Mi blocco e mi domando perché mai debba raccogliere un’arma da qui dentro. Visto il mio indugiare, uno dei soldati si avvicina, mi strattona per una manica fino a spingermi la mano nel grosso baule: senza nemmeno accorgermene, mi ritrovo in pugno una vecchia colt arrugginita.
Il militare consegna delle cartucce anche a me e fa segno di uscire dalla stanza.
Mi ritrovo in un corridoio avvolto nella semioscurità. Quando provo a far scattare l’arma, schiacciando a ripetizione il grilletto nella stessa maniera del ragazzo, mi ritrovo di fronte, senza nemmeno accorgermene, due militari che mi fulminano con lo sguardo. “La mia pistola non funziona” dico, premendo ripetutamente il grilletto e mostrando loro il tamburo che non ruota. “Devo cambiarla”. Proprio in quel momento avverto un fragore inquietante, come un colpo di cannone: uno dei due uomini mi grida qualcosa a muso duro, poi entrambi mi afferrano di peso e mi trascinano lungo il corridoio, senza usarmi troppi riguardi.
Uscito dall’edificio il freddo mi avvolge in una morsa.
Per prima cosa vedo un’enorme palla di metallo, sparata da un cannone, invadere l’aria con una traiettoria ad arco prima di schiantarsi a terra. Chiudo gli occhi istintivamente. In lontananza si sentono parecchie deflagrazioni, colpi sparati da diverse armi, di diverso calibro: un conflitto a fuoco in piena regola. Con una pistola inutilizzabile, quale unico strumento di difesa, mi domando se si possa scappare da qualche parte. Attorno all’edificio scorgo solo neve, delicata come ovatta, candida e silenziosa sotto questo cielo grigio che si va lentamente oscurando. Per quanto cerchi con lo sguardo il ragazzo puzzolente di poco fa, non riesco a scorgerlo da nessuna parte.
Dopo un po’, accanto a me compare una giovane ragazza con un fucile stretto in braccio: è appena uscita dall’edificio e corre a perdifiato. La chiamo a gran voce, ma lei nemmeno si volta.
“Aspetta” le dico “dove sono finiti quelli che sono usciti poco fa?”. Continua a correre senza voltarsi, in mezzo al frastuono degli scoppi. La inseguo. In questo preciso istante mi rendo conto quanto sarebbe risultata utile la presenza del mio vecchio accompagnatore, l’uomo dal lungo cappotto scuro. Ma lui non c’è, è come dissolto nell’aria. Percorriamo diversi metri annaspando nella neve fresca. Cado e mi rialzo un paio di volte, affrettandomi per paura di restare da solo. La giovane, invece, non ha difficoltà nel correre e guadagna sempre più terreno: mi domando dove mai si arresterà la sua fuga visto che i colpi sparati in lontananza si sono fatti pericolosamente vicini e distinti. A tratti, si odono delle urla strazianti, anche se mi è difficile capire da dove provengano. Penso solo a seguire la scia della donna in fuga ma, dopo pochi secondi, diversi colpi di cannone vengono sparati da vari punti, nel campo innevato, librandosi nell’ aria come uccelli ingessati, accompagnati da numerose deflagrazioni, cornice di questo paesaggio da incubo.
Una di quelle maledette palle di metallo si schianta a un centinaio di passi dal dove ci stiamo spostando. Per un attimo penso di essere prossimo alla morte: ho il cuore che mi scoppia, ma devo continuare a seguire la giovane che mi precede. Sento che questa è la sola speranza che mi resta.
Ad un certo punto, la ragazza compie un piccolo balzo e scompare nella neve. Avanzo nella convinzione che sia stata colpita a morte, ma giunto a pochi metri da lei scopro una profonda fossa dove hanno riparato le persone uscite dall’edificio prima di me. Salto anch’io e mi ritrovo nel mezzo di una lunga schiera di gente in attesa. Mi adatto subito a quel bisogno di attesa, soprattutto perché ho il fiatone, il busto che si gonfia convulsamente per l’angoscia e la sofferenza e il sudore che si congela sulla fronte e sul collo.
In lontananza, le esplosioni aumentano in un crescendo vorticoso. Uno degli uomini che si trova lì sostiene convinto: “Dobbiamo difenderci. Le truppe nemiche avanzano imperterrite e saranno qui tra breve. Se non vogliamo soccombere dobbiamo reagire ed essere pronti”. Sentir parlare qualcuno di loro, nel cuore di questa stretta trincea che serpeggia nel mezzo di un campo coperto di neve, mi fa un certo effetto. È come udire per la prima volta una voce distante migliaia di anni.
