Recensione di Marco LaTerra
“Tu eri unita, dicevi, con qualcuno che non poteva vivere senza scrivere e tu sapevi che colui che vuol essere scrittore ha bisogno di potersi isolare, di prendere appunti in ogni ora del giorno o della notte; che il suo lavoro sul linguaggio prosegue molto dopo aver posato la penna, e che può impossessarsi di lui all’improvviso, nel bel mezzo di un pasto o di una conversazione”.
Questo breve romanzo di Andrè Gorz, pseudonimo di Gerhard Hirsch, autorevole filosofo, allievo ed intimo amico di Sartre e Simone, fondatore e collaboratore di riviste e giornali importanti, svela l’intimità della propria intelligenza, senza dubbio di ordine superiore, temperata ed arricchita dai crismi dell’Amore.
Sarebbe banale etichettare la Lettera come una semplice dichiarazione amorosa nei riguardi della moglie, ormai anziana e afflitta da una grave e inesorabile malattia degenerativa, così come sarebbe ingeneroso ricondurre parte del lirismo, insito nell’opera, a un eccesso di emotività derivante dall’inesorabile tragedia che, come una scure, si è abbattuta sulla coppia.
Non intendo affrontare il merito della vicenda descrivendo la realtà entro cui la Lettera è calata: qualora lo facessi, rischierei di inaridire il pathos complessivo, sicuramente di elevata intensità ma, ancor di più, suscettibile di percezioni variabili da parte del lettore, il quale dovrà dunque procedere entro un contesto libero e “inesorabile”. Dove l’inesorabilità è indissolubilmente legata al rispetto, da parte di chi scrive, delle potenziali emozioni che, sotto svariate forme, prendono vita nel cuore del lettore.
In quest’ottica, anche la notevole prefazione di Adriano Sofri, contenuta nell’Edizione Sellerio, potrebbe in qualche modo “preparare” il lettore e, di conseguenza, impedirgli di cogliere l’estremo lirismo narrativo in tutta la sua portata: meglio dunque posticiparne la lettura a romanzo concluso.
Come accennavo all’inizio, le Lettere non consistono solamente in una dichiarazione d’amore lunga una vita intera: per quanto questa rappresenti il leit – motiv narrativo, vi è molto altro, a cominciare dalla constatazione dei limiti insiti nella filosofia, intesa come scienza tout court, allorché la si approcci sotto il profilo della sua propedeuticità ad elaborare concetti spendibili nel mondo reale.
Questa generale antinomia ben si riflette nella coppia, protagonista della Lettera a D., dove Gerhard incarna la fredda e metodica speculazione concettuale, D. il pragmatismo e l’affetto, umano e divino al contempo, profuso verso il marito filosofo e la Vita in generale, incondizionatamente (“non avevi avuto bisogno di scienze cognitive per sapere che senza intuizioni né affetti non c’è intelligenza né significato. I tuoi giudizi rivendicavano imperturbabilmente il fondamento della loro certezza vissuta, comunicabile ma non dimostrabile. L’autorità – chiamiamola etica – di questo giudizio, non ha bisogno del dibattito per imporsi. Mentre l’autorità del giudizio teorico crolla se non può ottenere la convinzione attraverso il dibattito”).
Partendo da questi due approcci alla vita, diametralmente opposti tra loro, l’amore tra D. e l’Autore li fonde in una sintesi sublime, attraverso un percorso tracciato lungo una strada maestra delineata (non a caso) dalla moglie, senza dubbio più pronta rispetto al marito nell’approccio alle passioni, dunque alla Vita (“la tua risposta non si poteva parare: ‘se ti unisci con qualcuno per la vita, mettete le vostre vite in comune e tralasciate di fare ciò che divide o contrasta la vostra unione. La costruzione della vostra coppia è il vostro progetto comune, non avrete mai finito di rafforzarla, di adattarla, di riorientarla in funzione delle situazioni mutevoli. Noi saremo ciò che faremo insieme’. Era quasi Sartre”).
L’epilogo di questo percorso è rappresentato dalla Lettera a D., dove l’Autore, raccogliendo la costante, immutabile ed amorevole esortazione della moglie (“amare uno scrittore è amare che egli scriva, dicevi. ‘Allora scrivi!’”) consacra ai posteri, e all’Immortalità, una donna speciale che, come afferma lo stesso Hirsch, ha avuto il merito di fargli accettare la sua stessa esistenza, entro le dinamiche del mondo reale, da sempre rifiutate dall’Autore (“tu eri il complemento dell’irrealizzazione del reale, me compreso, verso cui procedevo da sette o otto anni attraverso la scrittura. Eri portatrice per me della messa tra parentesi del mondo minaccioso nel quale io ero un rifugiato dall’esistenza illegittima, per il quale l’avvenire non superava mai i tre mesi”), salvandolo da se stesso e, con ogni probabilità, da certe scelte radicali.
Scelte che, forse, possono essere compiute insieme, entro un unicum dove le singole individualità, ormai fuse entro un concetto superiore, anelano all’Immortalità di un sentimento.
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