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L’Attesa

Racconto di Marco LaTerra

 

L’uomo si stringe nelle spalle, infreddolito.

Per quanti sforzi faccia, non riesce proprio a ricordare da quanto tempo non passava più da quelle parti.

Tantissimo tempo.

Un’infinità.

Chiude gli occhi, stringe le palpebre con un moto deciso dei muscoli facciali, quasi a costringere il suo cervello in questa difficile reminiscenza di ricordi soffocati dal tempo: come d’incanto, un reticolo di rughe sottili si dipinge sul suo volto, poco sopra gli zigomi, e sulla fronte, facendolo sembrare un po’ più vecchio dei suoi trentacinque anni.

Riapre gli occhi e riprende il controllo di sé, riconsiderando il contesto buio, silenzioso e surreale, nel quale si trova: un ambiente così familiare, un tempo. Eppure, adesso, per quanto si impegni, proprio non riesce a ricordare: la sua memoria somiglia tanto ad una buia voragine silenziosa, intrisa solo di domande mal poste, e quesiti irrisolti.

Gli sembra strano trovarsi lì, senza preavviso, sospinto da quell’indefinibile voglia, larvatamente masochista, di mettersi alla prova. Quel particolare desiderio che, poche volte nella vita, pone ognuno di noi di fronte al muro dei propri limiti e, con scherno e derisione, insinua la fastidiosa domanda: “perché non provi ad andare oltre?”.

Vinto da quest’impulso privo di nome, l’uomo avanza lentamente, con andatura stentata, lungo la via principale: alla sua destra le acque ombrose del lago, quasi nascoste sotto i tenui bagliori di una sera senza luna, paiono voler ammantare ogni suono, ogni accenno di vita.

Percorsi una ventina di passi s’arresta: non vi è un perché, in verità, forse è solo il timore della luce artificiale riflessa dai lampioni, ai bordi della strada. Poco più avanti l’uomo nota un cono di luce illuminare il marciapiede ammantato di porfido liscio, levigato, perfettamente squadrato, qualche panchina di legno color verde scuro, affacciata sul lago silenzioso e un’aiuola adornata di una tenue patina di brina, a testimonianza di una primavera ancora lontana, terribilmente distante, quasi onirica.

L’uomo non vuole abbandonare la sicurezza delle tenebre silenziose, in quella notte strana: ecco perché si è fermato, come paralizzato, distante da quel cono di luce.

Pensieroso.

Di nuovo qui, dopo tanto tempo.

Indeciso sul da farsi, si accarezza il viso con il palmo della mano destra, lentamente, con fare quasi studiato, metodico. Non si rade da mesi oramai, e i ciuffi ribelli di un’ispida barba nera dimostrano quanto tutto sia diverso, adesso.

Qualche ricordo comincia ad affiorare, assumendo sembianze vaghe e indefinite: fragili contorni di ciò che è stato un tempo si stagliano impalpabili sullo sfondo, nero e ovattato, della sua mente.

Non sa se essere felice per quest’accenno di rediviva memoria, o dolersene: spesso l’oblio anestetizza la psiche impedendole di soffrire e, in questa logica, l’incapacità di provare emozioni risulta senza dubbio preferibile alla sofferenza più accesa.

Questo pensa l’uomo ma, pur convinto della bontà di queste considerazioni, non è in grado di arrestare il flusso dei pensieri, di nuovo aperto, vivo: prossimo alla resa, cerca quanto meno di deviarne la direzione.

Perso in questo buio d’inchiostro, rimane in piedi senza sapere cosa fare.

Indugia.

Sommerso dall’onda dei ricordi, che pian piano lo avvolge trascinandolo verso territori lontani, nel tempo e nello spazio, lentamente infila la mano nel taschino anteriore del giubbotto di pelle, estraendo un sigaro.

Desidera fumare, in beata o tormentosa solitudine, questo è da vedersi.

Per riflettere, analizzarsi, comprendere la natura e l’intensità della breccia che si sta squarciando entro l’uniforme parete della memoria. O forse, più semplicemente, per combattere l’inevitabile groppo emozionale che comincia a formarglisi in gola.

