Racconto proposto da Alfredo Perna
Ricordo soltanto che c’è stata una grossa esplosione.
"Snow in the City" di David Chambard
Dopo di che sono fuggiti via tutti, cercando di mettersi al riparo come meglio potevano. Ma per quanti sforzi faccia non riesco a ricordare ciò che mi è accaduto. Che stranezza. Ma dove sono? Sono diversi minuti che cammino attraversando questo campo completamente ricoperto di neve. Tutto è talmente bianco da far male agli occhi. Forse è meglio se fisso la punta delle mie scarpe. È una vera impresa spostarsi sulla neve. Fa freddo, ma per fortuna ho un abbigliamento adeguato alla bassa temperatura di questo posto. Questo cappotto, il cappello foderato e le scarpe invernali di pelle mi appartengono per davvero oppure mi ha vestito qualcuno?
Non ricordo nemmeno questo.
In lontananza, dopo un’altra ora di cammino, scorgo un edificio e un folto capannello di persone, accalcate all’ingresso come formiche. Sono davvero stanco e ho freddo. Un vento ghiacciato ha cominciato a soffiare da est ad ovest, sferzandomi le mani e la faccia. Ho il naso e il mento congelati, le gambe rigide come due tronchi d’albero. Spero che in quel posto ci sia qualcosa da mangiare o perlomeno un posto dove potermi riscaldare. Ormai non cammino più, ma continuo ad arrancare nella speranza di riuscire a raggiungere quel gruppo di persone, prima di sera.
Quando arrivo alla meta non scorgo più nessuno.
È sera inoltrata, quasi notte.
La porta d’ingresso dell’edificio è chiusa. Dove sono finite tutte quelle persone che c’erano qui prima? C’erano per davvero oppure me le sono sognate? Qui intorno, oltre il fabbricato, non c’è più niente. Sono stremato, davvero. Non ho più voglia di arrovellarmi il cervello per trovare una spiegazione a tutto quello che mi succede attorno. Sono stremato e infuriato. Infuriato con il mio triste destino: mi chiedo cosa devo fare, e perché sia capitato qui.
In mancanza di idee migliori, mi accosto al portone e provo ad aprilo con le poche forze che mi rimangono. I cardini ruotano senza opporre resistenza.
È aperto. Entro.
L’atrio del palazzo è immenso, tutto rivestito di marmo e stucchi. Sembra una costruzione molto antica. Anche qui all’interno fa molto freddo. Di fronte a me, in alto, due grosse aperture a forma di arco, prive di vetri, lasciano penetrare il vento gelido. Mi guardo attorno. Sembra non ci sia nessuno nei paraggi o, perlomeno, nulla lascia presagire il passaggio recente di un gruppo di persone. Possibile che abbiano proseguito? Nemmeno per questa considerazione riesco a trovare una risposta adeguata. Mentre mi guardo attorno – notando le pareti scrostate, un arco avvolto dalla fitta penombra che conduce in un altro ambiente, buio anch’esso, una sedia sfondata, abbandonata in un angolo, un vecchio camino dove sono state accatastate diverse cose, indistinguibili a causa del buio – ho come l’impressione che qualcosa si muova nell’ombra.
“Chi c’è?” domando. La mia voce riecheggia sinistramente cancellando all’istante l’impressione di poco prima. Trascorrono alcuni attimi. Mi guardo attorno con le dita gelate avvinghiate sulle braccia del cappotto.
Un uomo avvolto da un lungo soprabito nero si avvicina molto lentamente. Nel buio incalzante della sera mi riesce difficile scorgerlo a dovere. “Chi c’è?”, ripeto. La sua faccia è una massa di carne indistinguibile. Per un attimo penso che la sua immagine non sia reale, bensì dettata dalla mia fantasia, la stessa che mi ha guidato fin qui. Non c’è altra spiegazione. Deve essere per forza così. L’uomo si avvicina e si ferma a pochi centimetri da me. Annuisce diverse volte, fissandomi negli occhi in modo inquietante e misterioso.
“Che città è questa?”, domando.
“Che città, dice?”.
Allarga le braccia in segno di resa. “Non è mica una città, questa. Questo è l’Inferno”.
“Ho camminato nella neve per diverse ore”, dico. “Ma sia dannato se ricordo come ci sono finito, in quel campo lì fuori”.