Sempre lo stesso uomo continua: “Se vogliamo difenderci, dobbiamo necessariamente uscire allo scoperto e capire da quale punto i nemici ci stanno attaccando. Voglio un volontario, un uomo coraggioso pronto a sacrificarsi per la nostra causa”. Probabilmente è un capo o, perlomeno, una persona cui tutti sembrano riservare, per un motivo che al momento mi sfugge, un certo rispetto.
Mentre l’uomo spiega le proprie intenzioni controllo la pistola che ho pescato dal baule. È impensabile combattere con un’arma del genere: mi riesce difficile persino capire come estrarre il tamburo per infilare i proiettili. Alla mia destra un uomo, con la faccia scura e molto rugosa, come se avesse appena letto nel mio pensiero, prova con insistenza a far scattare il cane della propria pistola e a saggiare la funzionalità del tamburo. La sua pistola, al contrario della mia, sembra nuova e funzionante a ogni comando.
In breve, finalmente, viene deciso chi deve uscire allo scoperto.
Il capo indica un ragazzo alto e magro, con un naso lungo, molto pronunciato: quando si mette di profilo la sua testa ricorda, sotto certi aspetti, una specie di pesce di cui mi sfugge il nome. Questo ragazzo si alza, con l’aria confusa e le spalle leggermente inclinate in avanti: non mi vergogno di provare un sentimento ambiguo, tra il sollievo e la pietà, nel vederlo scavalcare la trincea con la pistola in pugno.
È un sollievo di breve durata.
Il ragazzo riesce a percorre soltanto una manciata di metri, giusto il tempo per consentirci di sollevare un poco le teste dal nostro riparo, e vederlo accasciarsi al suolo, colpito a morte da un cecchino appostato dall’altro lato del campo.
Restiamo tutti col fiato tirato, in silenzio. Attoniti. Ma la stasi dura poco. Il capo torna a parlare con quel suo tono snervante, perentorio. Non oso nemmeno allungare il collo per focalizzarne l’aspetto: dovesse scorgermi in questa schiera di combattenti disperati sarei spacciato, come il ragazzo di poco fa. Il terrore che serpeggia tra i presenti è indescrivibile: una morsa che esplode nella pancia, per poi invadere le viscere, lo stomaco e risalire fino al cervello, suggerendoti che sei vivo, ancora per poco.
Fino a poco fa temevo la fame: ora, invece, voglio vivere.
Anche la seconda persona mandata al macello stramazza al suolo quasi subito, con l’unico merito di aver percorso qualche metro in più. La voce del capo, impassibilmente, esterna una deduzione che sa di crudele ovvietà: “Hanno un cecchino appostato in un punto della loro trincea. Dobbiamo continuare con la nostra tattica finché non scopriremo il luogo di appostamento”. Queste parole sanno tanto di induzione al suicidio, buona soltanto a sacrificare decine di persone in nome di una battaglia senza significato. Lo penso guardando il cielo che oramai si è fatto scuro, mentre insisto nel provare la mia arma. Niente da fare: il cane non scatta e il metallo è così arrugginito da rendere inutilizzabile il tamburo.
Non so proprio come farò a uscirne vivo, in una situazione del genere.
Verso sera c’è un cambiamento insperato, come se il mio pensiero avesse preso forma per manifestarsi a tutti gli altri compagni nella trincea.
Proprio quando il capo esige un altro volontario per la causa, una voce si leva dicendo: “È una carneficina inutile. Hanno un cecchino appostato non si sa bene dove: per quante persone decidessimo di inviare in avanscoperta, ci colpirebbero ogni volta”. È una voce femminile a parlare, sottile e asciutta. “A mio avviso non possiamo far altro che starcene qui e combattere il nemico usando la sua stessa tecnica”.
In breve, si leva dalla trincea un intenso mormorio e tutti sembrano d’accordo con questa affermazione. Anche il vecchio seduto accanto a me, per un attimo, si libera dall’ossessione di far scattare la sua arma, solleva lo sguardo e bisbiglia a mezza bocca: “Finalmente qualcuno ha capito come stanno le cose”. Poi abbassa gli occhi e torna a provare il tamburo, sfilandolo e rimettendolo nell’arma, facendolo ruotare come un mulinello. Così, dopo un po’, il capo ordina a tutti quelli che impugnano un fucile di appostarsi dietro la trincea e sparare.
