Dai racconti di Giorgio Michelangelo Fabbrucci
- Guarda!
- Cosa?
- Non ti sembra ci sia qualcuno su quella bestia?
- Non mi sembra – rispose, – è improbabile che un ragazzino salga in groppa ad un cane gigante.
- Guarda meglio!
Appoggiò l’occhio al fucile, facendo aderire lo zigomo alla gomma ingrigita del mirino telescopico. Osservò la bestia muoversi. Sola e magra e abnorme. Avanzava lenta, sollevando il muso ad ogni passo. Circospetta.
- Allora?
- Nulla. Solo un cane gigante. Randagio. In cerca di cibo.
- Come noi.
- Già. Come noi.
Clubs puntò i gomiti a terra, strusciando il dorso al suolo. Supino, allargò le gambe, lasciando la propria impronta in quel mare bianco di sale, oppure di polvere di cemento, che era il mondo. Era in posizione e sfiorò con il polpastrello dell’indice il grilletto d’acciaio. Doveva aprire il fuoco. Colpo singolo, calibro 338, a circa milletrecento metri di distanza. Poi si ricordò del suo giardino e di una vecchia scarpa di cuoio lacerata e senza suola nella bocca di una piccola bastardina. Gli veniva incontro tutti i pomeriggi quando tornava da scuola. Abbaiava e scodinzolava e saltava di gioia, lasciando quel vecchio mocassino ai suoi piedi, in attesa di un lancio. Lui ci sarebbe rimasto fino a sera, in giardino, con la sua cagnolina. Ma la madre si sporgeva dalla finestra e diceva che la merenda era pronta e che doveva fare i compiti se voleva giocare fino all’ora di cena. Allora si chinava, appoggiando un ginocchio al pavimento di ciottoli, di fronte al garage. Accarezzava la cagnolina, lanciava lontano la scarpa e poi rientrava in casa.
- Cosa aspetti?
- Lo sto puntando Tom, lo sto puntando.
- Cosa vedi?
- Un cane incazzato, grosso quanto un cavallo, su uno sfondo bianco di polvere.
- Nient’altro?
L’occhio rosso della bestia riempiva tutta l’area del mirino. Clubs ne osservò le vene nere, che parevano irradiarsi dalla pupilla, come una tela di ragno bagnata, oppure una metastasi. Doveva colpirlo alla testa. Non aveva alternativa. Allora fece una piccola pressione sul calcio del fucile, alzando di qualche centimetro la zona di tiro. Vide le orecchie e lunghe strisce di pelo, lorde di insetti grandi come un dito. L’animale si spostò di poco, volse la testa nella sua direzione e ululò.
- Spara Clubs, spara!
Prima il colpo; poi un grido stridulo e potente; poi un altro, continuo e disperato. La belva era caduta, con la schiena schiacciata a terra e muoveva le zampe in modo confuso, frenetico e disarticolato e sollevava la polvere e martellava al suolo la coda, che pareva una frusta, lanciando al cielo indifferente il battito del suo dolore.
Clubs appoggiò il volto al mirino, chiuse l’occhio destro e con il sinistro tentò di trovare un punto utile per colpire l’animale. Ma lui continuava a scuotersi, a tremare, a rialzarsi e cadere ancora.
Apriva e poi serrava la mandibola ritmicamente, a scatti. Clubs ascoltò il suono netto, prodotto dalla sua mente, delle zanne contro le zanne, attutito dall’impatto con la lingua lunga e nera, che lacerata, spruzzava fiotti rossi sulla candida tela del selciato.
-L’ho colpito di striscio. Non riesco a mirarlo. Si dimena troppo quel bastardo. Dobbiamo avvicinarci.
