Racconto di Thomas Ticci
Aprì gli occhi. Gli ci vollero pochi secondi per abituarsi al buio. Rimase a fissare a lungo il soffitto. Provava a recuperare il sogno ma tornavano solo frammenti, bagliori d’immagini mai abbastanza nitide per scorgere qualche elemento conosciuto. Più che forzava il suo pensiero a scendere in profondità per recuperare un particolare e più che ogni cosa affogava nei vasti spazi di ciò che è perduto e dimenticato. L’evanescenza di quei momenti e la totale perdita di consapevolezza del tempo lo illudevano di galleggiare, mentre, scalzato dal mondo, il sogno lasciava il proprio posto e tornava ad accucciarsi nel buio ferito dal primo sole del mattino.
Nella vecchia cucina di legno e pietra controllò che non vi fossero i topi della sera precedente. Prima di andare a letto aveva piazzato una trappola. Aveva messo uno spicchio di pera visto che non aveva formaggio. Spostandosi verso la credenza la vide esattamente nello stesso posto, vuota, e imprecò. Si preparò la colazione. Mise a tostare due fette di pane già dure sul fornello arrugginito e si versò, in un bicchiere lurido, quella poltiglia giallastra che beveva ormai da diversi giorni. Un frullato di tuberi e radici, dal sapore disgustoso e dalla consistenza ancor meno invitante. Ne trangugiò un bicchiere senza respirare e se ne versò un altro mentre osservava il filo di fumo nero che saliva dal pane. Ne addentò una e buttò l’altra sul piano di pietra bucherellata che aveva raccolto qualche mese prima. In piedi, sulla porta, iniziò a mangiare alla luce di un sole ancora troppo arancione per chiamarlo giorno. Provò a guardare lontano, cercando il fiume come riferimento ma riuscì a seguirlo solo per poche curve.
Borbottò qualcosa mentre masticava sputando qua e la briciole di pane secco e saliva. Esternava, come gli piaceva ripetersi. Esternare era un po’ come sputare ormai. Esternava con la casa, con la legna. Esternava la mattina mentre osservava scomparire il buio ed esternava al sole ogni sera, mentre lo vedeva congedarsi e lasciarlo ancora una volta solo. Era diventato il suo modo abituale per rivolgersi a qualsiasi cosa, animata e non. Una volta pensò anche che forse, se avesse scandito bene le parole, ascoltandosi avrebbe trovato stupide le cose che diceva. Un’altra volta pensò anche che se avesse iniziato a parlare da solo sarebbe diventato pazzo ma si convinse anche che, semmai lo fosse diventato, a quel punto sarebbe stata solo la diagnosi di un pazzo e smise di pensarci. Tornando dentro fece un rapido giro delle stanze. Raccolse lo zaino di stoffa e vi buttò dentro un paio di guanti di pelle logora scuciti sulle punte, un piede di porco, diversi metri di corda, un coltello a serramanico e un altro più grande che utilizzava come un machete, dei fazzoletti di stoffa sudici e sdruciti, un uncino da macellaio fissato ad un tubo. Tornò nella camera e indossò la salopette stringendo in vita lo spago che teneva i pantaloni e lasciò libera la pettorina e le bretelle di battergli sulle gambe. Mise gli anfibi e marciando di sotto con passo pesante fece scricchiolare ogni asse e trave della casupola di legno. Prese la sacca dalla tavola e uscendo dalla casa esternò ancora una volta. Poi imboccò il viottolo che costeggiava a pochi metri il fiume e s’incamminò nel bosco morto.
Deviò di poco dal percorso. Un muretto di cemento armato sbucava da un cumulo di spazzatura in tutta la sua anima ferrosa e separava il viottolo indistinguibile dall’altura proprio sopra la sua testa. Poggiando le mani solo sulla superficie liscia fece un paio di saltelli per darsi la spinta ma si ritrovò bocconi con lo stomaco sul muro. Provò ad allungare la gamba, cercando di raggiungere gli spunzoni di ferro ma la tela dei pantaloni lo tirava e non riusciva ad arrivarci. Ci riprovò, prendendo un metro di rincorsa, aiutandosi con i gomiti, le spalle e le ginocchia riuscì finalmente a tirarsi su e a salire rotolando come una foca panciuta e sgraziata.