L’uomo comincia a spostarsi e dà l’impressione di mettersi alla ricerca di qualcosa. Continua a farmi segno di avvicinarmi, ma oramai è così buio che i miei occhi non distinguono più niente. Così mi deve pregare: “Si avvicini, si avvicini. Venga con me, dobbiamo passare nell’altra stanza”. Attraversiamo l’arco buio e in breve ci ritroviamo di fronte a una porta di legno. L’uomo abbassa la maniglia, spalanca la porta di fronte a un muro di mattoni e finalmente posso rivedere la luce. Una luce debole, la cui fonte è abbastanza distante dal punto in cui ci troviamo, tuttavia sufficiente per consentirmi di osservare la figura del mio accompagnatore: un signore distinto, cinquantacinque forse sessant’anni, coi capelli bianchi completamente spettinati, di corporatura esile.
Si volta verso di me e, con un gesto eloquente della mano, mi fa segno di seguirlo, come se già sapesse cosa ci aspetta oltre questa porta. Non ci scambiamo nemmeno una parola durante tutto il tragitto. Continuiamo a percorrere un corridoio dalle pareti grezze: avanzando, la debole luce diventa sempre più intensa. Arriviamo in una grossa stanza, dove finalmente scopro che fine ha fatto quel gruppo di persone.
Saranno una sessantina di individui circa. Sul lato destro della stanza scorgo un’ampia finestra e un gran numero di persone, infagottate nei cappotti e infreddolite a causa del gelo in cui è costretta anche questa sala, ammassata accanto alla vetrata.
Nessuno sembra badare al nostro ingresso nemmeno quando, fermi nel bel mezzo della stanza, mi chiedo se il mio misterioso compagno ed io, per qualche ragione sconosciuta, siamo di colpo diventati invisibili, oppure ci troviamo di fronte agli individui più indifferenti che esistano sulla faccia della Terra. In parecchi battono i piedi sul pavimento, alcuni si stringono nelle braccia e c’è anche chi si strofina rumorosamente le mani racchiuse nei guanti. Non capisco perché tutti si ostinino a voler sostare accanto alla finestra, dal momento che la sala ha tanto spazio. Rifletto per un po’ su questo pensiero, giungendo persino a considerare che tutte queste persone si siano ammassate in quel punto semplicemente per osservare la neve, al di là del vetro. In verità non ce n’è uno che guardi fuori.
Alla fine di queste inutili congetture mi rivolgo all’uomo: “Però, fa un po’ troppo freddo per essere all’inferno!”.
“Eppure è proprio così”, mi spiega lui.
“Ma come fa a saperlo?” insisto.
“Lo so perché si tratta del mio sogno”. Assume un’espressione seria, a metà tra l’adirato e il deluso. Come chi, dopo aver programmato a lungo un weekend al mare, scopre che il sabato mattina ha cominciato a piovere.
Comincio ad averne abbastanza di tutta questa faccenda. La stanchezza mi assale come una belva inferocita e i crampi della fame mi afferrano lo stomaco come grosse tenaglie. La sofferenza fisica non mi permette di essere lucido. Ad ogni modo spero che si tratti davvero di un sogno perché se così fosse, a un certo punto dovrei svegliarmi, liberandomi da quest’incubo.
Per quanto improduttivi, continuo ad insistere nei miei ragionamenti. “Come può essere il suo sogno? Me lo spiega, in nome di Dio? Se io sono qui, di fronte a lei, in questo preciso momento… Come può affermare che è il suo sogno?”. Mi rendo conto che è la spossatezza a farmi arrabbiare con questo individuo, mai incontrato prima d’ora.
“Eppure, mio caro signore, è proprio così”, insiste lui con tono pacato. “Non appena giunge la notte continuo a ritrovarmi in questo posto. Lei mi vede qui, in questo preciso momento, di fronte a lei, ma in realtà sono morto da diversi giorni. Le confido una cosa che ho scoperto: quando una persona muore non smette di vivere, piuttosto comincia una nuova vita, all’interno del suo sonno. E la mia vita ultraterrena è questa qui.
“Ma come può essere?”, domando, oramai smarrito nella confusione più completa, “allora, se le cose stanno così, anch’io dovrei essere morto”. Dopo qualche attimo lo incalzo nuovamente: “Dal momento che viene qui ogni notte, saprà pure cosa ci fanno tutte queste persone ammucchiate vicino alla finestra!”.