Si alzarono e si misero a correre, guardandosi intorno, circospetti, come prima di loro aveva fatto la bestia. Avanzarono lungo un’ampia striscia di terreno libera da cocci e detriti, che forse un tempo era stata una strada. I passi goffi, i sospiri stanchi. Alla loro destra una lunga collina di pietre bianche, rosa e grigie. Una discarica di marmo, nella quale ogni forma conoscibile era stata spaccata e mischiata alle altre. La costeggiarono, rallentando e posando l’occhio sulle sagome d’incubo che disegnavano volte e ogive, foglie d’agave torturate. Riconobbero un gigantesco sole dai raggi di polipo, angoli acuti con punte di croce che chiedevano di raggiungere il cielo e poi cocci di vetro colorato, che riflettevano flebili raggi su personaggi disperati, oppure gloriosi.
Comparivano a caso: chi a dorso nudo, con il capo chino e ricci scolpiti e mani legate dietro la schiena; chi con un testa d’uomo in mano, vestito di abiti abbondanti e decorati; chi con una bizzarra armatura, dal volto corrucciato e tronfio e una cresta in testa. Poi videro dei piedi, l’uno all’altro inchiodati, dominare sulla desolazione. Gambe magre e ferite agganciate ad un corpo sofferente, dal costato bucato, forse da un proiettile oppure da un lancia. Il suo busto affondava, capovolto, sbilenco, come il tappo in un mare petrolio.
- Conviene fermarci laggiù, dietro quel lastrone di bronzo.
- Cosa c’era qui una volta Clubs?
- Cosa te ne frega?
- Cosa c’era?
- Una chiesa. Si chiamava Duomo.
Raggiunsero l’immenso rettangolo. Bronzeo. Ero crollato di lato, rimanendo sollevato in parte, incastrato tra i blocchi di marmo. Appoggiarono le ginocchia a terra ed estrassero le armi. Erano protetti da ciò che doveva essere un portone grandioso, alto almeno dieci metri o forse di più. Altre figure scolpite, altri uomini, altre donne. Voltavano lo sguardo al cielo, il capo scomposto. Occhi di speranza e lacrime. Altri esseri umani apparivano dalle nuvole sbalzate: bellissimi, con ali d’uccello e ovali compassionevoli.
- Se li immaginavano diversi.
- Sbagliavano. Ammazziamo la cena e torniamocene di sotto. Basta parlare cazzo. Cosa te ne frega? Basta passato. Basta ricordi. Basta cazzo.
- Io un passato non ce l’ho, – rispose Tom.
- Appunto. Buon per te. Taci e ringrazia di aver perso la memoria.
- Però lui me lo ricordo. Lui si.
- Dopo lo troviamo Tom, dopo lo troviamo.
Così si sporsero, dopo aver slegato gli sguardi. In quel piccolo dialogo secco come la calce avevano impresso nelle pupille l’uno il volto dell’altro, le fronti imperlate di sudore, le occhiaie dipinte dalla polvere, quasi fossero indiani nelle vesti del cowboy. Poi un fruscio, un suono sottile e delicato ma velocissimo. Supersonico. Maledettamente tagliente. Passò accanto a loro come un proiettile e lo videro posarsi, nella frazione di un attimo, davanti alla bestia morente. Muoveva gli arti, quasi fosse cosciente ma al tempo stesso incurante, della minaccia. Forse piangeva, ma era difficile capire.
- Lo vedi? Clubs, lo vedi cosa sta facendo? Lo sta difendendo!
- Lo vedo. Ora sparo a entrambi. Mangeremo per una settimana.
Tom deglutì. Si infilò nella gola un litro di saliva commisto ad un sentimento che sapeva non poter essere compreso dai suoi simili. Forse perché non aveva che pochi ricordi. Gli bastò uno sguardo, per sentirsi simile a quel mostro, che sbracciava disperato per difendere il suo amato animale. E mentre la saliva scendeva in gola, Tom senza memoria pensò, oppure disse con vergogna a se stesso, che in qualche modo, stava penetrando nei segreti del cosmo.
