Recensione di Andrea Corona
«Non so se sono vivo, ma è certo che continuo a scrivere». Sono trascorsi ormai dieci anni dal suo primo libro, quando Harry Lesser è attraversato da questo pensiero. Già autore di due romanzi – «il primo bello, il secondo brutto» –, Lesser è l’unico inquilino di una fatiscente palazzina di New York che attende solo di essere demolita. Grazie a dei cavilli legali e burocratici, lo scrittore riesce a tener testa ad Irving Levenspiel, il proprietario dello stabile, il quale, dopo essersi facilmente liberato di tutti gli altri occupanti, cerca di persuadere Lesser offrendogli somme di denaro sempre più elevate, ma questi ribatte ogni volta che «non può andarsene a metà di un libro» e che non può abbandonare il luogo in cui il romanzo è stato iniziato, soprattutto ora che sente di avere il finale «sull’orlo della coscienza».
Harry Lesser è immerso nel silenzio del decrepito edificio, quando un mattino sente dei rumori: clac clac clàcchiti clac, il suono inconfondibile di una macchina da scrivere. Si imbatte così in Willie Spearmint, energumeno di colore intrufolatosi di soppiatto in uno degli appartamenti accanto per lavorare al suo primo libro, Vita mancata. Il nero non ha propriamente l’aria dello scrittore, semmai di un ex galeotto, e per di più il suo pseudonimo, Bill Spear, sembra un ridicolo diminutivo di William Shakespeare. Eppure, quando leggerà il suo dattiloscritto, il navigato romanziere ebreo dovrà ammettere che quell’omone in salopette ha del talento, e che la Vita di cui scrive commuove, fa male e ispira. Ispira alla rivoluzione contro il razzismo e contro la diseguaglianza economica. Da un punto di vista stilistico, tuttavia, Lesser rintraccia anche molte divagazioni, ripetizioni e carenze formali. I due scrittori saranno in breve legati da un intenso rapporto di amore/odio in cui l’uno sembra non poter fare a meno dell’altro.
Questa è la situazione dei primi capitoli de Gli inquilini, un romanzo che, a cominciare dal condominio come metafora della psiche, ricorda La resa dei conti di Saul Bellow. Prendiamo, poi, il personaggio di Irene Bell, la donna contesa dai due scrittori: anche lei è «stufa di New York», anche lei parla sempre di psicanalisi, anche lei è un’attrice di basso livello che non è propriamente ciò che appare (non è bionda ma mora e non si chiama Bell ma Belinsky – sebbene porti il nome d’arte anche nella vita ordinaria proprio come il protagonista di Bellow), ma, soprattutto, tanto Irene quanto “gli inquilini” sentono di essere vicini alla fine (fine del romanzo, fine della storia d’amore, ecc).
Sarebbe tuttavia riduttivo leggere Malamud solo in funzione di Bellow (fra i due non intercorre certo un’assoluta identità; semmai una wittgensteiniana “somiglianza di famiglia”, in quanto, come dei parenti, sono simili per certi aspetti ma non per altri), e allora propongo di leggerlo alla luce di Beckett e dell’esistenzialismo. Proprio per via di quella fine paradossale perché sempre «sull’orlo della coscienza», Gli inquilini è un’opera che richiama molto la trascendenza di cui parla la filosofia esistenzialista, e che si rivela in quelle che Jaspers chiamava “situazioni-limite”, cioè situazioni immutabili, definitive, nelle quali ci si ritrova come in un vicolo cieco, o come di fronte a un muro, contro il quale non si può che sbattere senza speranza, condannati a lottare e a perire. È forte, in ciò, l’analogia con la poetica di Beckett, il quale, in riferimento al protagonista di una delle sue opere più famose, Finale di partita, dirà che «Hamm è come un re di una partita di scacchi perduta all’inizio, che alla fine fa mosse assurde, come un pessimo giocatore, tentando solamente di ritardare una sconfitta inevitabile».
Harry Lesser e Bill Spear sono, a mio avviso, come due re degli scacchi, uno bianco e l’altro nero, che si trovano in una insolubile situazione di “stallo”. Irene Bell sarà la regina di entrambi e di nessuno (è bianca ma, come leggiamo, a volte sembra nera). I due scrittori se ne stanno “arroccati” in un edificio sempre più marcescente, proprio come due re decaduti. In ciò, Malamud ha dipinto un capolavoro sull’ossessione e sull’autodistruzione, sulla lotta e sulla sofferenza dello scrivere e del vivere. E ce lo dice a proposito del “libro nero” di Bill Spear: «Può darsi che sia narrativa ma ciò non toglie che sia reale».
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Andrea Corona
5 comments
melusina says:
apr 30, 2012
RispondiHo capito, dovrò leggerlo.
Andrea Corona says:
apr 30, 2012
RispondiMelusina, grazie per il commento. Se questa recensione ti ha incuriosito, allora mi permetto di consigliarti, dello stesso autore, anche “Una vita nuova”, dove pure si parla di un letterato, di una fuga dal trambusto di New York e di una “Opera Non Finita”.
Silvana says:
mag 2, 2012
RispondiMelusina … mi hai rubato il pensiero!
Andrea, non fai che superarti (sei in competizione con te stesso?).
Riesci sempre a rendere l’atmosfera, la storia, la metafora, insomma tutto quello che c’è e ci può essere in un libro. Mai una parola di troppo, ne’ una fuori luogo. Se io fossi una scrittrice mi farei recensire senz’altro da te. Saprei così, inevitabilmente, che cosa ho scritto veramente!
Grazie anche questa volta )
Andrea Corona says:
mag 2, 2012
RispondiSilvana, grazie mille, davvero. Dedico sempre molta attenzione ai libri che leggo e molta cura alle recensioni che scrivo, e questa è l’unica risposta (forse banale, ma vera) che posso dare.
Sono io che ringrazio te
Silvana says:
mag 2, 2012
RispondiNon si può chiamare banalità esercitare con serietà e attenzione la propria professione. Poi hai dimostrato in varie occasioni di avere alle spalle un’ottima cultura classica il che denota una preparazione di base che non tutti possono vantare.
Sei bravo, fidati!