Racconto breve di Thomas Ticci
Sicuramente vi sarete già posti la domanda: cosa sono diventato?

Disegno di Thomas Ticci
Diceva l’uomo di fronte a loro, dietro ad occhiali dalla montatura sottile e il camice bianco con tono basso e conciliante.
Vedete – continuò -, se ricordate bene non più di qualche hanno fa il nostro percorso di ricerca è stato attaccato, deriso, politicizzato. Hanno parlato a sproposito su tutto, accecati dal miraggio di possedere la verità certa e assoluta. Una verità stolta e retrograda dico io. Basata solo sul conservatorismo cieco di una fede malata e ripiegata su se stessa.
I coniugi lo fissavano incapaci di distogliere lo sguardo non molto sicuri di comprendere le parole del dottore. Lei, con le mani strette in grembo e le braccia rigide lui, più composto, tenendo i palmi sulle ginocchia era impegnato a tener a freno il ticchettio del sopracciglio.
Ascolti, tentando di intromettersi nel soliloquio. Io e mia moglie ci siamo informati. Abbiamo letto delle cose su quello che fate qui. Si, insomma. Lo sappiamo. Quello che però non siamo riusciti a capire però è come mai? Se questo è un ospedale… sì insomma. Perché non si parla di cura?
Il dottore rimase impassibile e in silenzio, col mento appoggiato sul dorso. Poi un angolo della bocca ammiccò ad un mezzo sorriso con la perfezione di chi lo aveva praticato per anni con successo. E si preparò a rispondere per l’ennesima volta ad una domanda che riassumeva anni di studi e di ricerca.
La cura, mio carissimo amico, cosa è? Sarebbe in grado di darmi una definizione precisa del termine cura? Cura non è qualcosa. È un atto in relazione al suo antagonista. E qual’è il suo antagonista mio carissimo amico?
Il ma… male? Balbettò l’uomo e balbettò il sopracciglio.
Il male, inspirò il dottore gonfiandosi.
I coniugi si guardano stupefatti.
Quello che la società moderna ci ha abituato a pensare fino ad oggi è che tutto ciò che si discosta dalla normalità, normalità per altro imposta dico io, è da condannare seduta stante. Bollata – urlò – come marchiata a fuoco affinché ovunque si riconosca che colui che ne porta lo stemma si è macchiato dell’orrendo crimine di deviare dal percorso ottuso e seriale di quello che loro chiamano – scandendo – normalità.
Il dottore ruotò la testa come un gufo verso la donna.
È di suo padre che stiamo parlando.
Alla donna si ravvivarono gli occhi brillanti di lacrime trattenute.
Sì, disse piano.
Suo padre è affetto da Alzheimer.
Lei annuiva.
Il morbo di Alzheimer è una malattia degenerativa invalidante. Se mentre venivate qui qualcuno vi avesse parlato di cura avreste potuto denunciarlo e così denunciare me. Noi qui non curiamo i malati di Alzheimer, curiamo l’uomo. Fino ad oggi il problema, quello che ci hanno abituato ad identificare con il male è sempre stata la malattia. Non le nascondo che riavere suo padre sarà impossibile. Ciò nonostante ho creato quest’istituto fermamente convinto che vi sia un altro percorso, un’altra strada che potesse condurci verso inesplorati campi della scienza medica. Il nostro scopo non è quello di riportare il paziente ad un concetto di salute distorto, civilizzato. Noi siamo in grado di restituire a vostro padre probabilmente molti anni ancora di vita. Una vita di cui non avrà propriamente consapevolezza ma vi assicurò che sarà una vita che voi stessi invidierete.
La discussione continuò per molto ancora. Quasi tutta la mattinata. Vennero consegnate delle brochures informative e si passò ad illustrate tutti i processi, compresi quelli chirurgici.
Tutta questa parte? Mormorò la signora indicando con l’indice la figura di un cervello.
Si signora, approssimativamente è una porzione di circa quelle dimensioni.
Cioè – disse l’uomo – , gli volete affettare il cervello?
Francamente – ribatté il dottore in piedi con le mani dietro la schiena – , la trovo un’espressione con un’eccessiva dose di enfasi, ma posso passarle la metafora.
Oddio, sospirò lei.
Questo intervento è essenziale per intraprendere l’iter medico. Nostri studi hanno brillantemente stabilito un sistema per individuare tutte quelle zone del cervello che hanno subito un danno dalla malattia. Un’equipe di chirurghi altamente specializzati è in grado di rimuovere sezioni della centesima parte di un granello di sabbia senza danneggiare minimamente il tessuto neuronale sano. Comunque sia, in allegato al contratto, trovate anche la polizza assicurativa che vi illustrerà le possibili forme di rimborso.