L’uomo annuisce. “Certo che lo so. So anche cosa succederà: deve avere solo un po’ di pazienza”.
Mi siedo in un angolo e mi addormento di colpo, nonostante i morsi della fame. Anche le altre persone si sono silenziosamente distese, accanto alla finestra.
Trascorrono diverse ore.
La notte svanisce lentamente e quando giungono le prime luci dell’alba mi sveglio, completamente intirizzito dal freddo. Scopro che buona parte di quella gente si è già alzata e, come me, batte i piedi per terra, nel tentativo di scaldarsi: più di un individuo, approfittando del vicino ancora addormentato, cerca di scavalcarlo per avvicinarsi alla finestra. Mi guardo attorno alla ricerca del mio accompagnatore e lo trovo in un punto della folla.
Non appena i nostri sguardi si incrociano mi chiama con un cenno della mano. “Venga, si avvicini”, mi dice.
Quando il sole si fa alto e i suoi raggi penetrano l’ampia vetrata, tutti cercano di farsi più vicino. Chi si trova nella zona meno esposta alla luce spinge quelli nel mezzo che, a loro volta, si accalcano sui vicini, proprio accanto ai vetri. Anch’io spingo per ottenere la mia razione di calore, ma mi rendo conto che il gruppo è troppo folto per contenerci tutti, entro il raggio d’azione del sole. A un certo punto, una grossa nuvola oscura il cielo. Subito, si leva un coro di disapprovazione, mentre tutti cadiamo nella penombra. Dopo pochi minuti, nei quali speranza e sconforto invadono l’umore di tutti, il sole capitola definitivamente in questa grigia giornata, e a poco a poco ognuno si rassegna al freddo, qui, nella grande sala.
Anch’io mi rassegno al freddo e torno al mio angolo di prima, seguito dall’uomo con il lungo cappotto nero, che viene a sedersi di fronte a me, strofinandosi forte le mani. “Ho fame. Lei no?”, gli domando. “Non c’è un posto dove si può trovare qualcosa da mangiare?”.
L’uomo scuote la testa a lungo, con quel suo fare enigmatico. “La vede quella porta là in fondo?” mi dice indicando una porta di legno chiusa. “Tra poco si aprirà ed usciranno alcuni uomini in divisa militare, che dispenseranno pezzi di pane”.
Mi volto in direzione della porta chiusa, per poi spostare nuovamente lo sguardo su quest’uomo dall’aria così arrogante, sicura di sè: è davvero una persona antipatica, penso. Inutile domandargli come fa a sapere tutto questo: vista l’empatia che c’è fra noi, senza alcun dubbio non mi degnerebbe di una risposta.
“Si, va bene. Ma cosa ci facciamo in questo posto?” domando. “Voglio dire, ci sarà pure una strada, qui intorno, o che so io… un paese dove cercare del cibo e un altro rifugio meno affollato!”.
L’uomo continua a strofinare le mani. Ha dita sottili e lattiginose, come la neve che circonda questo edificio. “Pensa che sia tanto stupido da non averci già provato? Sa cosa succederebbe se adesso ci alzassimo e uscissimo fuori dall’edificio?”.
Adesso sono io a scuotere la testa. Ignoro cosa potrebbe succedere se decidessi di tornare indietro: mi sento affranto, svuotato, deluso da tutta questa vicenda, all’apparenza senza via di uscita.
“Dieci giorni fa, quando mi sono ritrovato qui dentro per la prima volta, ho provato a tornare indietro” spiega “mi sono allontanato da questa stanza, ho percorso il corridoio a ritroso e, nel momento in cui mi avvicinavo all’uscita, l’entrata principale è crollata. Il secondo giorno ho provato ancora ed è successa la stessa cosa. Il terzo e il quarto giorno ho deciso di agire diversamente”, si soffia fra le dita gelate e continua “ho provato a vedere cosa succedeva ad oltrepassare quella porta di legno chiusa”. Me la indica un’altra volta.
“Cosa c’è dall’altra parte?”.
“Se ha un po’ di pazienza, tra poco lo vedrà con i suoi occhi”.
