niente, esiste solo la funzione di specchio.
8 maggio 2012
La vita s’ispira all’arte? L’arte alla vita? Un taglio su una tela è veramente un’opera d’arte? E questo obrobrio? Ma potevo farlo anche io! Domande lecite e giuste ma, a parer mio, inutili. L’arte in genere in passato filtrava l’artista in base alle competenze tecniche, oggi questo non avviene più e ci sentiamo dire che tutti siamo artisti. Un’accidente dico io. Ciò che viene a mancare secondo me è la sensibilità, l’empatia con il presente. Potrebbe nascere anche un novello Tolstoj ma non è più il suo tempo. Nove credo che esemplifichi bene questo modo artistico e in questo concordo con GMF. Credo che l’autore, in questo caso, abbia precisamente voluto fare il libro che ha fatto. Brutto? Mediocre? Scritto male? Non penso siano giudizi ma l’intenzionalità stessa dell’autore. Bello e brutto non è più una scala di valori bensì caratteristiche che si aggiungono senza aumentare o diminuire il valore. Siamo al punto in cui, una cosa molto brutta avrà più valore di un qualcosa appena bella.