Bisbigliò, mentre Clubs avvicinava nuovamente l’occhio al fucile, – che docile follia…
Poi l’alieno smise di muovere le quattro braccia. Due le serrò intorno al garrese della bestia e con le altre iniziò ad accarezzarlo, come un tempo gli uomini con i propri cani, con i propri gatti. La bestia grugniva e sputava sangue. Il suo dibattersi si fece più tranquillo, come se la fine tra braccia fraterne, potesse essere accettata con mansuetudine. E mentre lo carezzava, posò il capo sulla testa morente e nera del cane-cavallo e le palpebre di insetto presero a chiudersi e a spalancarsi freneticamente, come mille scatti di una macchina fotografica. E dalla gola, oppure da qualsiasi altra parte del corpo di quel bipede predatore vomitato da chissà quali abissi del cosmo, si profuse un suono. Poteva essere un fischio, oppure uno sfrigolio disperato, come della lumaca o dell’aragosta gettata viva nell’acqua bollente, ma così potente da far vibrare le articolazioni di qualsiasi senziente nel raggio di chilometri.
- Non sparargli Clubs. – disse Tom, appoggiando la mano sulla canna del fucile. Così Clubs si voltò, guardò nuovamente l’amico e gli fissò gli occhi, comprendendo che erano diversi dai suoi, perché in qualche modo erano grevi, come le domeniche della sua infanzia. Ma i calendari erano stati arsi come coriandoli di cenere brillante, spazzati via dall’onda d’urto o da qualsiasi altra diavoleria fosse quella strana energia purpurea che, come il fuoco la bocca del drago, ululava dagli scafi alieni.
- Non posso darti retta amico mio, – disse triste – mi spiace, – e in una mossa rapida e apatica, come di chi ripeta lo stesso gesto identico e perfetto per lavoro o per sopravvivenza, lo colpì alla tempia con il calcio del fucile. Tom svenne, forse un attimo prima di essere aggredito. Clubs probabilmente non ci fece caso e pochi attimi dopo si trovò in piedi, con la testa dell’alieno urlante nel centro esatto del suo adorato mirino. Il respirò iniziò ad accelerare. Il battito un tamburo di guerra rimbombante nel collo, nel petto e nella mente. Camminava allo scoperto, nella desolazione della piazza, avvicinandosi a passi brevi, lenti ma costanti. Guardava le sue prede, stringendo i denti, fino a sentirne il dolore sulle gengive e riportando alla mente tutte le atrocità vissute, i corpi smembrati e carbonizzati e le urla disperate e tutta quella assurda guerra che in pochi giorni atterrò ogni umana civiltà e si disse che Dio non esisteva, che la compassione dell’amico era solo la traccia distante e lontana di un disco ormai rotto, che non poteva suonare più. Sparò.
- Tu chi sei?,- chiese il bambino dal maglione blu.
- Io sono Tom e tu da dove sei sbucato?
- Non lo so signore. A dire il vero non mi ricordo niente.
- Beh, sei in buona compagnia piccolo. Devi sapere che anche io non mi ricordo nulla.
- E qui dove siamo?,- chiese ancora il bambino, mentre con una mano si toccava la nuca.
- Siamo sulla strada che porta alla città. Anche se una volta, da quello che mi hanno raccontato, questa era la rotaia di una metropolitana. La città si trova alla fine di questo tunnel. Magari troverai qualcuno che ti conosce laggiù. Posso chiederti perché continui a toccarti la testa?
- Perché mi fa male, signore.
Così Tom si chinò al fianco del bambino e con due dita scostò i ricci dietro la nuca, per controllare che fosse tutto a posto. Non conosceva nulla di medicina, ma indagò quella piccola foresta di ciocche con l’attenzione di un dottore esperto, con gesti precisi, abituali. Notò tre piccole ustioni, tre piccoli cerchi, come di sigaretta. Poi appoggiò le mani sulle spalle del bambino e lo fece voltare.
- Non ti ricordi proprio nulla?
- No Signore.
- Stai bene? Non ti gira la testa, non ti viene da vomitare?
- No. Mi sento bene. Grazie.
- Hai uno strano odore di bruciato addosso. Ti è successo qualcosa che non mi vuoi raccontare?
- No Signore.
- Bene, allora vieni con me. Come ti chiami?
- Non me lo ricordo.