Dovette attraversare rami secchi che sbucavano direttamente dalla terra grigia e spaccata. Rimasugli di qualche siepe. Forse il perimetro scheletrico di quella che doveva essere stata una villa sontuosa. Emergevano dal sommerso come mani smaniose di afferrare. Dita rachitiche di un bosso erano rimaste stroncate come fossero istantanee e lo carezzavano al suo passaggio spezzandosi sulla tela dei pantaloni. Sputò a terra senza farci caso e proseguì. Il declivio aumentava leggermente e salendo si premeva al passo il palmo sulla coscia per forzare meno sulle gambe. Sentiva franare la polvere ghiaiosa sotto gli anfibi e si ritrovava a camminare quasi carponi, quattro zampe come avrebbe fatto una scimmia. Meno disinvolto quando qualche appiglio si strappava ed era costretto a dare degli strattoni nervosi con la spalla per recuperare la sacca che gli rimaneva penzoloni nell’incavo del gomito. Un pero malconcio, dal tronco ormai nero e altri due alberi che non era ancora riuscito a vedere né in fiore né, tanto meno, agghindati di frutti. L’ultimo dei tre, nel vano tentativo di cercare della terra più ricca si era inclinato lasciando scoperto un complesso blocco di radici già secche.
La raccolta di frutta, anche se penosa, gli dette il pretesto per gustarsi quell’unica pera quasi marcia seduto sul crocicchio dell’intricato ammasso di siepi. Aveva una buona vista. Pensò alla casa che gli moriva dietro. I rampicanti gioivano vittoriosi sui resti dei colonnati e anche in quello stato pensò che era stata una buona idea costruirla in quel punto. Forse un tempo tutto questo era un piacevole spettacolo per gli occhi. Sputò il grumo di noccioli avvizziti della pera e un colloso filo di saliva e polpa gli rimase attaccato al peloso angolo della bocca. Lo ritirò su con un risucchio e si rizzò in piedi proseguendo.
Di buon passo continuò, tanto che il sole si era messo quasi sulla sua testa. La foschia densa e grigia permetteva di guardarlo senza dolore agli occhi. Una palla perfettamente rotonda dal colore bianco acceso. Giunto ad un costone di roccia che sporgeva dalla montagna si allacciò la pettorina della salopette e afferrandosi con le mani e i piedi iniziò a girarci intorno. Sotto i tronchi secchi lo chiamavano, pazienti e immobili, scongiurandolo di lasciarsi andare per sentire l’eco di legna spezzata diffondersi. Un bel salto pensava, e a questa immagine sfregava ancora di più la pancia tumida sulla parete, stringeva le mani, muoveva i piedi piano ma con decisione. Fino a ritrovarsi dall’altra parte.
Salvo e fuori da ogni pericolo gettò lo zaino a terra e si sedette a riposare.
Quando si decise a ripartire sputò a terra un vistoso globo giallo e marrone e si dette due sonore pacche sulle cosce. La polvere sbocciò dai calzoni rilucendo appena alla luce grigia e subito tornò a stendersi uniforme come una pioggia. Legò entrambi i lacci degli scarponi allo zaino e li lasciò penzolare.
Continuò per qualche centinaio di metri dietro curve di ontani secchi e recinti di conifere completamente brulle. Il tappeto di aghi morti gli solleticava appena il piede nella volta plantare e rimaneva schiacciato sotto i calli duri e ruvidi. L’avvicinarsi dell’immondezzaio lo salutò con una rancida gozzata di miasmi putridi. Tirò fuori dallo zaino uno dei fazzoletti e se lo legò sulla bocca premendolo con le mani per respirare attraverso le trame della stoffa. Accelerò il passo cercando di attraversare la zona il più velocemente possibile e mentre faceva meno attenzione dove comminava iniziò a singhiozzare per lo schifo di quel sapore chimico. Anche gli occhi cominciarono piano piano a lacrimare e li dovette chiudere in due minuscole fessure per continuare a vedere qualcosa. Gli sembrava di respirare schiuma e l’ossigeno scacciato da misteriose reazioni creava un bolla fetente e visibile. Stando ben attento a scansare le pozze viscide camminava schiacciando steli secchi di erbe consunte dal rancido acquitrino che fermentava nella terra grigia. Continuava a premere la mano, allentando la presa per dare assetate sorsate d’aria quando gli diventava impossibile non respirare e subito singulti di vomito gli salivano dall’addome atrofizzandoli il cervello.
