Racconto scritto e proposto da Nelson Pinna
Il giorno in cui venne eletto, con larghissima maggioranza, il quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti d’America, Gilbert Ledroit seduto sul cesso e con ancora in mano il primo strato di carta aveva concluso che effettivamente esistevano due modi di vedere la vita. Il primo: pesarla in base ai canoni di senso, dipingendo gli incidenti di percorso come corretti segnali di un ridimensionamento. Il secondo: prender atto che il binario sul quale corriamo va dritto dritto verso un unico beffardo finale e che qualunque cosa facciamo essa, l’esistenza, sarà beffardamente irrisa da tale esito. Per certi aspetti questi due modi di intendere si somigliavano, aveva avuto di che riflettere all’epoca Ledroit passandosi la mano sul culo, ma ad un’analisi meno sommaria le differenze erano palesi e inequivocabili. Erano radicali.
Gilbert Ledroit a distanza di mesi dall’evento americano, rimuginando su tutto ciò, si lasciò cadere un ciuffo di capelli davanti agli occhi, mandò giù un sorso d’acqua da una bottiglietta di plastica e pensò tutto soddisfatto che fosse un buon segnale il riuscire a vedere con discreta chiarezza il Gesù tra le braccia della Madonna sulla Notre Dame de la Garde. Non a caso Ledroit si trovava sulla banchina del porto di Marsiglia, nella Provenza. Si piacque in quella postura. Guardò il litorale, sapeva che alle sue spalle Colette e Mylene scattavano fotografie.
Considerare quello un viaggio lo irritava, aspettarsi grandi cose da quella piccola impresa lo deprimeva. Voleva evitare la sensazione da turista preferendo subordinare il progetto alle raffinatezze. Ma non solo lui, erano tutti contenti di questo salto di qualità.
Dalla nave ormeggiata fuoriuscivano gli ultimi passeggeri. Affacciate sulla poppa, figure umane contemplavano la banchina e i sincronismi del quotidiano, un palcoscenico da dove coadiuvati dalle didascalie si poteva esercitare la mente ad assegnare il giusto posto alle cose. Gli spostamenti dei mezzi, il serpeggiare dei carrelli, gli operai a lavoro, il vezzo degli odori ascellari.
Ledroit stava per dire qualcosa a proposito della notte al Grant Park di Chicago, perché comprese di non aver detto molto nei mesi passati, anzi, non aveva proprio detto nulla. Ma solo perché i commenti erano saturi, una sua parola sarebbe stata sostanzialmente ininfluente. Tuttavia quel mare puzzolente lo invogliava a parlare e avrebbe aggiunto annotazioni sul caos e sul fato, perché maledizione era arrivato il momento. Ma un braccio peloso lo invitò a guardare l’orizzonte. Era André, uno dei tre compagni di viaggio. Sibilò a pochi centimetri dall’ orecchio: «Sai che pensavamo? Se ora, lassù, comparisse una flotta di navi spaziali il nostro sistema economico, politico, sociale e religioso ne sarebbe stravolto. Che dici? Noi, rimpiccioliti e imbruttiti rifletteremo con più distacco su questioni come l’adulterio?»
Mylene e Colette, le altre viandanti, si avvicinarono. Colette scattando fotografie disse: «L’amore sentirebbe il peso di un’intelligenza aliena? E’ immaginabile una nuova forma di sentimento? Il sesso? Quali forme assumerebbe il sesso? E il corpo?»
Ma Ledroit che stava pensando a sé stesso come al viandante di Friedrich, con una certa irritazione per questa grossolana deriva extraterrestre sbottò: «Personalmente non mi allontanerei dal pragmatismo storico di Polibio, volendo raccogliere i semi delle teorizzazioni sull’ineluttabile.» Gli uscì così, come un peto improvviso durante una sessione di laurea, un matrimonio, un dibattito.
Mylene rubò la macchina fotografica alla compagna e inquadrò un gabbiano. Qualcosa di sottile, molliccio e nero gli cadde dal becco. Una voce rimbalzò da un punto dove un piccolo gruppo di ragazzi rideva sguaiato. Si udì un “Che testa di cazzo!”.
A Ledroit imbarazzato dai capricci del caso, quell’insulto parve proprio indirizzarsi a lui. Decise di stemperare aggiungendo: «Sì, insomma si potrebbe parlare onestamente di crisi, pronosticare l’affondamento della democrazia e l’ascesa di una costituzione monarchica. Hai voglia tu a ribattere ad un alieno.» Stronzate per pararsi il culo. La verità era che da un paio di settimane viveva in uno stato di tensione accademica. Lui per primo si sentiva amareggiato per come potesse apparir loro. La colpa? Senz’altro imputabile all’articolo che stava scrivendo. Per ragioni tutte sue, quello che doveva essere un esercizio ordinario per il dipartimento universitario aveva assunto le dimensioni di un’impresa. Specialmente ora che, quasi giunto alla conclusione, lo scibile era stato circumnavigato. Il nocciolo era lì lì dall’esser avvistato e lui lo aspettava.
