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Cuore & Acciaio

Racconto di Giorgio Michelangelo Fabbrucci

 

Passa la sua intera giornata davanti al muro di cinta. La mattina si prepara autonomamente, anche se ha esplicitamente chiesto che fosse rimosso lo specchio dalla sua stanza. Richiesta a cui abbiamo acconsentito, sperando di creare un minimo rapporto di fiducia che ad essere sinceri…

…riesce persino a farsi la barba senza tagliarsi. Poi si incammina quieto verso il muro e rimane lì tutto il giorno. Comprenderà bene quanto sia difficile per noi prevedere miglioramenti, essendo la situazione stabile da moltissimo tempo.

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Suonarono il campanello con insistenza, come se a quel bottone metallico ci avessero attaccato il dito. Chi é?, chiese. Secco. Polizia di Stato, risposero. Freddi. Gelo amplificato dall’altoparlante del citofono e dai clacson che rumoreggiavano in sottofondo. Pochi istanti dopo aprì la porta, li salutò cordialmente e fece cenno di accomodarsi. Gradite un caffè?, provò subito a chiedere, quasi fosse una visita di cortesia. Prenda le sue cose, è dichiarato in arresto per favoreggiamento aggravato alla Mafia. Lo dissero in coro, come se fossero due robot programmati per dichiarazioni teatrali. Ci dev’essere un errore. La butto lì. L’aveva sentita troppe volte quella frase.

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Il mare. Spruzzi continui e freddi. Pizzi d’acqua tra le grida dei gabbiani. La gente cammina quieta, quasi liberata da qualche raro affanno, sul bordo del bagnasciuga. Un cane corre. La lingua a ciondoloni. Sembra quasi sorrida dietro al ramo umido e sfibrato lanciato per il cielo. Alberto osserva tutto questo chiedendosi quale ruolo abbia il suo corpo rachitico nell’armonia della Creazione. E’ appoggiato alla balconata del solito bar. Il fondo del negroni riverso sul vetro chiazzato di un tavolino in teak. Il ghiaccio che non si scioglie e decine di salvagente e reti da strascico e teste di pesce spada imbalsamate alle sue spalle. Il solito vecchio bar: sapore di Salgari, solo il sapore.

La grande porta a vetri si apre. Alberto non si volta perché con la mente sta contando le onde, per sentirsi ancora più piccolo nell’illusione di sparire, forse. Il rumore prepotente di una sedia che spostata striscia sul pavimento. Un accendino. Odore di fumo.

-E’ uno spettacolo meraviglioso…

-Signora, scusi le spalle ma… ero assorto.

-Lo sono anch’io davanti al mare sa? Lo sono sempre. Ogni volta è come la prima. Sarà banale dirlo, mi scusi, ma è proprio così.

-Mi trova… come dire… beh, sì… sono d’accordo.

Le parole inciampano sulla lingua di Alberto, per poi cadere goffe fuori dalla bocca arsa. La osserva velocemente. Il cappottino rosso. Le calze fiorite di nylon scuro. Polpacci appena accennati. Morbidi. Sodi. Le labbra generose. Uno sguardo che si può sognare solo lungo la Senna in una sera d’estate. Che bel sogno imbecille, pensa.

-Lei è di qua?

-Oh no. Dove sono nata io non c’è il mare. Ad essere sincera è un luogo piuttosto…

-A sentirla parlare, non saprei dire di dove lei sia. Forse…

-Io sono Maria.

-Alberto, piacere. Mi scusi se non mi sono presentato prima ma…

-Non si preoccupi. Lei è di qua?

-Sono nato a pochi chilometri. Sono di Genova.

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Stesero il corpo sulla barella di acciaio. Un letto gelido, dalla superficie smerigliata. Riflettente. Neppure il conforto di un telo di carta. Bianco, da sala operatoria. La stanza si saturò di luce calda, abbacinante. Una lampada sospesa, al centro, con tre grandi occhi, quasi un’astronave. Lui indossava un camice dal color veneziano. L’Altro camicia e jeans. I cavi grondanti di olio, oppure gelatina blu; gli schermi da cui dipartivano mille filamenti come di giungla; gli armadi gravidi di manuali di informatica e dei relativi programmi e dei certificati d’uso e di quei pezzi di ricambio dalla forma umana. Un’officina oppure una sala operatoria.