Tom non si domandò chi fosse quel ragazzino che pareva una giovane riproduzione del suo vissuto ma per un attimo sperò che in quell’incontro, in quell’incrocio di vite smarrite, vi potesse essere una sorta di ragione, un significato profondo il cui senso potesse essere svelato dallo svolgersi degli eventi. Dopo questi pensieri sorrise e prese la piccola mano sporca di polvere nella sua. Si voltarono e si incamminarono lenti verso la luce in fondo al tunnel, come nei sogni di chi ha visto la morte.
- Ti chiamerò Lucio,- disse l’uomo – Ti piace? - Il bambino scoppiò a ridere.
Le pallottole danzavano, formando un arcobaleno di zolfo, cadendo a terra, tintinnando. Clubs urlava, oppure imprecava sputando il suo odio assoluto, il suo livore, la sua sete di vendetta che si sarebbe bevuta un’intera galassia, distruggendo razze e mondi, come un buco nero, cieco, ingordo.
Ma i proiettili frenavano a pochi millimetri dall’obiettivo. Rimanevano a mezz’aria, sospesi, senza propulsione, senza rabbia. Guardavano in faccia il nemico e poi cadevano giù, tintinnando in contro canto. Poi il pulviscolo e le piccole pietre che mute giacevano in quella scena presero a vibrare e a sollevarsi, vorticando; prima lentamente, poi più fortemente, a formare uno scudo, un piccolo uragano silenzioso e capovolto, impenetrabile, mentre Clubs urlava e berciava e sparava ancora. Dal cielo caddero poche gocce: bagnarono l’elmetto di Clubs e rimasero sospese, galleggiando nel vuoto, intorno a quella cupola d’energia invisibile, inumana.
Così l’alieno, sollevatosi dall’amata carogna, si voltò e Clubs smise di sparare, cercando con la mano tremante di cambiare caricatore. In piedi, a breve distanza, l’uno in fronte all’altro. L’uno sudato, bagnato e inferocito. L’altro, immerso nell’aurea di cocci e pietrisco, muoveva lentamente il capo, come a dire “no”.
Tutto si è ridotto ad un gioco di sguardi. Da quanti anni mi nascondo, miro, sparo e corro? La calce mischiata all’acqua, da spalmare intorno agli occhi per la caccia diurna. La polvere delle vecchie rotaie, per i movimenti notturni. Il fondo dei barattoli di vaselina, per lubrificare l’arma. I vestiti laceri. Le divise degli eserciti che non esistono più. L’amore frugale e disperato, come fosse l’ultimo, nell’odore delle nostre pelli, sempre coperte di stracci. Le bestie che uccidono le bestie, pensò.
- Perché non ci avete massacrato subito tutti? Eh? Dimmelo brutta merda! Rispondi! Perché non ci avete massacrato? Avete la tecnologia, la ferocia, la armi. Vi siete fatti milioni di anni luce per venire qui, distruggere i palazzi, le chiese, la civiltà… per che cosa? Eh? Per vederci nascondere nel sotto suolo come topi e poi giocare di giorno a guardia e ladri? Eh? Spiegamelo porca puttana! Cosa volevate da questo pianeta. Eh? Non avete fabbriche, non avete industrie, non avete un cazzo di niente. Ve ne state nelle vostre navi da anni e poi uscite a far fuori qualche umano. E poi tu frigni, brutta merda. Frigni se ti si ammazza un cane che Dio solo sa cosa cavolo gli avete fatto per farlo diventare così. Perché? Eh? Brutto figlio di puttana! Dammi una dannatissima ragione per dare senso a tutto questo!