Adesso però dovevano solo festeggiare, e così aggiunse: «Le distanze interstellari sono enormi, assiderali. Viene certo facile comprendere che ogni nostra congettura è infinitamente piccola e pretenziosa. Con queste proporzioni il nesso è una categoria estremamente soggettiva.» Finse di rifletterci su, annuì.
«Abbracciatevi» , ordinò Mylene guardandoli dall’obiettivo. E così Ledroit, Colette ed André si strinsero l’un l’altro. Ledroit si auto prescrisse della disciplina, non era lì per scrivere. Non si scrive nulla di buono sotto il sole. Colette abbracciò il suo André. Fu in una delle tante scampagnate di Gilbert e Mylene che si innamorò di lui. Ospiti tutti e quattro ad una fiera vinicola dagli afflati longobardi e asburghesi. Smarriti in paesaggi medievali e borghi antichi, rubando sorsi di Merlot e Sauvignon. André si era lanciato in una ingarbugliata conversazione con Ledroit, da buoni ex colleghi d’università. Quasi un dettaglio le corse dei caratei che avveniva sulle strade. Era il loro “periodo Hegel”, rammentava bene Colette. Certo non rammentava più i termini della conversazione, solo passaggi, ma la parte conclusiva la sapeva pressoché a memoria. André aveva assentito scuotendo la testa alle solite elucubrazioni di Ledroit, lasciandosi in bocca l’ultimo sorso di vino. Sulla stradina botti di rovere da cinque ettolitri rotolavano. «Il problema» aveva asserito André, «il problema di Hegel è che nulla esce fuori dal suo sistema. Si è parato il culo.»
«Filosoficamente è altissimo» aveva confermato Ledroit. «Ma quante stronzate! C’è un che di affascinante in questo approccio teoretico alla filosofia, ma sono pigro, al pensiero del corteggiamento oppongo la tangibilità del pompino.» A quella battuta il Merlot di André era fuoriuscito dalle narici tuffandosi come una pennellata di Pollock sulla camicetta di Colette e dal modo in cui lui l’aveva guardata, lei aveva compreso una sola importantissima cosa: lo amava. E lo amava ancora, lì, sul porto di Marsiglia. Ecco perché gli premette la mano sul fianco e lo baciò sulla guancia ridendo alla foto che Mylene fece loro.
Arrivarono al tramonto.
Ah, se solo avessero organizzato quella vacanza poco meno di sessant’anni prima. Avrebbero ammirato le capanne costruite dalle compagnie minerarie; delle abitazioni instabili, annualmente vittime dei singulti climatici ma sufficientemente resistenti per ospitare ogni estate le famiglie dei minatori. Nelle pieghe del tempo era ancora disegnato, circondato dalle dune, il profilo – o quanto meno la memoria – di una stazione mineraria.
Adesso le cose erano cambiate. L’estetica aveva sancito un prezzo.
L’albergo era a pochi metri dal mare. Una volta insidiatisi, la scelta della loro camera implicava una certa libertà di movimento: non erano vincolati al passaggio per la reception. Era sufficiente uscir da una porta della loro stanza, per correre verso il mare. Questo aspetto in particolare aveva trasmesso in tutti una certa euforia. In tutti tranne che in Gilbert Ledroit, il quale credeva che se si poteva uscire così leggiadri, allo stesso modo dal mare poteva arrivar chiunque.
La luna campeggiava, volitiva e sospesa. E c’era un caldo sufficiente da far arrischiare un pronostico di nudità. Piccoli gruppi di turisti camminavano sulla spiaggia, sorvegliati da ginepri simili ad oscuri e coriacei guardiani. Seduti sui tavoli qualcuno già cenava. Una donna con un bimbo in braccia volgeva lo sguardo al mare.
Il personale li accolse con benevolenza.
Ledroit prese in mano la situazione, i suoi compagni vagavano visibilmente eccitati e anche un po’ patetici. Firmando delle carte rifletté sulla cosa. Quindi sorrise alla donna in giacca e cravatta che aveva dinanzi, quasi a stringere con lei un patto solenne retto da un’indiscutibile complicità. E seppur fossero semplicemente i velati codici della buona educazione intagliati dalla professionalità, per una questione poco chiara gli venne voglia di abbracciala. Non lo fece.
