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Per lo Speciale Antonio Moresco Raffaella Foresti

Al liceo avevo un professore di filosofia bizzarro e caparbio. Si era messo in testa che i suoi bravi studenti dell’Istituto Don Bosco di tale cittadina lombarda – contemporanei della bicamerale D’Alema, del tragico incidente del tunnel de l’Alma e del discusso scudetto della Juventus, conquistato grazie ad un rigore ingiustamente negato al fenomeno brasiliano Ronaldo – dovessero assolutamente vedere il film Salò o Le Centoventi giornate di Sodoma di P. Paolo Pasolini. Naturalmente i Salesiani erano di parere contrario, ça va sans dire, ma il buon professore non si arrese finché, mediante un astuto stratagemma che ora non interessa raccontare, una bella mattina di sole ci trovammo tutti nella sala cinema della scuola per la proiezione del lungometraggio. Durò circa due ore e ricordo che quando finì, fuori, nell’assolato cortile della scuola, qualcuno mi prese la testa tra le mani e la tenne stretta per un po’, non so dire quanto.

Il motivo per cui vi racconto questo episodio della mia vita, quando dovrei scriver d’altro, vi sarà subito chiaro.

Non ignoro il giudizio negativo che Antonio Moresco rivolge al Pasolini “vitalista” nell’opera critica Il Vulcano, ma sono convinta che i Canti del Caos rappresentino una sorta di continuazione del cd. ultimo Pasolini, quello del film di cui sopra e del romanzo incompiuto Petrolio. Sesso, sangue, escrementi, pornografia e violenza a raccontare, con una perfezione estetica che lascia allibiti di fronte all’oscenità del soggetto rappresentato, l’abisso dell’umanità.

I Canti del Caos sono anche questo: le lettere italiane migliori degli ultimi sessant’anni (forse le uniche che verranno ricordate nei secoli a venire, e non dico che non ci sia da preoccuparsi) prestate ad esprimere l’inferno dell’edonismo e il regime della tolleranza (o “dittatura della socialdemocrazia”, per dirla con le parole degli alieni metropolitani). Quel precipizio di cui non si vede fine che Pasolini profetizzava per l’imminente futuro e nel quale Moresco ci vede, ormai, completamente immersi.

Riconosco allo scrittore mantovano tutto il valore della sua opera (diversamente, non staremmo neanche a parlarne) perché i Canti del Caos sono, indubbiamente, il prodotto di un artista. Tutta la sua esistenza costituisce un’immensa pura e persino imbarazzante dichiarazione d’amore verso la Letteratura, alla quale lo scrittore ha dedicato tutto sé stesso, senza cedere a comode lusinghe o compromessi di sorta.

Eppure, consapevole del fatto che la firma di un artista non faccia di qualsiasi suo prodotto un capolavoro (pensate ai celebri barattoli di Piero Manzoni) a lettura ultimata dei Canti non posso togliermi dalla testa una domanda. La stessa che mi feci, quindici anni fa, in quel cortile di scuola salesiana dopo aver visto il film di Pasolini. Come può, questo orrore, essere arte?

Non si tratta, evidentemente, di una banale questione sull’estetica del brutto. Per chi non avesse contezza del contesto, sto parlando di scatofagia, sodomizzazioni, ustioni, lingue mozzate, occhi cavati e atti sessuali necrofili sulle vittime (Pasolini) e di piccoli corpi che nessuno ha mai visto in faccia, completamente bendati, da cui spuntano solo genitali bambini e piccoli buchi del culo privi di peli, scuoiati, martoriativagine scoppiate, bocche sbocciate, sfinteri lacerati, materassi gettati per terra, lordati, schizzi di sangue e di muco contro il muro, odore di carne bruciata dal fuoco, di escrementi (Moresco). Per meglio rendere l’idea, a voi l’incipit del Canto della donna amputata: Mi hanno staccato una gamba, poi l’altra, come fanno i bambini con le zampe delle cavallette che hanno preso nel pugno, mi hanno amputato entrambe le braccia con una motosega, nei set. Mi scopano tenendomi sollevata da dietro, mediante una maniglia, mentre sto bocconi sul pavimento, con la bocca contro il sangue, la merda, mi fanno ballare sopra i loro pezzi di carne come un fantoccio dagli arti staccati, tenendomi per le tette con le mani, coi morsi, mi fanno ruotare sopra i loro corpi come un birillo… mi ficcano tutta mestruata dentro questo zaino oppure nella custodia di uno strumento musicale, oppure in quell’altro zaino più chiaro, ricamato, con due cinghie di dietro per caricarmi sulle spalle e trasportarmi così per le strade, negli aeroporti…

Molti altri prima di me, dallo stomaco certamente più forte del mio, hanno interrotto varie volte la lettura del libro per la paura di essere inghiottiti dal varco oscuro aperto da Moresco (appropriato, in questo senso, il dipinto di Fontana in copertina Mondadori).

I Canti del Caos sono un’opera-mondo e non basterebbe un tomo di mille pagine a farne un’analisi esauriente (dalla struttura, all’uso del linguaggio, all’invenzione dei personaggi, e molto altro).

Mi soffermo sull’aspetto dell’oscenità – solo di poco mitigata dalla straordinaria dolcezza della lirica moreschiana (molte delle pagine di questo libro sono quanto di più bello possiate leggere nella vostra lingua) – perché è ciò con cui il lettore deve prima di tutto fare i conti, l’ostacolo da superare per arrivare ad altro. Se non lo si affronta, se non lo si accetta, difficilmente si proseguirà nella lettura. Inoltre, l’estrema oscenità del soggetto, ripetuta per centinaia di pagine, è ciò su cui i detrattori dell’opera basano tutte le critiche, mentre i suoi estimatori, stranamente, non ne parlano volentieri (trovatemi un’autorevole lode ai Canti del Caos che vi dica chiaro e tondo, come ho cercato di fare io poc’anzi, cosa c’è scritto in questo romanzo). Troppo scandaloso? Troppo violento? Troppo brutale? Di nuovo: come può, questo orrore, essere arte?

Dal canto mio, per indole o formazione, continuo ad essere irrimediabilmente attratta dalla Bellezza, un valore che spesso, come molti, cerco nell’Arte come fosse un caldo rifugio all’interno del quale difendersi dal Brutto e dall’Assurdo del quotidiano. Ma il senso di un’opera d’arte, a volte, è altro, ed è pur vero che nel libro di Moresco si legge ciò che esiste davanti a nostri occhi e non vediamo o non vogliamo vedere, ed è questo, piuttosto, che ci dovrebbe inquietare.

Pensate a Picasso e pensate a Guernica. C’è una storiella che riguarda questo dipinto che lo stesso artista ha raccontato. Durante l’occupazione di Parigi, un ufficiale tedesco si presentò nel suo studio e, nell’intento di schernirlo, indicando il quadro Guernica gli disse: “Chi l’ha fatto questo orrore? l’avete fatto Voi?” Risata dell’ufficiale.

No – rispose Picasso – l’avete fatto voi”.

Moresco e Pasolini, forse, risponderebbero allo stesso modo.

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