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Per lo Speciale Antonio Moresco di Carlotta Susca

Leggendo un libro siamo consapevoli di avere sotto gli occhi – in tutte le forme in cui la tecnologia renda possibile averla – una rappresentazione della realtà, una riproduzione, a parole e inchiostro, di qualcosa che ontologicamente esiste al di fuori di noi. Questo almeno dal punto di vista del lettore.

Ma allo scrittore che si appresti a selezionare dal «mondo dei possibili», come lo ha chiamato Calvino, non già le parole per descrivere, ma anche il punto di vista e la porzione di realtà da riferire al lettore, all’autore di un testo (che un editore renderà libro), in che termini si pone la scelta?

Nell’ultimo dei cinque saggi brevi della Parete di luce, primo libro della collana ‘I fiammiferi del Primo amore’ (effigie), Moresco attinge dalla letteratura e dal mito due caverne per rappresentare le possibilità dello scrittore nell’atto di creare una rappresentazione. Il quinto saggio, testo di una conferenza, segue riflessioni su Cervantes, Emily Dickinson, Céline e De Roberto: scritti interessanti e utili, ma inevitabilmente superati da quest’ultima, preziosa, riflessione su realtà e finzione.

Innanzitutto Moresco esordisce, in questo testo conclusivo, dichiarando di odiare entrambi i termini, perché trappole linguistiche che ci indurrebbero a pensare che la realtà se ne stia tranquilla per i fatti suoi e che la finzione ne sia una porzione selezionata a consumo del lettore. Ecco, lo scrittore, ci dice Moresco, può limitarsi a trascrivere ciò che vede, come chi esca dalla caverna di Platone e si limiti a confrontare le ombre con la loro matrice, oppure può descrivere la ‘realtà’ scoprendola poco per volta, lasciandosene stupire: come Zanna Bianca, che sbuca da ben altra caverna per sfondare la ‘parete di luce’ e saggiare la profondità e luminisità del mondo vero, ben più ampio dell’orizzonte limitato dalla protezione materna.

Per potersi limitare a trascrivere occorrerebbe conoscere bene la fonte, accettare che la realtà sia circoscrivibile, ma già la nostra percezione limita la portata conoscitiva di quella che chiamiamo ‘realtà’. Dunque come produrre della finzione se non abbiamo accesso al modello? Un risposta è, appunto, quella di non limitare linguisticamente i due àmbiti, ma di lasciarsi stupire dalla progressiva scoperta, e scoprendo descrivere la parziale e unica percezione di quell’inafferrabile totalità che si pretende oggettiva.

Prezioso, prezioso saggio da tenere a mente, in questi tempi di rivendicazioni neorealistiche.

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