- e tu da dove sei sbucato? – chiese la donna dai capelli grigi e dai fianchi larghi. – L’ho trovato alla fermata cinque, all’entrata della città, – rispose Tom, prima che il bambino potesse parlare. – Non si ricorda nulla. Ha la mia stessa storia, per questo l’ho portato con me, – continuò Tom, come se non vedesse l’ora di raccontare la vicenda - ha la mia stessa cicatrice. - Che cicatrice? – Pensavo lo sapessi, - fece Tom imbarazzato – quella sul fondo della nuca. – Non ho mai sentito di cicatrici sul fondo della nuca, – rispose la donna – forse avete battuto entrambi la testa, sono cose che capitano, soprattutto di questi tempi di caccia e di fuga. - Fece una pausa, spostando lo sguardo oltre i due amici, raggiungendo per qualche istante un punto casuale nel vuoto, come per voler attingere ad un archivio di conoscenze segrete, protette. Deglutì e continuò – Poi chi può sapere quali altri gruppi di umani si nascondano nelle rovine della superficie. Forse venite da là, da un gruppo di tribù che si sono involute. Forse è una specie di rito o forse e il modo per allontanare i membri in eccedenza. Un colpo alla testa e giù nella metropolitana, per riuscire a spartirsi il poco cibo rimasto, senza uccidere i membri in eccesso, senza lasciare testimonianza della propria posizione. – Si vede che sei un antrologa… – Antropologa Tom, An tro po lo ga, – Ok, giuro che non me lo scorderò più. – Comunque l’importante è che stiate bene. - Si, stiamo bene. – Venite, è quasi pronta la cena. Non si mangiava da giorni. Abbiamo organizzato una festa grandiosa. Andiamo.
La donna dai fianchi larghi e dai capelli grigi passò la mano tra i ricci del ragazzino, lo prese per mano e si avviò per un lungo corridoio. Si guardò l’orologio rotto al polso e disse che lo faceva sempre, anche se non aveva più senso, perché le lancette si erano fermate, forse un tic del passato.
Tom e Lucio non dissero nulla; neppure ci fecero caso a quella frase, perché la loro attenzione si stava concentrando su un rumore confuso, in cui decine di voci prive di significati si mischiavano al fracasso di quelli che erano tamburi, oppure strumenti a percussione di fortuna, come vecchi bidoni o vecchie lamiere. Camminarono per piccoli tunnel che dovevano essere corridoi per smistare il flusso di persone da un luogo all’altro delle strade suburbane. Infine raggiunsero un area più ampia, come uno spiazzo, il cui lato più lungo terminava con dei larghi gradini colorati di giallo e di nero, interrotti da una frana. Là, in un baracchino con la scritta “il Corriere del” alcune donne facevano bollire giganteschi paioli di acqua. Intorno a loro uomini, dal torso nudo e con il volto dipinto di nero, battevano ritmicamente a terra barre di binari d’acciaio e poi sopra delle serrande divelte e poi di nuovo a terra. La gente urlava e ballava. Alcuni si accoppiavano dietro una colonna, o all’inizio dei cunicoli, semi nascosti delle ombre mobili, coperti dal frastuono. Altri piangevano, forse di gioia, chi può saperlo. Al centro vi erano tre alieni, appesi per i piedi, con il ventre squartato. Alcuni anziani, dalle braccia grandi come pilastri, tiravano fuori le budella con dei ganci, seguendo il ritmo della musica, smarrendolo di tanto in tanto, sistemandosi la mascherina da chirurgo sulla faccia, per poi ritrovarlo, appoggiando le interiora in capienti cilindri di plastica annerita, da cui fuoriuscivano grandi bolle, odorose, dolciastre. Altre donne, tarchiate e dalle mani lorde di una materia viscosa, con dei cacciavite arrugginiti staccavano le grandi palpebre da formica e poi cavavano gli occhi extraterrestri, grossi come uva di struzzo, per posarli in alcune cassette di legno inumidite. Un crocchio di ragazzi prese poi i contenitori e cantando, li trasportò all’edicola. Al contempo altri giovani predisposero dei carrelli, dal manubrio blu e dalle piccole ruote, sotto i corpi mutilati. Presto si riempirono di dodici braccia, tre teste, tre busti e sei gambe. Vi fu un grande “hip hip urrà”; poi un altro; poi un altro.