In effetti, dopo alcuni minuti, quella porta si apre e ne esce un uomo tarchiato, vestito di una divisa militare verde, dal tessuto pesante, tempestata di bottoni circolari dorati. Lancia una specie di urlo scimmiesco che mi spinge, senza un motivo apparente, a scattare in piedi mentre il mio accompagnatore, imperturbabile, sempre seduto, si limita ad abbracciarsi un ginocchio tra le mani. Quasi tutti i presenti, come me, balzano in piedi all’istante, intimoriti.
Dalla porta emergono altri due militari, dall’aria più mite, con una grossa cesta tra le mani: in breve tutti e tre cominciano a lanciare dei pezzi di pane alla folla assiepata nella grande sala. La gente si stacca per la prima volta dalle vetrate e si lancia contro il cibo. Dopo un tempo indefinito, l’uomo dal pastrano nero mi dice che dobbiamo affrettarci a prendere qualcosa da mangiare, perché c’è il rischio di rimanere a digiuno per parecchie ore. Così, dopo poco, mi ritrovo a lottare nel bel mezzo della folla, per guadagnare il mio pezzo di pane.
Mi sembra un incubo, davvero: gente che lotta per riscaldarsi alla luce del sole e che elemosina un pezzo di pane rancido. Mi convinco che si tratti davvero di un sogno, proprio come affermava l’uomo poco fa. Non c’è altra logica spiegazione a questo posto dimenticato da Dio.
Nel tardo pomeriggio la porta di legno si apre di nuovo.
Il militare tarchiato urla qualcosa in una lingua che non capisco. Non so se è tedesco o russo. Lo ripete diverse volte. Guardo in direzione della mia guida, appena svegliatasi da un sonno, a suo dire, ristoratore: in un contesto diverso l’avrei invidiato, ora sono troppo scosso per provare un sentimento simile.
“Cosa succede adesso?”, gli faccio, esasperato.
L’uomo dal pastrano nero guarda fuori della finestra: il cielo si è un po’ oscurato oltre la spessa coltre di nubi. Sembra stia per piovere da un momento all’altro.
“Ci spostano di là”, dice.
“Di là dove?”.
“Nell’altra sala”.
Si adagia seduto mentre la gente comincia a sfollare nervosamente.
“Si parte per il fronte”.
“Il fronte?!? Quale fronte?”
Un soldato si dirige verso di noi, urlandoci in faccia un comando nello stesso incomprensibile idioma di poco prima. Visto che la paura mi impedisce di rimanere in piedi, il militare mi punta la pistola alla faccia, con fare intimidatorio, poi mi solleva di peso, spingendomi in direzione della porta da cui è uscito.
Questa stanza è simile alla precedente, lasciata poco prima. Dall’enorme finestra, posta sul lato destro dell’ambiente, si scorge, da un’angolazione diversa, l’enorme distesa di neve attraversata soltanto ieri, quando nutrivo ancora la speranza di trovare un riparo sicuro. Sento urlare il militare tarchiato, ancora una volta, in lontananza. Probabilmente, in questa strana realtà deve essere il più alto in grado se si permette di gridare in questo modo.
Trascorso un periodo di tempo indecifrabile, riceviamo l’ordine di disporci in colonna. Davanti a me c’è un ragazzino, avrà all’incirca tredici anni, puzzolente in modo stomachevole, come se si fosse rotolato a lungo nel lerciume: tiene le dita strette sul cappotto della donna che lo precede. Mi domando come faccia questa donna a sopportarne il tanfo. È davvero insopportabile.
Intanto continuo a guardarmi attorno e mi accorgo di aver perso di vista il mio accompagnatore. Immagino che il soldato gli abbia intimato di alzarsi e di venire in quest’altra sala, ma non riesco proprio a scorgerlo da nessuna parte.
Il militare tarchiato lancia un nuovo comando e, obbediente, la colonna si sposta. Avanza di un paio di passi per poi fermarsi di nuovo. Procediamo così per una buona mezz’ora, avvicinandoci lentamente a un grosso baule di metallo, posto accanto allo stipite della porta. Quando arriva il suo turno, il ragazzino di prima affonda la mano dentro di esso, senza guardarne l’interno, e tira fuori una pistola.
La impugna febbrilmente e subito si mette a premere il grilletto in maniera convulsa, come se volesse sparare a qualcosa. Il militare tarchiato gli allunga delle pallottole e il ragazzo le infila in una tasca, prima di uscire dalla stanza.
Subito dopo viene il mio turno…
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Il racconto proseguirà e si concluderà domani.
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