Per lo Speciale Vila-Matas, Marco La Terra
“Mai, neanche nelle condizioni più disperate, ho perso il mio senso dell’umorismo, e sono di quelli che pensano che questa vita fa veramente ridere, e che la vita stessa è fatta di pure risate e che, seppure ignoriamo quel che ci attende alla fine, la miglior cosa è andargli incontro ridendo, con una tragica mancanza di serietà”
“Lui rimase molto impressionato da alcuni fatti, oggi ormai persi nella notte dei tempi. Lo impressionarono a tal punto che da allora non è più tornato lo stesso. Vive nel tormento di non essere stato capace di morire come hanno fatto i suoi migliori amici”
“Il suicidio è un atto affermativo, lo potete fare quando volete, che fretta avete? Calmatevi. Quel che rende sopportabile la vita è l’idea che possiamo scegliere quando sfuggirle”
Non è semplice commentare un romanzo che ruota intorno a un argomento ambiguo ed eticamente complesso come il suicidio.
Facciamo un primo passo, ed usciamo dalle ipocrisie: la semplice parola, “sui-ci-dio”, scandita lentamente oppure letta con lo sguardo inchiodato sul monitor, produce di per sé un certo effetto. Provate per un istante a bisbigliarla sulle vostre labbra, o a ripeterla mentalmente nella vostra testa: a questo punto, la maggior parte di voi deciderà di non proseguire nella lettura di questa mia recensione, dandomi del sadico, o del pazzo (o del sadico – pazzo, se preferite).
Ai pochi coraggiosi che desiderano vedere oltre, dico innanzi tutto grazie: non per essersi confermati, una volta di più, genuini lettori del sottoscritto, ma per aver deciso di gettare lo sguardo oltre il muro del politically correct, oltre la rigida barriera delle fredde convenzioni del tipo “non si deve parlare del suicidio perché è sbagliato”.
A questi pochi coraggiosi, dico sinceramente grazie.
Non voglio intavolare una discussione in merito all’esistenza, o meno, del libero arbitrio, o sui reali confini attribuibili allo stesso, né voglio che questa recensione risulti condizionata dalla mia personale opinione sull’argomento (che, nel caso, sarei felice di esternare all’interno di un eventuale dibattito). Per come la vedo io, in generale intendo, un buon recensore deve saper commentare un libro per ciò che lo stesso riesce esprimere, senza cadere nel trabocchetto rappresentato dall’aprioristica opinione che nutre sugli argomenti in esso affrontati.
Veniamo a “Suicidi esemplari”, dunque.
All’interno di questa decina di racconti, Vila – Matas compie un’encomiabile opera di ‘educazione’ (e consolazione) nei riguardi del lettore: descrivendo svariati episodi suicidari all’interno di situazioni assai distanti fra loro, l’Autore permea l’idea di fondo, potente motore di tutta l’opera, di svariati significati simbolici che, nella sostanza, inducono il lettore a ‘familiarizzare’ con essa.
Considerato nei limiti della propria sfera personale, il suicidio diventa così un concetto naturale, logico, plausibile: Vila – Matas presenta questa scelta come atto di coerenza rispetto a valori quali il senso della propria vita, l’amicizia, l’amore, il dolore. E all’interno di questa prospettiva, il suicidio risulta digeribile, dotato di una parvenza logica, non così orribile come si è abituati a rappresentarlo. A scanso di equivoci ribadisco il concetto appena espresso: accettabile “nei limiti della propria sfera personale”, non verso il prossimo, dimensione che Vila – Matas non indaga.
In questa sua opera, infatti, l’Autore dipinge i protagonisti come monadi autosufficienti, i cui gesti vengono meditati sulla spinta di emozioni che non considerano, nella propria complessità espressiva, le possibili ripercussioni sul prossimo.
Al termine del romanzo, il lettore rimane permeato da una strana sensazione di quieta calma consolatoria: tutto ha un senso, una logica, un perché. Nemmeno l’idea della morte sembra più così brutta, dopo tutto. Se si riesce ad accettare il suicidio come gesto naturale, quale estrema espressione del libero arbitrio, automaticamente il concetto di morte diviene qualcosa di metabolizzabile.
Ma c’è un’ombra, in tutto ciò (e probabilmente anche più di una, a ben guardare): Vila Matas ‘consola’ il lettore sotto il profilo dell’inevitabilità della morte, vissuta in chiave esclusivamente personale, ‘accogliendo’ il suicidio quale possibile epilogo dell’esistenza, senza cancellare l’irreversibile dolore che un simile gesto genera in coloro che rimangono.
Disperazione, sofferenza, morte-in-vita.
Questa dimensione del dolore non viene affrontata, all’interno del romanzo. Ed è un peccato, forse.
Giusto o sbagliato che sia, ho sofferto nel constatare questa volontaria omissione e non sono del tutto convinto di averla accettata fino in fondo. Ma una volta spostato il discorso su quest’ulteriore aspetto, rischio davvero di sconfinare in territori, pensieri e parole troppo lontani dall’effettivo significato che una recensione dovrebbe possedere, perciò mi arresto. Proseguire oltre, e abbandonarmi ad una digressione circa le sensazioni che una simile omissione ha generato in me, comporterebbe spogliarmi della mia funzione di recensore e ‘subire’ la forza propulsiva del testo, senza ‘domarla’ per potervela offrire.
L’unico consiglio, autenticamente spassionato, che vi posso dare, è il seguente: leggete “Suicidi esemplari” e rifletteteci a fondo, liberi da preconcetti o facili angosce (più che plausibili, del resto).
Se vorrete discuterne, io sarò qui.
___
2 comments
M. Lisa says:
feb 24, 2012
RispondiPersonalmente non ci vedo nulla di male nel “subire la forza propulsiva del testo”, ma capisco il problema. Per quanto mi riguarda, comunque, mi è venuta ancora più voglia di leggere il libro! M. Lisa
Marco La Terra says:
feb 24, 2012
RispondiInfatti non c’è nulla di male, anzi: subire la forza propulsiva del testo è infatti una cosa bellissima, perché trasporta il lettore “dentro” di esso, facendolo vivere e pulsare. Il problema sorge quando lo si cerca commentare nella maniera piu oggettiva possibile: in questo caso, la lunga onda emozionale può incidere sulle modalità espositive, generando un lavoro eccessivamente venato di emotività.