Firmarono.
Dopo l’operazione l’uomo fu costretto ad un periodo di quarantena e nessuno poté vederlo. Le analisi erano periodiche. Nella clinica regnava il silenzio. Nessuno parlava. Tutti erano ricoperti di plastica da cima a fondo tranne i pazienti che dormivano.
Dopo un altro periodo l’uomo sveglio imparò ad osservare di nuovo. Imparò a gattonare. A muoversi prima in maniera stramba poi più regolare. Imparò ad ascoltare. Non le parole, perché nella clinica nessuno parlava. Imparò ad ascoltare i rumori. Associò l’acqua che appariva nella stanza al suono scrosciante che sentiva nell’aria. Associò il cibo ad un rumore rapido e basso come di foglie. Un giorno fu colpito da un odore strano e sentì una forte fitta al costato. Fu un odore che non risentì più ma se lo ricordava bene a avrebbe fatto attenzione.
La prima uscita avvenne in marzo. Fu accompagnato fuori e lasciato libero di interagire con i suoi nuovi compagni. Una grossa femmina di orango tango se ne stava seduta su una roccia dondolando annoiata le zampe.
L’uomo camminava sull’erba con tutte e quattro le mani. Non si era ancora accorto della scimmia. Girellò incuriosito fra gli alberi. Ne tastò il tronco. Sollevava le rocce e prendeva i rami secchi. Quando, alzando lo sguardo sulla grossa femmina, la vide, il suo corpo ebbe un istintivo moto di orgoglio e gonfiò il petto. Non dette a vedere che si era accorto di lei e proseguì come prima fra gli alberi.
La scimmia rimase ancora ferma ma seguiva l’uomo. Questi era tornato indietro e scuoteva senza convinzione il vetro fra lui e i due coniugi che lo guardavano. Era come guardare negli occhi di un cucciolo. Solo che quel cucciolo aveva il volto di tuo padre.
Lei mise il palmo sul vetro e l’uomo, da dentro, continuava a grattare. La donna piangeva mentre guardava suo padre e il marito le teneva un braccio attorno alle spalle.
La grande femmina rimase ferma. Poi emise un soffio e grugnì alzandosi. Andò incontro all’uomo che si girò. Aveva il volto triste ma senza pianto. Gli si avvicinò e imbronciò le labbra in una smorfia di dolore. Poi si sedette a fianco a lui, molto più alta di lui, e come una matrona gli cinse col braccio peloso le spalle. I quattro rimasero fermi a guardarsi separati dal vetro come di fronte allo specchio.
In seguito, alla fine della terapia, quando il paziente fu dichiarato guarito non fu più chiamato uomo. Fuori dalla clinica continua a vivere con coloro che erano tornati ad essere suoi fratelli.
___
[email protected] Leggi altri racconti degli Alieni Metropolitani… Cliccando qui
5 marzo 2012
Molto forte. Pensare a mio nonno come una scimmione mi ha messo i brividi. Però un bel racconto davvero.
6 marzo 2012
Molto bello! Originali l’idea e lo stile, complimenti. Mi stona solo un po’ la frase finale, mi sembrava più significativo il pensiero “I quattro rimasero fermi a guardarsi separati dal vetro come di fronte allo specchio.”
😀
6 marzo 2012
Ciao Elisa. Grazie. La frase finale ho dovuto ponderarla più del dovuto. Probabilmente hai ragione, il racconto sarebbe stato più incisivo se chiudeva sul periodo precedente eppure, spesso, mi sono state mosse critiche per il “non-scritto”. Da una parte c’era l’esigenza di evidenziare il futuro felice del personaggio dall’altro però mi sembrava una frase superflua. L’ho aggiunta staccata dal corpo del racconto. Un moderno: e vissero per sempre felici e contenti. Farò tesoro del tuo consiglio. Grazie ancora.
6 marzo 2012
De nada!
Troncando prima secondo me, più che la futura felicità del personaggio veniva messa in luce la similarità tra le due condizioni, quindi la felicità/infelicità di entrambi i gruppi, indipendentemente dalla loro condizione. Ancora complimenti!
6 marzo 2012
Si è vero, ma la similarità fra le due coppie è apparente (appunto come in uno specchio)e comportamentale: la scimmia sostiene l’ex-uomo perchè ne comprende il dolore. Per questo ho dovuto aggiungere l’altra frase. Altrimenti il racconto chiude senza scandire la differenza fra natura umana, intesa come malattia e natura animale che in questo caso è definita cura. Le due condizioni presuppongono un destino assai diverso.