Per diverse ore non accade nulla, non un colpo viene esploso, da una parte e dall’altra. I nostri cecchini rimangono appostati, silenziosi, immobili come tante statue, con l’indice sul grilletto e un occhio socchiuso per mirare al meglio. Vista la situazione, il capo impartisce un nuovo ordine, comandando di sparare a turno, a intervalli regolari.
Per una buona mezz’ora si va avanti a sparare: i cecchini continuano a mirare in lontananza, verso un punto imprecisato, in mezzo alla neve candida. A parte il sottoscritto, tutti offrono il proprio contributo alla causa, sollevando il braccio oltre la trincea per sparare alla cieca, senza mirare. È una situazione confusa, statica, a tratti surreale, che mi dà l’impressione di una sorta di tiro al piattello con una sola squadra in campo. Solo che non c’è nessun piattello da colpire e, per quel che ho compreso sin qui, in palio vi è solo un’ostilità che si rinnova ogni giorno. La nuova tecnica sembra funzionare perché dopo un po’ si avvertono dei rumori anche dall’altra parte, dei timidi spari seguiti da cannonate fragorose, sempre più frequenti, fino a quando le ostilità non vengono nuovamente ingaggiate su due fronti aperti.
Sprovvisto di un’arma degna di questo nome, so di avere vita breve.
Una volta usciti allo scoperto, mentre il gruppo avanza con le armi in pugno. arrancando in mezzo alla neve, cerco di ripararmi dietro uno dei miei compagni: capisco che l’unica via di scampo, per garantirmi una minima possibilità di sopravvivenza, consiste nell’ereditare l’arma di un mio compagno, non appena questi verrà ucciso. La mia volontà di vivere è talmente decisa che, pur essendomi toccata in sorte una pistola inutilizzabile, non trovo il coraggio di gettarla via: ogni tanto provo ancora a far scattare il cane, ma è tutto inutile.
Continuo ad avanzare in preda al terrore di essere ucciso: ogni volta in cui il compagno che mi fa scudo col suo corpo si arresta, imbraccia il fucile e spara, mi fermo esattamente dietro di lui, sperando che venga colpito al posto mio.
Ma non accade nulla di ciò.
Dopo un po’ che avanzo insieme ai miei compagni, nel buio della sera rischiarato dalle deflagrazioni delle cannonate, l’occhio mi cade per terra, dove giace l’uomo dal lungo cappotto nero, colpito alla testa. Sconvolto da questa visione, commetto l’errore di volermi soffermare ad osservare il suo corpo, oramai privo di vita, mentre il resto della truppa continua ad avanzare.
Dimentico di tutto, mi inginocchio accanto all’uomo, quasi a volermi accertare che sia proprio lui il morto: non appena ruoto il suo viso nella mia direzione, e riconosco la sua espressione mesta, da uomo sconfitto e rassegnato al proprio inferno, un’esplosione potentissima mi schiaccia con la faccia per terra.
Perdo i sensi.
Quando riapro gli occhi ricordo subito quella tremenda esplosione: ho fatto un volo di diversi metri per poi atterrare in maniera scomposta, dolorosamente.
Mi alzo a fatica, strofino le mani sugli abiti per darmi una ripulita e mi incammino lungo il campo ricoperto di neve: per quanti sforzi faccia non comprendo come riesca ad essere ancora vivo. Dopo poco, in lontananza, scorgo di nuovo l’edificio e il gruppo di persone, tutte accalcate di fronte all’entrata.
La stessa visione iniziale. Non un dettaglio fuori posto. Di nuovo punto e a capo.
Sconvolto, affondo le scarpe nella neve e ripenso a ciò che mi ha detto il mio accompagnatore, l’uomo dal cappotto nero, solamente ieri (ma sarà stato ieri per davvero, a questo punto?): l’unico obbiettivo consiste nel raggiungere l’edificio posto di fronte a me, e basta.
Verso sera, all’interno della costruzione, mentre mi riposo su una sedia sfondata, aspettando che scenda la notte, un giovane entra nell’edificio, si guarda in giro e, dopo avermi scorto tra le ombre grigie della sera mi domanda: “Chi c’è qui? Che città è questa?”, con tono spaventato e triste.
Allora mi alzo, lentamente, e mi avvicino a lui, con passo morbido e cadenzato, finché i nostri volti non sono molto vicini e lui può scorgermi.
A quel punto il giovane aguzza gli occhi e mi domanda: “Sa per caso che posto è questo?”.
Ed io gli rispondo: “Questo è il mio sogno”.
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Racconto scritto e proposto da Alfredo Perna
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