Le mani avevano iniziato a vibrare indomite. Incontrollabili. Strinse ancora la testa nelle spalle avviandosi ancora più avanti ma, come impattando in un muro solido e viscido, deviò bruscamente allontanandosi perpendicolare al puzzo. Si gettò fra le conifere bruciate e corse quasi ci fosse un mostro denso e fetido dietro di lui. Con dita turgide che lo avvinghiavano, che lo trattenevano agguantandogli le spalle la nuca e la faccia. Tentacoli neri bitorzoluti crescevano minacciosi dietro la sua schiena. Orde d’insetti bluastri che brulicanti sciamavano rumori molesti come di sonagli d’osso. Artropodi dalle lunghe zampe anelanti al cielo come ciechi, mossi da fili di burattinai folli. Corse fino a quando le sue ginocchia si spezzarono stroncandolo nel terreno ghiaioso e facendolo inginocchiare. Lì, quattro zampe, primitivo, ricacciato indietro a calci da un’evoluzione di millenni vomitò con tutta la sua forza. Una bestia bruna, deprimente e schiacciata da un dolore invisibile. Sentiva la sua anima vomitata dal corpo. Si inarcava ogni volta che un conato gli risaliva lungo tutta la spina dorsale. Vomitò con la bocca il naso e gli occhi. Le orecchie premevano per scoppiare. Si ritrovò, gomiti piegati, fronte a terra e scosso come dopo un orgasmo. Cadde su un fianco schivando la pozza melmosa sotto di lui e s’abbandonò spossato scivolando in illusioni arboree e immense foreste smeraldo.
Quando lentamente rinvenne scosse il capo e sbatté continuativamente le palpebre per proteggersi dalla luce grigia e fastidiosa che gli feriva gli occhi. Prima si piegò su un lato, poi su l’altro spingendosi a sedere con la mano e il gomito. Nel rialzarsi sentì bruciare le ginocchia e si spolverò i calzoni lisi tirandosi in spalla la sacca e riprendendo a camminare. Vagò per diversi minuti cercando di orientarsi. Cercò di guadagnare un po’ in altezza sperando che una vista più elevata lo potesse illuminare sulla posizione. La sua attenzione cadde sul cumulo di spazzatura che sbucava da dietro un dosso e si diresse in quella direzione.
La discesa fu cruenta. Costretto a speronare gli alberi per rallentare.
Terminò per alcuni metri con la spalla e la schiena finendo capovolto a disegnare una c.
Era caduto dalla parte opposta del muro di sudicio. Un monte frastagliato di articoli. La dismessa di un supermercato, dove il solido si mischiava con il liquido. Metalli smorti e liquefatti e plastiche piene di verruche e galle rappresentavano la sostanza di quella marcescenza che sembrava pulsare pericolosamente su un equilibrio precario e grottesco, pronta a vomitare il suo stesso corpo come una mitosi che, dal suo essere, riproduce un altro essere fetido e identico. Dalla coda poi si stendeva il resto del corpo di quel mostro sterminato e continuava con i suoi tentacoli a prendere possesso di quella fetta di mondo ormai già caduto, abbracciandolo in spire velenose.
Estraendo il ferro cominciò a punzecchiare la bestia che non reagiva se non con qualche zampillo rancido e rugginoso. Camminava lungo i bordi e lo batteva, scuotendo le molecole e facendo rotolare i pezzi a prima vista più sani.
Le stoffe erano le parti che gli facevano più orrore perché simulavano veramente la carne nera di un diavolo ferito. Dentro a queste poi gli era capitato di veder sbucare di tutto, con movimenti più o meno vivi, quindi prestava cautela su quelle squame.