Condotti nell’alloggio lo contemplarono ammagliati, quello sarebbe stato il loro palcoscenico. Dopo l’aver gettato qua e la i bagagli raggiunsero il ristorante.
Ordinarono il menu del giorno, vellutata di ceci con code di gamberi, taglierini al salmone, cozze al gratin, tonno e calamari fritti. Colette si fece aggiungere dell’insalata e tutti bevvero del vermentino su suggerimento di André.
«Stiamo precipitando in un periodo di barbarie.» disse André ripresosi dopo la lunga dormita in auto. «Una barbarie culturale, innanzitutto. E siamo così fottutamente ipocriti. Insomma, perché è così difficile dare un nome alle cose? Perché si ha paura di dare un nome alle cose? Ricordate la disputa tra Socrate e Cratilo?»
Ma di che cazzo sta parlando, si domandò Ledroit. Evidentemente fino a lì si era perso tutto. Mylene addentò il tonno e Ledroit si guardò alle spalle. Nella sua mente si diffuse una celebre linea melodica, un tema dispiegato dal pizzicato degli archi. Al suo fianco Colette si nutriva con la sua insalata. Immaginò di scendere al di sotto del tavolo per farsi spazio tra le gambe scoperte di lei. Nascondersi sotto la sua minigonna per restar lì a contemplarla, con nella testa sempre la Pavane di Fauré.
«Per Socrate il linguaggio è sì il mezzo col quale possiamo conoscere la natura delle cose, ma questo non è sufficiente perché la realtà è più variegata.» André correva inarrestabile, non vedendo rimostranze credette di interpretare il pensiero di tutti. «Noi dobbiamo sempre guardare alla realtà, e da qui interrogarci sulla correttezza dei nomi. La realtà ci insegna il nome, non viceversa», sembrò sul punto di alzarsi in piedi. Colette pregò che non lo facesse. «Ecco perché l’errore diventa grossolano quando non solo non ci appelliamo alla realtà ma promuoviamo una falsificazione volontaria del reale. Le cronache degli ultimi giorni mi hanno portato a reiterare tali argomentazioni sulla natura di questo paese. Ledroit vaffanculo!»
Gilbert Ledroit si scusò per la distrazione salutandolo col bicchiere mentre la sua fantasia proseguì con una variante: la presenza di Mylene, anche lei scesa la sotto a spiare l’ elasticità dei tessuti affacciarsi dalle mutande ritirate dalle dita di Colette. Un disegno delicato, un canone asimmetrico sorprendentemente accattivante nella sua apparente astrattezza. La fica. Per Mylene c’era un segno di fascinazione aggiunto: guardava ciò che per sua natura lei stessa possedeva. Uno specchio di intimità. Eppure ugualmente bramato. Fu lì che Ledroit iniziò a pensare più seriamente al suo rapporto con l’esterno, a pensare al cogito e a Husserl.
«Si continua ad allontanare la parola “razzismo”, sciorinando riflessioni psicopedagogiche. Mioddio! Quindi pestare a morte un etiope di passaggio non è razzismo, e no. E’ un disagio adolescenziale!» Un uomo in fondo all’ultimo tavolo si guardò intorno tornando subito al suo piatto. Una giovane coppia ridacchiava tenendosi per mano, una coppia meno giovane di inglesi si lamentava col cameriere per quello che poteva essere un’incomprensione sui prezzi. «Rendiamo difficile la vita agli stranieri in regola, gettandoli nei labirinti burocratici, non per becero razzismo ma perché siamo a disagio. Ma sarebbe più onesto dire che siamo ipocriti, meschini, rozzi. Dire che temiamo il linguaggio più di ogni altra cosa; il razzismo in fin dei conti parte anche da qui, dall’uso delle parole, dal nasconderle. »
Colette, che non si ricordava più come è che erano finiti a parlare di quello porse la bottiglia di vino a André. «Brindiamo» fece lei.
«Ma sì» rispose André allungando il bicchiere. « Ledroit sei uno stronzo. »
Seduto in un angolo della stanza, accanto alla finestra aperta che dava sul mare, Gilbert Ledroit registrò i tentativi di Colette di accovacciarsi su André il cui pene, umido ed eretto, colpiva, per poi scivolar via quel foro stretto tra le natiche di lei. Dopo due o tre divertenti tentativi, il glande porpora e luccicante del suo amico si nascose in quell’interno notoriamente destinato ad altro. Vide lei rilassarsi, forse trovando quella giusta armonia distensiva, con il controllo muscolare. Era buona norma non iniziare mai da lì ma a quella regola soffusa nessuno dette ascolto.