- Io non voglio mangiare – disse Lucio. – Neanche io mangio mai. Intendo… loro. – Poi Tom spostò lo sguardo sul centro della sala, dove la donna dai fianchi larghi e dai capelli grigi, con altre donne più magre e più giovani, stava imbandendo la tavola con ampie tele trasparenti. La gente iniziò a prendersi per mano e a camminare in tondo. Una donna dai capelli neri e lunghi, dalle labbra belle e dal sorriso giallo prese il polso di Tom – dai vieni, – disse. Tom mosse le dita e un’altra mano, di qualcuno che non vide, afferrò la sua sinistra. Si voltò per prendere Lucio, ma non c’era più.
L’alieno di tutta risposta emise un grido stridulo e prolungato. Le piccole pietre caddero a terra. Le pallottole con le gocce. Così Clubs portò il calcio del fucile alla spalla, ma il suono, quel fischio profondo e tagliente, si fece improvvisamente più forte e le orecchie di Clubs iniziarono a dolere.
Abbandonò il fucile, mollandolo a terra. Si portò le mani alle orecchie ed urlò, ma di uno strillo basso, gutturale, sincero, innocuo. L’alieno iniziò a girargli intorno aumentando la potenza del fischio. Un crescendo incessante, che raggiunse i limiti della sopportazione umana, oppure li superò. La pelle del volto di Clubs, così come ogni sfoglia del suo epitelio, iniziò a vibrare. Percepì l’alieno dietro di se. Poi un fortissimo bruciore alla nuca.
Si spensero gli occhi e aprì la sua anima alle ragioni del cosmo, pensando solo in parte, con la sua mente.
Perché in ogni atomo è sottesa una ragione che grida disperata nel buio, poiché anch’essa si pone la medesima domanda e non trova risposta, se non la vita. E poi si formarono piccoli punti di colore nel buio della solitudine, che in quella desolazione totale sembrò un miracolo, anche se forse era sempre accaduto. Così scivolarono come serpi, festoni di gas variopinto, dipingendo di curve e di cerchi l’infinito buio. E in quel vortice esasperante apparvero le sfere ardenti e al loro fianco miliardi di culle brulicanti di microscopiche nascite, le quali si duplicarono, poiché altro non sapevano e non volevano fare. E poi si scissero, si modificarono, si clonarono ed incontrarono coriandoli di altra materia vivente, cominciando così a cibarsi l’uno dell’altra, partorendo storpiature, oppure capolavori perfetti che insaziabili, si portavano in grembo la splendente fiamma del domino. E furono vomitati in tutto il cosmo migliaia di occhi e di bocche e di arti che cominciarono a chiedersi il perché, frenando la domanda in ossequio all’ugola dilaniata. E nei millenni a venire le sfere si ruppero, rilasciando nella placenta del cosmo il proprio seme, con la medesima fame e la stessa patologica dipendenza alla vita. Ed alcuni, pochi invero, compresero che forse quello era il senso poiché anche lo stesso atomo e gli stessi disegni che lo componevano non riuscivano a darsi risposta. E sbarazzandosi della superstizione, dopo aver afferrato quale piccolo lago fosse l’universo e di come, con la facilità di un respiro, si potesse navigare, ogni senziente evoluto si disse che forse tanti sforzi erano vani, quando di fronte al proprio destino vi erano miliardi di terre di cui saziarsi. E pianeti come pastiglie vennero ingeriti dalla naturale ingordigia del cosmo e dei suoi figli. E tu lo sai perché conosci i cicli astrali, la morte dei soli e dei loro sistemi, i buchi neri e la materia oscura. Ma nessuno in verità è perfetto e vi è sempre una storpiatura che segna nelle carni del cuore un sincerissimo disagio: quella carezza, quel bocciolo, quell’intesa perfetta tra specie distinte che invero pone fine ad ogni dimostrabile certezza. E taluni, come voi, crearono templi per celebrare questa docile follia. Altri, come noi, seppur affetti dal medesimo enigma, decisero di calpestarlo e di portare questa scelta di fiore in fiore, di pianeta in pianeta. E così sarà finché la pazzia del dubbio non sarà ricacciata tra le gabbie dell’unica legge eterna: quella del predatore e del predato, della vita e della morte, che si inseguono per rinascere ed estinguersi ancora, in questo incomprensibile, alieno girotondo.
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