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Alle cinque e zero zero

Racconto breve di Raffaella Foresti

A quell’epoca guardava molta televisione. Aveva da poco perso il lavoro ma non intendeva cercarne un altro. Non subito almeno. La madre lo chiamava continuamente, non preoccuparti è la crisi, passerà. Ma lui non era preoccupato. Pensava che non sarebbe stato male prendersi una piccola vacanza. Da nove anni percorreva in lungo e in largo le valli con il suo furgone. Curve cieche, manovre impossibili, l’asfalto bagnato e scivoloso. Attenzione, strada dissestata. Grazie dell’avvertimento ma ora stop. Una meritata pausa finalmente.

Dopo i primi giorni – giorni difficili, il bioritmo assestato per svegliarlo alle cinque e zero zero –  scoprì il piacere di non avere nulla da fare. Lentamente imparò ad alzarsi tardi, a vivere dentro un pigiama.

Passava dal letto al divano. Sistemava un cuscino sotto i piedi, uno sulla pancia, e uno sotto il gomito sinistro. Mi manca un cuscino, pensò, e una mattina uscì per comprarne un altro. Quello stesso giorno ne approfittò per fare un po’ di spesa.  Tornò a casa con cibo in scatola sufficiente per mesi, e con un magnifico cuscino giallo su cui accomodare il braccio motore del telecomando.

 

In tv guardava un po’ di tutto, finché non si affezionò ad un certo programma di cucina. Lo chef italiano – in alta uniforme, nella sua cucina di acciaio lucente – elencava gli ingredienti delle ricette del giorno, una tavolozza di colori sconosciuti e introvabili, e poi si metteva all’opera, senza curarsi granché del suo pubblico di affezionati telespettatori.

Affettava, mescolava, amalgamava e incorporava. Un pizzico di sale, gettato dall’alto, pepe nero in grani macinato fresco, due aghi di pino mugo. In forno, centottanta gradi, venti-venticinque minuti.

 

Lo adorava. Non seppe spiegare come tutto iniziò. Non aveva mai provato alcun interesse per la cucina, né aveva mai mostrato particolare passione per il cibo. La nicotina gli bastava e avanzava e il resto era contorno, le papille gustative andate via da un pezzo, bruciate come tabacco, volate via. O forse un giorno le aveva ingoiate.

Guardava lo chef ed era come  ipnotizzato. Credo gli procurasse un piacere perverso vederlo affannato ma composto tra fuochi e taglieri, mentre lui poteva starsene lì a guardarlo senza fare, senza dire, senza pensare. Immobile, sospeso tra i cuscini.

 

Passarono molti mesi finché un giorno, nel tempo di un nulla, tutto finì. Accese come sempre la tv ma invece del suo programma preferito trovò una giornalista bionda e anaerobica che parlava di economia. Dov’è lo chef? Domandò alle pareti che gli risposero: dov’è lo chef?

Lo colse il panico. Cercò in rete numeri, indirizzi, contatti, tutto ciò che poteva riunirlo a lui. Telefonò all’Emittente, lasciando messaggi alla segreteria, implorando… ma nessuno richiamò. Dov’è lo chef?

 

Il terrore gli restituì le energie sopite. Riprese il furgone e guidò per ore finché non raggiunse gli studi televisivi. “Dov’è lo chef?” chiese al portiere, all’ingresso. Sorridendo questi rispose di aver parlato con lui qualche giorno prima. Gli aveva restituito il pass, non serviva più. Il contratto con la tv era concluso, apriva un nuovo ristorante. “Quale ristorante?” domandò. Gli venne mostrato un biglietto con un indirizzo. “Me lo ha lasciato come invito” – disse fiero il portiere – “io ci vado la prossima settimana, con la mia signora”.

 

Partì subito. Rifece parte del percorso a ritroso cercando il nuovo locale. Lo trovò con facilità. Si nascose nel parcheggio, attese.

Era già notte quando lo vide uscire. Senza la consueta uniforme stentò a riconoscerlo. Era solo e gli passò accanto. “Chef!” lo chiamò. Si voltò e lo vide. “Dobbiamo parlare. Il programma… deve ricominciare”. “Chi è?” rispose il cuoco, arretrando. “Chef, la prego, deve ricominciare il programma”. “Amico, abbiamo concluso le puntate. Forse, l’autunno prossimo… Ora la prego, mi lasci passare”. “No… il programma… Il Programma! Chef!”. Fu a quel punto che perse la testa.

 

Si risvegliò nel suo letto alle cinque e zero zero.  Si lavò e si vestì. Fece colazione, si preparò una sigaretta. Ripensò a quel corpo freddo, lasciato nel parcheggio del ristorante. Si ricordò che tutto era finito. S’infilò le scarpe. Decise che era venuto il momento, per lui, di ricominciare a lavorare.

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Author: Raffaella Foresti

“Il cane odiava quella catena. Ma aveva una sua dignità. Quello che faceva era non tendere mai la catena del tutto. Non si allontanava mai nemmeno quel tanto da sentire che tirava. Nemmeno se arrivava il postino, o un rappresentante. Per dignità, il cane fingeva di aver scelto di stare entro quello spazio che guarda caso rientrava nella lunghezza della catena. Niente al di fuori di quello spazio lo interessava. Interesse zero. Perciò non si accorgeva mai della catena. Non la odiava. La catena. L'aveva privata della sua importanza. Forse non fingeva, forse aveva davvero scelto di restringere il suo mondo a quel piccolo cerchio. Aveva un potere tutto suo. Una vita intera legato a quella catena. Quanto volevo bene a quel maledetto cane “

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