– Guardala, – disse Lui – l’hanno prodotta così bene che ha perfino un po’ di cellulite -. Poi strinse un gluteo, come fosse di plastilina, e lo serrò nel suo palmo calloso facendolo arrossire, per mostrare all’Altro le piccole anse nella pelle.

– La trovo magnifica. Magnifica per Dio! – esclamò l’Altro. – Girala, – continuò.

– Dammi una mano, –  rispose Lui.

Lui la prese per i fianchi. L’Altro con una mano le sorresse la fronte e con l’altra fece leva su una spalla. La girarono. I seni scivolarono lievi sui lati del torace. Gonfi. Le coppe si imponevano allo sguardo, accompagnando in una curva perfetta le bacche dei capezzoli.

Un piccolo rigonfiamento del ventre, l’abbondanza sui fianchi, il pelo raso dell’inguine… Cristo Santo è perfetta – esclamò Lui.

-Dov’è stata prodotta?

-Questo è il bello amico mio, questo è il bello. Tira a indovinare? Tanto non ci arrivi.

-Scommettiamo?

-Quanto?

-La cifra per una serata.

-Ci sto! Allora dai. Sono curioso sai? Voglio vedere che cavolo di idea si è fatta la tua testolina.

-Arabia Saudita.

-Ma che cavolo ti gira per la testa? Eh? Ma ti pare? Dai, perché sei un amico. Faccio finta di non aver sentito. Spara un altro posto. Ti concedo un aiutino: non è ne sud ne est.

-Fai la sfinge dottore? Ottimo! Ancora più intrigante. Allora vediamo… – si mise vicino al volto di lei e lo fissò come se in quel profilo fosse celata la risposta. Poi si avvicinò ancora un poco, quasi a posare le labbra sulle sue. Inspirò. – Dio mio ma profuma di donna. Sono pazzo o mi sembra di sentire l’alito?

-Non sbagli mio caro. Siamo di fronte ad un prodigio della scienza. Prova. Dai prova a sentire la pelle! – disse Lui.

L’Altro inclinò il volto, appoggiando la guancia a quella di lei. Prese una ciocca di capelli. Erano neri e folti e se li strofinò sul naso. Poi le morse il collo. Le baciò lo sterno, schiacciandole a palmo aperto il ventre con la mano avida.

– Grecia. Questa Dea è stata fatta sull’Olimpo. Poi per qualche cavolo di ragione si è persa ed ha preso il mare. E’ caduta in acqua ed ora è qui da te sulla barella per essere riparata.

– Bella cavolata! Comunque complimenti per la fantasia mio caro. Potresti scrivere favole! La signorina qui presente è stata costruita a Roma.

– A Roma? – gridò l’Altro stupito.

– Non gridare scemo che ti sentono!

– Sì ok scusa. Ma da quando a Roma…

– Lascia perdere. Questa è roba che scotta e non hanno scoperto poi molto. Però…

– Però?

– L’asportazione delle parti organiche sarà fatta in diretta solo tra tre giorni.

– Quanto?

– Trecento. Perché sei tu… due e ottanta.

– Perfetto. Andata.

Lui prese il contante. Lo arrotolò. Lo mise nella tasca del lungo grembiule da chirurgo. Poi estrasse un libro voluminoso da uno scaffale. Uscì dalla porta. Salutò l’Altro stringendo un occhio. – Divertiti, – disse. Richiuse la porta. Si sedette nella stanza accanto e incominciò a ripassare il manuale di anatomia ginoide.