Col ferro nella destra e la torcia che scandagliava il terreno andò avanti per tutto il pomeriggio. Quando il cielo cominciava ad annerirsi aveva un sacco pieno agganciato allo zaino e solo per una questione di scrupolo si era deciso a superare un’altra curva cieca per dare un’occhiata al resto. Alzò lo sguardo e vide l’infinito serpentone che continuava ad allungarsi nascondendosi col suo stesso corpo. A pochi metri da lui, il bianco contrastante in tutta quell’accozzaglia di colori di un materasso. Un perfetto solido geometrico intatto e fulgido. Si strofinò il naso tirando su il moccolo e lo guardò. Un materasso – commentò. Cazzo, e come lo porto? Dette uno sguardo allo strato di nuvole compatto come un soffitto e si disse che al tramonto mancava poco più di un’ora. Guardò ancora il materasso e si avvicinò per esaminarlo. La guaina di cellophane aveva retto e il suo contenuto si era miracolosamente salvato. Era lindo. Pura delizia. Provò a caricarselo sulle spalle ma non riusciva ad avere una buona presa e la plastica molle, rollando da una parte all’altra, era scivolosa. Tirò fuori la corda e tagliò col coltello due cime di due metri. Ne legò i capi alla base dello zaino e lo fece passare sotto il materasso ritto sul fianco. Legò le parti opposte alla sommità del borsone di modo che potesse stringere tirando. Poi prese quelle bretelle giganti e se le incrociò sul petto tirando come con un paracadute fino a schiacciare il materasso sulla schiena. L’uomo testuggine. Considerando l’operazione avvenuta da seduto rimaneva la difficoltà di riuscire a mettersi in piedi con quell’ingombro sulle spalle. Con movimenti che sbandavano sui fianchi si posizionò carponi e lentamente sollevò il busto bloccandosi prima che il carico lo ribaltasse.
Il carrozzone bipede cominciò a percorrere la strada di ritorno come un babbo natale storto e malsano. Con un ghigno potente e selvaggio per lo sforzo e l’orgoglio del fiero bottino. Una schiuma bianca si accumulava agli angoli del sorriso ferino per raggrumarsi in un trucco da palcoscenico, pervertito, evidenziando l’aspetto clownesco. Derapando prese la via del ritorno. Giunse alla baracca di legno che il globo giallo smorto del sole aveva già trovato riparo dietro le colline che incorniciavano il cimitero arbustivo. Il buio complicava i passi e celava la strada di ritorno costringendolo a fare piccole soste ogni pochi metri per sincerarsi che la direzione presa fosse giusta. Smontò il carico sulla pensilina di travi marce slacciando le corde che lo legavano. Fece cadere tutto a terra. Con le mani trascinò dentro materasso, i suo attrezzi e il bottino della giornata lasciando il monte al centro della cucina proprio di fronte all’entrata di casa. Si tolse gli stivali per salire al piano superiore e immerse la nuca foderata di ciocche stoppose e capelli nodosi dentro il lavandino colmo d’acqua. Sbuffò, facendo bolle e schizzando ovunque, mentre teneva la testa sotto e scrollandosi, sgocciolava sulla ceramica lercia e giallognola, i peli. I pezzetti di specchio che erano rimasti attaccati sul muro rimandavano multi ritratti di un bestione marrone e senza espressione. Sorrise forzatamente per esaminarsi i denti e le gengive. Piegò le sopracciglia a formare una V fra le due arcate e arricciando il naso increspò il volto di rughe sulla fronte e gli zigomi. Esaminando le dita tozze delle mani si lavava, seguendo i tortuosi tagli che univano la carne dura delle dita con le unghie, secondo una geometria che ricordava un campo abbrustolito dal sole e spaccato.
Di sotto, a pedate, avvicinava alla parete gli oggetti più ingombranti. Sparpagliò a terra il contenuto come si fa con un sacco di fertilizzante e si mise a fare una cernita dei moncherini e dei pezzi. Prima dividendoli per grandezze e poi per stato. Quelli che gli sembravano irrimediabilmente compromessi venivano ficcati di nuovo nella tela, pronti per essere scaricati nell’immondezzaio a poche decine di metri più in basso dalla sua veranda. Il polmone miasmatico e gigantesco aveva procreato. Adesso era visibile la sua lenta risalita, inesorabile e minacciosa. Sommatoria di colori che originano il bruno e il grigio per cancellare il colore stesso, fino al giorno in cui tutto sarebbe stato inghiottito e il mondo avrebbe tramutato il proprio corpo nel rifiuto di se stesso ed ogni cosa sarebbe stata rifiuto ed ogni cosa non sarebbe più stata rifiuto poiché più nulla, a quel punto, sarebbe nato e sarebbe stato accolto nell’alto della sua sverginata natura e avrebbe continuato ad esistere come rifiutato.
