Recensione di Carlotta Susca
Duro, il compito del lettore postmoderno. Non solo deve recuperare i ‘mostri sacri’ (Barth, DeLillo, Pynchon, Ballard), approssimarsi ai già classici Wallace (che richiede disciplina), Franzen (che impone di ignorare le sue interviste) e di lì passare a Eugenides e fare incursioni in Lethem, curiosare in Saunders e fare la conoscenza di Barthelme: non solo gli è richiesto questo tour de force (piacevole) che sottrae tempo al lavoro, costringe a rubare ore alla pulizia della casa (utile) e allo shopping (non indispensabile), ma anche l’aggiornamento (pena l’impressione costante di vecchiaia, di «ai miei tempi»). Sicché la lettura di Jennifer Egan (premio Pulitzer 2011) si impone al lettore postmoderno aggiornato, ma non è un male.
Il tempo è un bastardo è un eccellente prodotto di quella narrativa i cui riferimenti sono stati delineati nel primo paragrafo di questo articolo. Senza dubbio il completo stravolgimento della narrazione lineare costituisce il maggior pregio del libro: la storia si potrebbe ricostruire spostando ogni capitolo su un piano di lavoro con indicazioni cronologiche, poi completando con frecce e asterischi; la storia «da A a B» (espressione di più di un personaggio del libro) è infatti nebulizzata, dispersa come da un’esplosione iniziale. Sbaglia chi considera il libro una raccolta di racconti, chi li ritiene fra loro equivalenti e pensa al testo come fruibile anche un po’ per volta: il libro è un romanzo sfaccettato, che ha senso in quanto richiede lo sforzo cooperativo del lettore nel richiamare nomi e personaggi da un capitolo all’altro; l’effetto è di rivedere dei volti e avere l’impressione di incontrare vecchi amici.
Quello dell’incontro a distanza di tempo è, infatti, uno dei temi forti del libro: la Egan riflette sul perdersi di vista degli adolescenti degli anni ’80, causa di nostalgia, di quel dolore dolce che alle nuove generazioni è precluso dalla possibilità di ritrovare chiunque grazie alla tecnologia
(salvo essere, il più delle volte, delusi). Ma l’interessante riflessione sul cambiamento dell’interazione nel corso di un decennio sfocia nell’analisi sociologica futuristica dell’ultimo capitolo, una delle poche (ma macroscopica) sbavature del libro. L’autrice passa dalla descrizione di un fenomeno con cui tutti gli scrittori devono fare i conti (le conseguenze dei social network, le distanze azzerate) alla previsione di un nuovo baby boom e della centralità degli infanti nel marketing musicale di qui a una manciata di anni: appare un’analisi sbagliata, poco ponderata. L’unico aspetto degno di nota di questo futuro prossimo ipotizzato è l’esistenza di studi sulle espressioni vuote, che non hanno senso se non fra virgolette (ricordiamo che Linda Hutcheon vedeva nell’uso delle virgolette la caratteristica principale del Postmoderno).
Non solo la cronologia della storia, comunque, è rimescolata a beneficio del lettore che così prosegue sempre con curiosità (a rischio di compulsione: io l’ho letto in otto ore separate da una notte di riposo) un nuovo capitolo, anche il punto di vista è cangiante, e lo stile è mutevole. Un capitolo è in seconda persona, e il personaggio parla a se stesso (tutto il pezzo è giocato sullo sdoppiamento e sul rapporto fra essere e apparire), mentre il brillante capitolo 9 è magistrale esercizio di scrittura à la Wallace (il reporter che parla di sé e annota, ed è a tratti un uomo schifoso, e inserisce suggestioni prese dalla scienza come se fosse la cosa più naturale del mondo).
Quanto al controverso capitolo in Powerpoint (il diario di un’adolescente), il mio giudizio è semplicemente che si sarebbe dovuto trattare di Facebook, ma forse sarebbe stato più complicato per l’autrice. Non conosco adolescenti che scrivano in Powerpoint, e, ammesso che ce ne siano, in futuro credo saranno ancor meno. Ma è un altro tentativo di evitare la linearità, che oggi credo sempre più sia improponibile.
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1 comment
Enrico Brega says:
giu 2, 2012
RispondiDovessi dire che leggendo “Il tempo è un bastardo” non ho provato il piacere di una buona lettura, mentirei senza ritegno. Del romanzo ho colto tutta la sua unitarietà (e non una raccolta di racconti)nonché l’abile svolgimento non lineare. Anche il capitolo 12 (Le grandi pause del rock)ha contribuito a farmelo apprezzare (il romanzo).
Ma che da questa opera possa prendere le mosse un nuovo modo non lineare di scrivere romanzi senza essere plagiatori e/o ripetitivi mi sembra improbabile.
E mi viene da pensare a David Shields (Fame di realtà)nei confronti del quale ho scritto un molto sintetico commento riguardo a una nota di Nicola Lagioia (Minima&Moralia)dove ho accennato sommessamente a Cortàzar de “Il gioco del mondo” e a DFW come più credibili e lungimiranti scrittori orientati al nuovo che non rinnega il passato. Senza contare una mia forte perplessità sul banale giudizio del saggista-per-aforismi su Franzen.
Il fatto di scrivere romanzi è vitale nel senso più esistenziale del termine (più che mai di questi tempi). Per la qual cosa impartire certe lezioncine simil-propedeutiche agli scrittori si rishia di banalizzarne la creatività e di sicuro non può portarci molto lontano.
Ma potrei anche sbagliarmi.