Comprende di essere in grado di avvertire qualcosa, dopo tanto tempo, dentro di sé, e di questo ne è sollevato, quasi felice: ma il sentimento percepito è acuto, spigoloso, violento, dal sapore amaro, innaturale.

Con la mano sinistra afferra una scatola di cerini, ne estrae uno e, tenendo le mani a coppa, inspira intensamente l’aroma del toscano, riempendosi la bocca con il fumo pastoso che ne nasce, una volta acceso.

Il paesaggio è immoto, buio, silenzioso, annegato in un freddo invernale spoglio d’ogni speranza: fumare rinfranca l’uomo che comincia a meditare con calma, beandosi del profumo del tabacco che, in maniera quasi magica, lo avvolge trasportandolo in luoghi ancor più lontani da quelli visitati poco fa, dalla sua mente.

Sospira.

Appena giunto lì, qualche ora prima, si sentiva solo, in quel paese di montagna, piccolo e riposto, nel quale tornava dopo tanto tempo.

Nessuno l’aveva riconosciuto, nonostante vi avesse vissuto ben cinque anni. E adesso, nell’attesa, le vie si erano svuotate al primo calar del sole: il freddo aveva prevalso su ogni forma di vita, di qualsiasi specie essa fosse.

Gli pareva di essere stato calato da chissà dove, entro quel paesaggio spettrale, freddo, buio e silenzioso.

Perso in chissà quali riflessioni, l’uomo osserva la punta del toscano: un piccolo braciere ardente, luminoso e consolatore.

Rimane così per un po’, gli occhi neri e intensi, per loro natura mobilissimi e curiosi di tutto, quasi ipnotizzati dal leggerissimo filo di fumo che, flebile e suadente, sale dalla parte accesa del sigaro. Le dita della mano sinistra cercano inconsapevolmente una vecchia cicatrice, ancora percepibile, posta nel bel mezzo della sua chioma corvina, ribelle e scomposta: un taglio di cinque centimetri suturato anni prima, conseguenza di una banale caduta dovuta ad una stupida distrazione.

In effetti, l’uomo è un individuo distratto, oltre ad essere irrisolto ed avulso dal contesto reale, per quel che riguarda il proprio sistema di pensiero: non che sia privo di logica, semplicemente la sua logica e le dinamiche del mondo reale viaggiano su due binari paralleli, inconciliabili, distanti, come due amanti che si desiderano, consapevoli del fatto che non si incontreranno mai.

Del resto, la sua presenza lì, in quei luoghi riposti e dimenticati, dopo così tanti anni, all’improvviso, è una chiara dimostrazione di come funzioni la sua testa: in direzione ostinata e contraria rispetto alla realtà.

Riprende a fumare, socchiudendo le palpebre e inalando a pieni polmoni il denso aroma del toscano: si appoggia coi gomiti alla ringhiera posta di fronte al lago, dando le spalle ad esso, e quest’inizio di ritrovata beatitudine si fonde con il silenzio del paesaggio circostante, rendendo l’uomo gradualmente più consapevole, e forte, rispetto all’improvviso moto emozionale che si era impadronito di lui, in precedenza.

L’uomo rimane lì, immobile: lo si direbbe morto se non fosse per gli sbuffi di fumo che, a cadenze regolari, fuoriescono dalla bocca.

In cuor suo, è tutt’altro che morto: lo si direbbe più consapevole, rinfrancato, con una nuova speranza nel cuore.

“È così, e non poteva essere altro che così”.

Le sue labbra cominciano a percepire una sensazione di bruciore intenso, indice del fatto che il toscano sta lentamente morendo, all’apice della propria funzione consolatrice.

“È ora di andare”, pensa l’uomo, “lei non verrà”.

Dopo aver indugiato un istante, i suoi gomiti si staccano dalla ringhiera: lentamente raggiunge il cono di luce, così terribile poco prima e, sotto il bagliore dei lampioni, la smorfia che si staglia sul volto dell’uomo somiglia tanto ad un sorriso.

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Author: Marco La Terra

Marco La Terra, classe 1977, vive il senso di alienità dell’epoca infausta in cui è recluso in modo viscerale e sofferente, cercando di rintracciare in tutto ciò che è “altro da sé” una forma spuria di logica superiore.

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