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Racconto breve di Marco La Terra

 

Lo sciabordio della risacca marina invade la testa ed il mio cuore.

Aspetto l’alba, tranquillo. Sereno.

Dopo tanto tempo, di nuovo qui.

Ho camminato a lungo per giungere in questo luogo, su questa sabbia, fine ed impalpabile come i pensieri che ho per la testa: quasi mille chilometri, in perfetta solitudine.

Avanzo scalzo sulla rena pallida e soffice: i miei piedi si posano delicatamente, lasciando impronte leggere che paiono chiederle scusa per averne violato la superficie perfetta. Giunto vicino al mare, dove la sabbia si mescola all’acqua salmastra per essere trasportata in posti sconosciuti, mi arresto.

Sollevo un piede, poi l’altro, e osservo le impronte lasciate sulla rena: rimango in attesa di un’onda che cancelli la mia presenza in quel luogo, a ridosso dell’infinito, di un’onda che trasporti anche me oltre la linea dell’orizzonte, dove gli occhi non possono vedere, né il cuore sentire.

Il silenzio più assoluto avvolge la mia figura, emaciata e sconfitta dal tempo, ma dallo sguardo deciso, profondo, indomito.

Sono ancora vivo, ripeto con rabbia.

Mi guardo intorno con attenzione, per non essere visto.

Non amo essere osservato, non mi è mai piaciuto. L’ho sempre considerato qualcosa di indelicato, come un “tutto bene?” invadente, irritante: detesto chiunque cerchi di avvicinarsi a me, senza che io lo consenta.

Ovvero quasi mai.

Una barriera di ostinato silenzio e di sorda aggressione nei riguardi del prossimo: un muro immenso, solido ed incrollabile. Una scelta di vita della quale non mi sono mai pentito: io non amo essere indagato, né conosciuto. Solo dimenticato, rimosso, cancellato.

Ecco perché sono qui, di nuovo. Qui e non altrove.

La prima volta che ho visitato questi luoghi avevo trentaquattro anni, ed ero confuso: non avevo imparato granché in quel primo tratto di vita e non sapevo dove andare. Decisi di partire all’improvviso, da solo, col cuore gonfio di dubbi e di paure per il mio avvenire, un po’ malinconico nel ripensare a tutto quello che, sino a quel momento, non ero stato.

Al termine del viaggio, quando giunsi in questi luoghi, un moto d’intensa ribellione esistenziale s’impadronì di me: non volevo più tornare al mio passato, ma fermarmi in questo paesaggio infinito e surreale, fondermi col mare, la sabbia, l’immensa volta celeste che accoglieva la bellezza di ogni giorno come se fosse l’ultimo, e scomparire.

Purtroppo, mi è toccato vivere, e sono tornato a casa.

Da quel momento in avanti, però, ho fatto in modo che la seconda parte della mia vita fosse diversa dalla prima. Ho smesso di arrendermi all’ovvio ed al banale, ho rifiutato di farmi uccidere dal pregiudizio, scegliendo il silenzio di una coerente solitudine per non farmi trascinare nell’anonimato di un mondo incivile, privo di etica.

In sostanza, mi sono limitato ad accettare l’innata inclinazione al rifiuto della realtà che da sempre alberga in me, impiegando il resto della mia esistenza per plasmarne una che mi rendesse felice. Più adatta alla mia indole.

Non mi sono mai pentito di questa scelta.

Ho svolto un mestiere che mi consentisse di sopravvivere, offrendomi quel minimo di soddisfazione professionale che la mia intelligenza meritava, ed investendo il resto del tempo nella mia persona: viaggi, libri, scrittura. Un uomo banale di giorno, un artista solitario quando il sole nasceva, o moriva: quelli gli unici istanti di intimo raccoglimento con me stesso, le sole occasioni di straordinarietà all’interno di un’esistenza per il resto normale, come tante.

Non ho preso moglie, ovviamente, e non ho avuto figli. Ammetto di averci sofferto, sino ad una certa età, ma l’avanzare degli anni ed una maggiore consapevolezza di me stesso hanno lenito il dolore.

Pur essendo un uomo incompleto, la cosa non mi dispiace più di tanto, adesso: se mi fossi sposato ed avessi avuto figli da qualsiasi altra donna all’infuori di Te, ora non sarei qui.

Invece, oggi sono qui.

Per Te.

Dopo un pellegrinaggio esistenziale che sembrava non conoscere fine, eccoTi di fronte a me: è una vita intera che Ti attendo.

Non puoi nemmeno immaginare quante volte Ti abbia invocata, nelle mie lunghe notti solitarie, mentre vagavo negli stretti vicoli nizzardi, vestito di nero per non essere notato, le mani in tasca, il sigaro in bocca a ricordarmi chi sono davvero. Oppure nel cuore di Stoccolma, in quell’immensa piazza lastricata di porfido rosa, poco lontana dalla residenza reale: Ti sarebbe piaciuta un sacco, se l’avessimo visitata insieme.

