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Racconto breve di Thomas Ticci

 

«Da me si nasce. Da me si giunge morti. Io sono l’origine. Da me diparte ognuno di voi. Sono la coscienza della nostra esistenza. Sono manifestazione, pulsante come fiume. Consapevolezza e realizzazione. Dopo di me ne giungeranno altri. Io sono Dolore».

«Io sono l’oscuro cielo che s’addensa all’orizzonte. Sono il pianto della solitudine. Sono l’abbandono. Vedermi è guardare un corpo amato straziato dai vermi. Il mio tanfo oscura il colore del fiore più bello. Poiché starmi di fronte equivale a morte certa io mio presento. Il mio nome è Disperazione».

«Tu non sei che un buffone. Tuttalpiù Contrizione vorrai chiamarti. Parli e sproloqui e tralasci il vero. Dimentichi cos’è veramente il precipizio e il buio. No, tu non sei niente perché parli senza aver davvero patito. Il sapore del ferro nella bocca e il caldo fluire dal corpo. Tu non esisti fin quando l’uomo non ha incontrato me. Io sono Agonia».

«Le vostre parole non sono altro che tappe per giungere a me. Stazioni, altro non siete. Passaggi per altri assaggi. Non del sangue, né l’amaro sapore del perduto. A me si giunge patendo con l’anima. Che il senso del corpo v’abbandoni. Io sono Perdizione».

«Vantarvi non dovete. Il vostro compito è stato assegnato. Fuori adesso, oltre i cancelli. Nella polvere dimostrerete i vostri valori. La preda v’attende in catene. La scelta è vostra, se liberarla o meno. Afferrate le mazze, stringete le spade. L’arena urla i vostri nomi. Incorniciate i cuori che ancora s’ostinano a battere fra le vostre lame. È tempo che tutto inizi. È tempo che tutto venga creato. Siate il fondamento d’ogni cosa. La fibra che intesse l’universo intero. Siate imparziali e siate ovunque. Su di voi sarà fondato l’assoluto».

Escono sbavanti i quattro figuri. Chi si cela il capo dietro l’elmo, chi brandisce l’ascia come un trofeo. Calpestano la terra e avanzano. I passi risuonano come uno solo. La folla acclama scandendo la marcia. Li-be-ro! Li-be-ro! L’urlo unanime. S’appresta a liberarsi dalle catene. L’uomo s’alza e di fronte ne ha quattro. Fugge.

Dal pubblico un grido.

«È dietro le quinte».

Risata generale.

«Agguantalo prima che fugga» dice Agonia. «Al centro. Di fronte a me. Portalo qui».

Sballottato dalla morsa di artigli possenti crolla in ginocchio.

«Ascolta». Implora l’uomo. «Non abbattere la tua scure sul mio collo».

Quelli in cerchio l’osservano dall’alto.

«Guarda», piange. «Tu, Dolore, esisti poiché nella mia carne pulsa la vita. E tu, Disperazione. Se il mio cuore non battesse per qualcuno che senso avrebbe straziarmelo? Agonia. Tu non puoi volerlo. Tu, più di tutti, amica fedele del tempo. Figlia dello stillicidio. Se la mia testa cade, cadrà anche la tua gioia. E Perdizione. Vuoi veramente godere soltanto di quel momento fugace che è la perdita di ogni speranza? Di ogni certezza? Così poco piacere ti è concesso? Solo la brevità della morte»?

Rivolgendosi al pubblico inginocchiato sul palco. «Volete veramente che io muoia»?

E quelli annuiscono.

La testa dell’uomo disegna una parabola perfetta sotto il fendente a mezza luna dell’accetta, finendo in mezzo al corridoio della platea. Cala il silenzio. Si spengono le luci.

«Bravi»! Un urlo, un fischio. L’applauso scrosciante. Luci accese. Il sipario è chiuso e gli attori fuori. I quattro se ne stanno in cima al palco. S’inchinano. Ringraziano. Salutano. Il pubblico batte le mani in piedi.

La signora a fianco a me commenta. «Divino. Iperalismo lo chiamano»?

«Iper-realismo» le dico.

«Entusiasmante. L’ho trovato così appassionante. Attori votati all’arte fino alla fine».

Io mi volto e guardo gli occhi spalancati della testa sul legno.

Quella mi parla e mi dice: «Si osserva sempre lo stesso spettacolo. Esci, prenditi un gelato, te lo sei meritato. Ci rivediamo domani sera. Stesso posto, stessa ora. Non mancare. Sarà il tuo debutto».

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[email protected] / twitter@alienimetropoli
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