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Per ciò che invece concerne la sua domanda signora devo ammettere che non esiste una vera e propria spiegazione scientifica. Siamo nell’ambito della leggenda metropolitana o quanto meno, la scienza non ha voluto approfondire a sufficienza questa particolare patologia, anche in forza della scarsità dei soggetti a disposizione. Non che non vi sia una casistica ampia, intendiamoci. Piuttosto manca l’osservazione seriale, manca la ripetizione. Come può ben immaginare non è consentito, giustamente aggiungo io, indurre in stato di shock un paziente per analizzarne le variazioni di melanina nelle estremità pilifere. Quindi da medico e ricercatore la mia risposta non può che essere un no. Nondimeno, ma rimanga in questa sede, in veste di normale cittadino non posso che risponderle che ciò che pensa è assolutamente legittimo. Tanto più che il paziente geneticamente, come abbiamo appurato, proviene da un ceppo dall’invecchiamento niente affatto spedito. A suo parziale conforto, posso anzi dirvi con certezza che il paziente vivrà per moltissimo tempo, nonostante i capelli ingrigiti all’improvviso suggeriscano diversamente, anche se le sue condizioni non dovessero migliorare.

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Entrò. Sentì – arrivo! – e stette ad attenderla sul limitare della scala che portava al piano superiore. Si sentì un ospite, come se fosse in visita alla fidanzata nella casa dei suoceri. Guardò la sua cucina, il suo salotto, i suoi cappotti sgualciti, appesi, mai buttati. Forse non era mai stata casa sua. Lo era diventata solo da pochi giorni, come se il senso di proprietà fosse sbocciato con i primi raggi d’Amore; come se quelle piccole mura si fossero trasmutate in tana, in rifugio. Un luogo nuovo. Da difendere. Da vivere davvero.

Si mise in ascolto e percepì dei passi. Probabilmente stava camminando da una stanza all’altra: dal bagno alla camera da letto. Poi un rumore veloce di ante e un frusciare di vesti. Immaginò delle foglie che accarezzavano la pelle di lei. Ancora passi che si facevano vicini, che calpestavano i gradini, che terminavano sulla punta delle sue scarpe bagnate. Lei si fermò e la poté vedere intera, come una bella statua antica, vestita di nuovo. Dei fusò viola. Un girocollo di lana, nero. I piedi scalzi. Saltellò con un sorriso da bambina che esplodeva di gioia, come i bambini la fiera, lo zucchero filato e la ciambella calda coperta di grossi grani di zucchero. Così la strinse a se e la sollevò di poco da terra, in una mezza e goffa giravolta. Come in un film, un bel film, pensò. Poi la portò sul divano, le strinse una coscia con la mano e immerse il volto nella piega del maglione, che come un dirupo di sogni avvolgeva in un oscuro senso odoroso tutti i suoi pensieri.

Non dimenticherò mai il tuo profumo – disse. – E’ come se fossi rientrato in casa due volte. Anzi una sola. Solo adesso sono a casa. Adesso che sento il tuo profumo. Il tuo profumo. Il tuo profumo amore mio -.

Poi alzò il capo e con gli occhi le mangiò le labbra gonfie, guardando il bianco corallo degli incisivi che si nascondeva là sotto. Le prese in bocca un labbro. Lei chiuse gli occhi e tentò un sorriso e lui succhiò quel labbro bello come se non avesse denti, sperando di ricordare in eterno il sapore di quel bacio infantile.

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– Possiamo mostrare il video -.

Il grande schermo al plasma si accese sulla parete destra dell’aula del tribunale. Pochi secondi di pubblicità. Venticinque. In seguito allo spot del dentifricio Marvis, apparve un dottore dal camice color veneziano accanto a quella che si può con imbarazzo definire una lisca, di donna.

Al terminare della colonna vertebrale d’acciaio, al cui interno guizzavano impulsi grigi come girini elettrici, una testa mozzata e grondante, i cui capelli sulle punte sembravano appiccicati. Forse il capo di quella donna un tempo portava onde di grano morbido. Eppure tutto era cadente, come sudato, come coperto di colla vinilica nera, oppure sangue grumoso. Quella specie di donna, di cui rimaneva solo la testa su un corpo di lisca metallo,  aveva uno sguardo stravolto. Gli occhi guardavano il cielo di neon, che come uncini da macello, proiettavano i loro raggi adunchi per tutta l’inquadratura. E la bocca era spalancata, slabbrata, come il pesce morto all’amo, dopo una pesca straziante.