Ho vagabondato una vita intera per mostrarTi con l’amore del cuore tutte le meraviglie del mondo, tutte le bellezze che la Natura e l’Uomo hanno creato: ho visitato luoghi estatici e contemplativi, come le Ande o la lontana Mongolia, ed altri più ordinari, turistici. Londra, Parigi, New York, Mosca: ho indagato ogni angolo del mondo in completa solitudine, senza mai rivolgere la parola ad anima viva.

Semplicemente, non mi andava.

Ovunque mi trovassi, io vivevo, sentivo e scrivevo solo ed esclusivamente per Te. Una volta ad esempio, doveva essere il ’23 o il ’25, ora non ricordo di preciso, mi trovavo a Dublino, a Temple Bar: una piazza gravida di gente, musica, colori, voci, una moltitudine festante, ubriaca e rumorosa ed io lì, appartato in un angolo, a scrivere sul mio taccuino ciò che vedevo e sentivo.

Per poterlo consegnare a Te, un giorno, insieme a tutto il resto.

Cosa ho provato in quella occasione, mi chiedi adesso, amore mio adorato? Disperazione e rabbia, pure e semplici. Perché mi visitavi la notte, nei miei sogni, con sembianze e voci sempre diverse, ed io non Ti trovavo mai, durante il giorno, abitato dal resto del mondo, l’Altro rispetto a noi due, ordinario e banale, che nulla sa dell’amore, e nulla vive all’interno del proprio cuore.

Ma il passato è passato, non me ne importa più nulla ora che sei qui.

Ora che Ti ho finalmente trovata.

È vero, non ci siamo mai visti prima d’ora, e forse è difficile rompere il ghiaccio, parlare come se nulla fosse successo, limando con frasi di circostanza e considerazioni fuori luogo quest’attesa lunga una vita intera.

Non Ti devi preoccupare, tesoro mio adorato: non devi preoccuparTi se siamo ancora due estranei, senza il filo della comune esperienza a legarci in maniera indistricabile. Io mi sono consacrato a Te, fin dalla nascita, e ho atteso la Tua venuta quale unica speranza di un cuore arido del prossimo. Perché Tu e solo Tu sei sempre stata il mio prossimo, questo l’ho sempre saputo.

Perciò non Ti inquietare, mio dolce angelo, se rappresento ancora un mistero inespresso: tutto è più chiaro, adesso che ci stiamo incontrando, adesso che la mia mente ha raggiunto il punto di fusione davanti a questo paesaggio celeste, mentre incrocio il Tuo sguardo, chiaro e dolcissimo, nella mia testa.

Finalmente Ti vedo, al termine di questo sogno muto, incorporeo ed eterno che è stata la mia vita: a qualcosa è servita, questa mia lunga attesa, se mi ha permesso di incontrarTi nei meandri confusi della mia mente, oramai vecchia e stanca.

Quello che devi sapere di me è rinchiuso qui dentro, in questa bottiglia sigillata, che il mare accoglierà e condurrà verso di Te, in qualunque parte del mondo Tu sia. Con questo gesto mi consacro a Te, per sempre, con la forza e la dolcezza del mare che tutto copre, beatifica e santifica, nel silenzio della sua saggezza.

È tempo per vedersi, finalmente, parlare e fondersi in un solo corpo, lontano da tutti, in un luogo riposto.

Solo nostro. Insieme. Per sempre.

 

Dopo aver adagiato la bottiglia nell’acqua, il vecchio indietreggia di qualche passo ed osserva tutta la sua vita allontanarsi lieve e silenziosa, rinchiusa in quel vetro prigioniero del mare, sempre più lontano, verso orizzonti sconosciuti e luoghi mai visti.

Con passo lieve e cadenzato, il vecchio s’incammina in direzione dell’infinito, fino a quando, dalla spiaggia, l’occhio mortale non è più in grado di scorgerlo.

La leggenda narra che ancora oggi, in quel braccio di mare, l’orizzonte riveli un dettaglio lontano e irraggiungibile, nelle giornate tinte di luce: un vecchio pallido ed emaciato, dagli occhi intensi e la folta chioma canuta, camminare verso l’amore perduto. Deciso a raggiungerlo.

Non è molto, forse, ma in questi anni tristi, densi di odio e rancore, dove tutto sembra aver perso ogni logica, nell’insensato silenzio di ogni istante è un pensiero che consola.

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Author: Marco La Terra

Marco La Terra, classe 1977, vive il senso di alienità dell’epoca infausta in cui è recluso in modo viscerale e sofferente, cercando di rintracciare in tutto ciò che è “altro da sé” una forma spuria di logica superiore.

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2 Comments

  1. E molto bello nella prima parte leggendolo sembra di sentire l’odore del mare la sabbia sotto i piedi…… Complimenti li stampo e me li leggo

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  2. bellissimo Marco, sei riuscito ad emozionarmi. Un abbraccio da Londra

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