Quel meccanismo fece maturare nella testa di Ledroit la rappresentazione dell’io assoluto in Husserl. Mentre Mylene gli veniva incontro completamente nuda, fatta eccezione per un cappello di paglia recuperato chissà dove, Ledroit annusò l’arrivo di una chiarificazione sull’ intersoggettività che sentiva esser lì, ma che ancora gli sfuggiva.
André si sollevò di corsa.
Ledroit accarezzò il viso di Mylene con un dito. Si baciarono, subito con intensità. Lui richiuse le mani sui suoi piccoli seni, sfiorando col pollice il capezzolo turgido.
«Ho aperto una questione con Husserl…» sussurrò.
«Certo» fece lei. Tolti i pantaloni sorrise, confermando la rinnovata moda: «Vedo che hai iniziato a girar senza mutande»
«Come ogni estate» confermò lui.
«Come ogni estate» fece lei, prendendogli il pene con familiare delicatezza. Una ciocca di capelli le nascose le labbra.
Ledroit percepì appena il calore della bocca di Mylene. Sentì però il solletico sul prepuzio quando lei ci giocò con la lingua. E dopo ritornò Husserl. Fu irrimandabile. Non riusciva a respingere l’esito della messa al bando della soggettività. E sentiva di esser distante da Heidegger e – questo gli premeva – molto vicino ad Husserl; proprio lì dove lo stesso Husserl si era arrestato.
Raggiunsero l’inedito talamo, dove Colette li attendeva. André, impavido nella sua sdutta nudità e disinteressato dal simposio fornicante si scusò: «Devo pisciare».
Le due donne, rassegnate, si lanciarono su Ledroit; giocando un po’ col suo corpo, sfilandogli via la maglietta.
L’impossibilità che ha l’oggetto di costituirsi come datità fenomenologica è data dall’assenza di intenzionalità. Così come è altrettanto vero che l’esistenza o meno dell’oggetto in sé è irrilevante. Il mondo potrebbe anche non esistere, ciò che sopravvive è il senso che l’oggetto ha per la coscienza. La nozione assurda di un al di là oltre l’apparizione del mondo. Da qui la prospettiva fenomenologica di Husserl.
Colette gli premette i testicoli, Mylene serrando il corpo del pene issava il glande. In quella sorta di rito glorificatore pagano, Gilbert Ledroit spostò in termini cartesiani la questione. Husserl ha ricalcato una fenomenologia sul modello sbagliato. Ledroit tirò indietro il capo, fissò il soffitto ed ecco che il problema si ridusse ad una somma così elementare da apparire irrisoria. Il risultato giunse da sé, una mera decostruzione logica. Mylene gli tese la cute, pressando nella risalita. Fuoriuscì una goccia delle dimensioni di un pistacchio, fu Colette a prendersela.
La trascendenza è soggetta all’immanenza della coscienza. Husserl l’aveva chiarito. Non c’è niente di veramente esterno a noi poiché siamo noi a prefigurare il senso della cosa. Il rapporto nel momento stesso in cui appare è già nostro. E’ il modo, il senso, il vissuto ad essere trascendente ma non la cosa.
Noi siamo fondamentalmente contenitori di esteriorità. L’orizzonte non è altro che nell’immanenza della coscienza. Ma l’impasse, osservò segretamente Ledroit, è la metodologia dell’immanenza della coscienza. Era necessario smuovere la condizione della soggettività. L’errore di Husserl è stato l’aver trascurato il linguaggio. E il linguaggio, alla maniera del divenire hegeliano, sarebbe stato in grado di aprire le porte ad un nuovo livello, il rapporto vero e proprio: l’uomo.
Era giunto il momento di liberare Husserl dalla coscienza, finalmente. Si voltò. Colette e Mylene si stavano baciando, lui in ginocchio sopra le coperte, era il simulacro di uomo colpito da divinazione. Le accarezzò entrambe, entusiasta. Husserl si è strappato le vesti nella Vernunft, rimuginò mordicchiando la natica di Mylene e pettinando i peli di Colette. Loro lo ignorarono baciandosi, scambiandosi carezze.
Appena rientrato a casa si sarebbe prodigato per recuperare le lezioni di etica che Husserl tenne a Freiburg, contava di farcela. Mylene lo chiamò, ospitandolo. Toccava a lui. Ledroit le baciò il ginocchio e scese all’inguine.
