Recensione di Raffaella Foresti
Venezia è un po’ come Parigi. Dovete andarci mille volte prima di riuscire a prescindere, almeno in parte, dal luogo comune. Prima di riuscire a farvi spazio tra la calca dei turisti, ignorare le bancarelle e i piccioni in Piazza San Marco, rendervi imperturbabili davanti ai gondolieri della Serenissima che remano sulle note partenopee di ‘O Sole Mio. Quando riuscirete in questo, potrete dire di aver visto Venezia e vi verrà la voglia, a quel punto, di esplorare la sua ammaliante laguna.
A pochi minuti di traghetto, partendo dall’Accademia, potreste raggiungere l’isola di San Giorgio, un lembo di terra separato dalla Giudecca da uno stretto canale, con una bellissima vista (alla giusta distanza) sulla Basilica di San Marco e su Palazzo Ducale. Proprio su questa piccola isola, poco frequentata dal turismo di massa, l’architetto inglese Randoll Coate ha eretto “Il labirinto Borges”, un’architettura verde “simbolo della perplessità”, arricchita da tutti gli emblemi più cari al poeta scrittore di Buenos Aires.
É da qui che vi sto scrivendo, dall’isola di San Giorgio, Venezia. Sono nel “Labirinto Borges” e ho portato con me Finzioni, la raccolta racconti di Borges che contiene, tra gli altri, Il giardino dei sentieri che si biforcano (Einaudi ed. XVIII, traduzione di Franco Lucentini). Sono in un labirinto con in mano un libro. Che contiene un racconto. Che parla di un libro. Che parla di un labirinto. Che, anzi, è esso stesso un labirinto.
Il giardino dei sentieri che si biforcano è un racconto poliziesco, sostiene Borges in premessa. L’ottavo della raccolta. “I lettori assisteranno all’esecuzione di un delitto il cui scopo non ignorano, ma che non comprenderanno, mi sembra, fino all’ultimo paragrafo”.
In effetti sì, lo si può anche definire un poliziesco. Anche per questo motivo, per non privarvi della suspense, non voglio entrare nel merito della trama. Ciò che mi interessa, qui, è evidenziare ciò che la storia evoca.
Perché un labirinto? Chi ha letto Borges sa che si tratta di uno degli elementi costanti della sua poetica. Forse quello che riassume, in qualche modo, tutti gli altri. Da un’intervista di Achille Bonito Oliva allo scrittore argentino leggiamo: “L’immagine del labirinto mi si impose, poiché l’idea di un edificio costruito perché qualcuno ci si perda è il simbolo inevitabile della perplessità”. Una perplessità che deriva dalla constatazione della precarietà di ogni azione umana, della mancanza di punti di riferimento, dell’inutilità di ogni decisione e, in definitiva, della fragilità di ogni vita.
Il giardino dei sentieri che si biforcano è uno spazio infinito in cui, di fonte ad alternative, decidendo per l’una non si eliminano le altre. Nell’opera di Ts’ui Pên (il romanzo/labirinto protagonista del racconto) tutte le alternative sono possibili e possono essere ugualmente percorse, e ognuna costituisce il punto di partenza di altre possibili biforcazioni. Un mondo a metà tra il possibile e l’impossibile, la cui realtà non è scindibile dal paradosso.
Non possiamo che perderci in questo labirinto, una struttura fatta di moduli che si ripetono potenzialmente all’infinito, un enigma creato dall’intelletto che l’intelletto stesso non è in grado di risolvere. É la ragione che mette sotto scacco… se stessa. “Quando sogno non sono cieco” – ha detto Borges.
É giunto per me il momento di andarmene. Devo lasciare l’isola di San Giorgio, devo partire da Venezia, tornare a casa.
“Un fuggiasco non si nasconde in un labirinto. Non innalza un labirinto su un luogo alto della costa, un labirinto cremisi che i marinai avvistano da lontano. Non ha bisogno di erigere un labirinto, perché l’universo già lo è”.
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2 comments
elisa says:
apr 18, 2012
Non è facile recensire un autore come Borges, complimenti per la chiarezza e linearità, che parlando di labirinti non è poco!
Raffella Foresti says:
apr 19, 2012
Grazie Elisa, abbiamo in programma di ritornare sull’argomento Borges con uno speciale a lui dedicato. A presto