Quella sera accese un fuoco. Il camino pendeva fortemente da una parte. La canna fumaria era stata rattoppata con cenci e sassi di ogni tipo e qualche volata di fumo nero fuggiva nella stanza disperdendosi in un odore acre e quanto mai lontano da quello del legno che brucia. La notte arrivava carica del gelo di un mondo senza sole e, per il principio geotermico che regola la terra, il suolo si umettava in viscide lingue acide che emergevano invadenti e brillanti. Nel silenzio della notte si poteva udire il gorgoglio di quei sommozzatori avvelenati come tante gole spalancate che cantano la loro ebollizione chimica e il terreno iniziava a muoversi come infestato da miriadi di lumache scatenate. Quelle erano le creature della notte che s’impossessavano dell’immobile. Meduse cremose e evanescenti, visibili nel buio e pulsanti nella loro genesi artificiale. Scoppi ed esplosioni smorzate che deflagravano nel corpo stesso del mostro che riposava a valle. Duelli chimici e scontri apocalittici fra acidi. L’ordine molecolare gridava vendetta e ancora una volta, dall’origine dei tempi, la legge naturale del più forte mieteva le sue vittime fra le sostanze inerti a favore di quelle cancerogene e fagocitanti. Attizzò il fuoco con un metro d’intelaiatura d’alluminio riscaldandosi i piedi sporchi e incrostati. Sdraiato sul fianco fissava le fiamme inquiete che piegavano sul blu quando inghiottivano le plastiche. I suoi occhi, spilli neri catatonici, riflettevano i bagliori fino a bruciargli le orbite. Sbatteva le palpebre e lo sguardo tornava vivo per ridiscendere di nuovo, lentamente, in un altro stato di torpore. Lo stomaco entrava in risonanza con i più inquietanti rumori notturni e si tastava l’addome gonfio e smagliato quasi andasse alla ricerca di un bottone per poterlo spegnere.
Per quella sera avrebbe continuato ad ascoltare il suo stomaco brontolare e avrebbe stretto i palmi sui fianchi. Prima o poi sarebbe caduto addormentato. Riverso a terra, dalla posizione in cui era, girò la testa per osservare la trappola in cucina. Procedette a evirare radiosveglie e piccoli elettrodomestici senza badare all’utilità futura di ogni singolo oggetto, facendosi guidare le mani solo dall’esperienza. Il materasso occupava solo una metà del largo e scassato letto matrimoniale. Non lo aveva neppure scartato. Non si sentiva pronto. Seduto di fronte a un fuoco che si spegne alza lo sguardo oltre al buco che chiama finestra e rimane a osservare la lunga scia di luci che scorre sulla superstrada fino al casello.
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9 febbraio 2012
L’ho letto proprio poche ore dopo aver finito “The highway” di Ray Bradbury. Lì un poveraccio, che vive in una casa ai bordi dell’autostrada, chiede ad un auto in panne come mai vadano tutti in un unico senso di marcia. Alla risposta “è arrivata la guerra atomica, la fine del mondo”, si chiede “cosa intendono per mondo?”.
Giusto per dire che entrambi i racconti mi hanno ricordato che la nostra eventuale fine è già la quotidianità di altri, complimenti per l’inaspettato finale!
9 febbraio 2012
Gran bel racconto,un evolversi descrittivo che ti porta,alla fine della lettura,a non pretendere di associare un senso logico al succedersi delle azioni del protagonista e ciò,invece che frustrare le aspettative del lettore,fomenta lo slancio d’immaginazione.Ottimo,veramente.
9 febbraio 2012
Grazie per i bei commenti, questi sono incentivi a continuare a scrivere per me.
In questo racconto ho cercato il più possibile di far percepire l'”assenza di natura”. Le descrizioni pesanti e i periodi lunghi sono un carico aggiunto al già depauperato paesaggio e alle sensazioni opprimenti che regala.
@Emanuele: The highway di Bradbury non l’ho letto. Rimedierò. Ho letto però La strada e Suttre di Mccarthy e l’isola di cemento di Ballard. Se di questi, leggendo il racconto, si sente la loro influenza io mi ritengo soddisfatto.
@Ciborio: chi scrive fa un lavoro a metà. L’altra parte del lavoro è compiuto da chi legge. Per me la libera interpretazione del lettore è qualcosa di fondamentale. Se ciò che scrivo piace è solo perchè son fortunato da avere ottimi lettori.
9 febbraio 2012
Bellissimo racconto, veramente. Mi ha affascinato dalla prima riga