– Come potete vedere abbiamo sezionato il Ginoide, Signor Giudice, e non vi sono tracce di contenitori o, dal punto di vista software, di programmi finalizzati all’offuscamento di informazioni. Come potete notare, – a quel punto il dottore dal camice veneziano infilò le mani in una specie di vasca (o almeno così sembrava da quel taglio a mezzo busto americano) da cui, con le mani a coppa, estrasse del materiale organico che poteva essere una porzione di cuore o di fegato, oppure trippa, similmente a quanto si vede nelle vaschette al supermercato – il cyborg era composto per grandissima parte da materiale organico. – Vedete?, – e mentre rivolgeva la domanda alla telecamera, un pezzo di qualcosa gli cadde di mano, lasciando una striatura rossastra, come bava di lumaca, sul camice. Allora si chinò per raccogliere quel pezzo organico, sparendo dall’inquadratura per riapparire poco dopo e riporre quel frammento di essere umano che forse umano non era nel recipiente che pareva una vasca, – Ecco scusate… dicevo, il cyborg, eccezion’ fatta per la spina dorsale che qui potete ammirare nella sua perfezione tecnica, del teschio e del cervello, era composto da materiale umano. Abbiamo ipotizzato che tale materiale sia stato recuperato da un vivente. E’ stato a tal proposito effettuato un esame del DNA che purtroppo non ha dato risultati. In altre parole non sono state trovate eliche corrispondenti tra i cittadini registrati. Propendiamo dunque per la seguente ipotesi, che il ginoide sia stato… –

– La ringraziamo dottore. L’udienza è tolta. La prossima convocazione è programmata in data undici marzo tra mesi sei -.

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La dichiarazione di innocenza è avvenuta dopo lo shock. Come può facilmente comprendere in questi casi, sei mesi per la mente umana equivalgono ad un’eternità. L’informazione positiva è stata di certo recepita dal cervello che però non la processa, rimanendo ancorato al dato precedente.

Se vuole parlargli un’infermiera è a sua disposizione all’entrata del parco 33.

Signora, in questi casi, come le dicevo prima, non possiamo dare delle tempistiche di ripresa. Suo figlio, con ogni probabilità, mi duole ribadirlo, non potrà tornare quello di un tempo.

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La Madre spinse il maniglione giallo della grande porta a vetri, appoggiandosi ad esso con tutto il peso del corpo. Giallo plastica perfetto, levigato, pulito. Quasi quanto il becco di una maina indiana, eppure senza l’ombra di sfumature o venature.

Poi venne presa sotto braccio da un’infermiera dal volto di bambola e dallo sguardo inespressivo e dal berretto bianco calato su un lato, con una croce rossa al centro che era perfettamente simmetrica alla linea del naso la cui punta era arrotondata come l’estremità incipriata di blu di una stecca da biliardo.

Così uscirono e la Madre si liberò con un gesto brusco della mano che la giovane ragazza teneva stretta tra la piega del suo braccio e il bicipite appassito, perdendo nella foga l’orologio, che scivolò via dal polso magro e livido, cadendo a terra. Lo lasciò lì, bloccato, rotto. Corse perché lo aveva visto e l’impermeabile le scivolò di poco, lasciando scoperta una spalla la cui pelle era costellata di nei. Si avvicinò a lui e lo abbracciò, poggiando una mano sul suo capo, come se potesse sollevarlo ancora, per poterlo cullare tutta la notte.

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[email protected] / twitter@iFabbrucci

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Author: Giorgio Michelangelo

Giorgio Michelangelo Fabbrucci (Treviglio, 1980). Professionista del marketing e della comunicazione dal 2005. Resosi conto dell'epoca misera e balorda in cui vive, non riconoscendosi simile ai suoi simili, ha fondato gli Alieni Metropolitani... e ha iniziato a scrivere.

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