Mentre André, uscito dal bagno, gli si avvicinava da dietro, armeggiando con un preservativo, Ledroit sentendo forte l’odore del sesso di Mylene sapeva di aver chiuso il cerchio: la riduzione eidetica, l’indiscutibile coappartenenza diretta di noesis e noema, la fenomenologia heideggeriana dell’inapparente. Tutto era riconducibile, fagocitato e rimesso a lustro da quella che era destinata a diventare la sua più rigorosa intuizione. Con le dita le distese la cute stropicciata ed entrò con la lingua. Ricevette poi André, rilassando le pareti ormai con dimestichezza. Se Husserl non si fosse allontanato da Cartesio… e se avesse tenuto conto di… probabilmente avrebbe trovato la chiave per… Era già tutto pronto. L’effettiva conclusione del suo pensiero, la sentenza e la messa a fuoco di un capolavoro. Nel frattempo André spingeva dentro di lui con una cadenza distinguibile, segno di affetto, di amicizia. Di intesa e, non meno, di stima.
Rimasero così poco più di dieci minuti. Ognuno si prendeva cura dell’altro. Colette si baciava con André, per passare poi a Mylene. Mylene giocava come poteva col clitoride di Colette. Lo scroto sgraziato di André bussava ripetutamente sulle natiche di Ledroit e Ledroit beveva dal vestibolo di Mylene. C’era un evidente livello di dedizione nel tutto, quasi una missione.
Con un cenno del bacino Ledroit invitò André ad uscire da lui. Curiosamente il momento del distacco gli faceva desiderare di esser preso ancor di più. Un volgare tramenio svelò l’abbandono del condom. Si protese su Mylene arrivando ai seni mentre con l’altra mano vellicava il monte di Venere, sfiorando volutamente il clitoride col palmo. Lasciò entrare, pressoché inutilmente, un pollice e poi, portandolo alla altezza della bocca di lei, se lo fece succhiare. La baciò, ospitando la sua lingua e accarezzandola proprio come lei aveva fatto prima col suo dito.
Lei gli prese il pene, ormai scivoloso, e lo nascose tra le sue gambe. Contrasse i muscoli pelvici per coccolarselo tra i plessi venosi.
Colette e André si allontanarono.
Come in un esercizio Mylene si preparò a venire. Sapeva che Ledroit la stava aspettando. In pochi istanti un rilassamento e subito dopo una contrazione. Ledroit le sollevò una coscia, si sentiva stremato. Un po’ dal calore, un po’ dalla questione intersoggettiva; ora che le teorie si intrecciavano, dai nodi credeva di poter cristallizzare l’aspetto più sacro di tutti: un’inconfutabile dimostrazione e il tentativo riuscito della fondazione della conoscenza. Temeva però di non aver più le forze per attaccarsi al computer, lasciando al sonno la tortura della rimozione.
Entrambi si tirarono su, pochi centimetri dal letto. Mylene si richiuse su di lui, trattenendolo in quel passaggio vicino e distante dal mondo. In quel particolare microcosmo ricettivo che solo una collaborazione indubbiamente intersoggettiva poteva far esplodere. Un’opera perfetta, un vero e proprio paradiso dei sensi concentrato in una sinapsi. Mylene non poté far altro che lasciarsi trasportare.
Solidale, in piedi e appoggiata con le mani al bordo del letto venne anche Colette, con André che si barcamenava alle sue spalle. André che goffamente prese a leccarla da dietro masturbandosi. Sembrava un capriccio il suo. Quasi inciampando andò a rilasciare lo sperma sulla schiena di Colette.
Ledroit invece trovò Mylene e si adagiò infine su un fianco, abbracciandola. Li raggiunsero anche gli altri due, supini sul letto sistemati alla ben e meglio. Sudati, traumatizzati e appagati.
Il primo ad addormentarsi fu André; Colette, con un dito a tappo sull’orifizio uretrale del fidanzato si lasciò andare sul suo petto e accovacciandosi si appisolò.
Mylene invece restò sveglia per un po’. Ad un certo punto le parve di vedere Gilbert Ledroit ai piedi del letto, ma era ormai troppo vicina al sonno e agli inganni della transizione ipnagogica per potersene curare. Fotografato dal chiarore lunare lo osservò uscire verso la spiaggia, ancora nudo. “Dove stai andando?” pensò. “L’acqua sarà fredda per un bagno”. Si trascinò quel pensiero con sé.

2 comments
Stella says:
feb 10, 2012
ReplicaBellissimo! Colto, raffinato e diretto. Questo è uno dei migliori racconti che ho letto su questo sito. Tutti i miei complimenti all’autore.
Bartleby says:
feb 12, 2012
ReplicaGrazie stella!