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Dai racconti di Giorgio Michelangelo Fabbrucci

 

- Guarda!

- Cosa?

- Non ti sembra ci sia qualcuno su quella bestia?

- Non mi sembra – rispose, – è improbabile che un ragazzino salga in groppa ad un cane gigante.

- Guarda meglio!

Appoggiò l’occhio al  fucile, facendo aderire lo zigomo alla gomma ingrigita del mirino telescopico. Osservò  la bestia muoversi. Sola e magra  e abnorme. Avanzava  lenta, sollevando il muso ad ogni passo. Circospetta.

- Allora?

- Nulla. Solo un cane gigante. Randagio. In cerca di cibo.

- Come noi.

- Già. Come noi.

Clubs puntò i gomiti  a  terra, strusciando  il  dorso  al  suolo. Supino, allargò  le gambe,  lasciando  la propria impronta in quel mare bianco di sale, oppure di polvere di cemento, che era il mondo. Era in posizione e sfiorò con il polpastrello dell’indice il grilletto d’acciaio. Doveva  aprire il  fuoco. Colpo singolo, calibro 338, a circa milletrecento metri di distanza. Poi si  ricordò del suo giardino e di una vecchia  scarpa  di  cuoio  lacerata  e  senza  suola  nella  bocca  di  una  piccola bastardina. Gli  veniva incontro  tutti  i  pomeriggi  quando  tornava  da  scuola. Abbaiava  e  scodinzolava  e  saltava  di  gioia, lasciando quel vecchio mocassino ai suoi piedi,  in attesa di un lancio. Lui ci sarebbe  rimasto fino a sera,  in  giardino,  con  la  sua  cagnolina. Ma  la  madre  si  sporgeva  dalla  finestra  e  diceva  che  la merenda  era  pronta  e  che  doveva  fare  i  compiti  se  voleva  giocare  fino  all’ora  di  cena. Allora  si chinava,  appoggiando  un  ginocchio  al  pavimento  di  ciottoli,  di  fronte  al  garage. Accarezzava  la cagnolina, lanciava lontano la scarpa e poi rientrava in casa.

- Cosa aspetti?

- Lo sto puntando Tom, lo sto puntando.

- Cosa vedi?

- Un cane incazzato, grosso quanto un cavallo, su uno sfondo bianco di polvere.

- Nient’altro?

L’occhio  rosso  della  bestia  riempiva  tutta  l’area  del  mirino.  Clubs ne  osservò  le  vene  nere,  che parevano  irradiarsi  dalla  pupilla,  come  una  tela  di  ragno  bagnata,  oppure  una metastasi. Doveva colpirlo  alla  testa. Non  aveva  alternativa. Allora  fece  una  piccola  pressione  sul  calcio  del  fucile, alzando  di  qualche  centimetro  la  zona  di  tiro. Vide  le  orecchie  e  lunghe  strisce  di  pelo,  lorde  di insetti grandi come un dito. L’animale si spostò di poco, volse la testa nella sua direzione e ululò.

- Spara Clubs, spara!

Prima  il  colpo;  poi  un  grido  stridulo  e  potente;  poi  un  altro,  continuo  e  disperato. La  belva  era caduta,  con  la  schiena  schiacciata  a  terra  e  muoveva  le  zampe  in  modo  confuso,  frenetico  e disarticolato e sollevava la polvere e martellava al suolo la coda, che pareva una frusta, lanciando al cielo indifferente il battito del suo dolore.

Clubs appoggiò  il  volto al mirino, chiuse  l’occhio destro e con il sinistro tentò di  trovare un punto utile  per  colpire  l’animale. Ma  lui  continuava  a  scuotersi,  a  tremare, a  rialzarsi  e  cadere  ancora.

Apriva e poi serrava la mandibola ritmicamente, a scatti. Clubs ascoltò il suono netto, prodotto dalla sua mente, delle zanne contro le zanne, attutito dall’impatto con la lingua lunga e nera, che lacerata, spruzzava fiotti rossi sulla candida tela del selciato.

-L’ho  colpito  di  striscio.  Non  riesco  a  mirarlo.  Si  dimena  troppo  quel  bastardo.  Dobbiamo avvicinarci.

Si alzarono e si misero a correre, guardandosi  intorno, circospetti, come prima di  loro aveva fatto la bestia. Avanzarono  lungo un’ampia  striscia  di  terreno  libera da  cocci e detriti, che  forse  un tempo era  stata  una  strada.  I  passi  goffi,  i  sospiri  stanchi. Alla  loro  destra  una  lunga  collina  di  pietre bianche,  rosa  e  grigie.  Una  discarica  di  marmo,  nella  quale  ogni  forma  conoscibile  era  stata spaccata  e  mischiata  alle  altre.  La  costeggiarono,  rallentando  e  posando  l’occhio  sulle  sagome d’incubo che disegnavano  volte  e  ogive,  foglie  d’agave  torturate. Riconobbero un  gigantesco  sole dai  raggi  di polipo,  angoli  acuti  con punte  di  croce  che  chiedevano di  raggiungere  il  cielo  e  poi cocci  di  vetro  colorato,  che  riflettevano  flebili  raggi  su  personaggi  disperati,  oppure  gloriosi.

Comparivano  a  caso:  chi  a  dorso  nudo, con  il  capo  chino  e  ricci  scolpiti  e mani  legate  dietro  la schiena;  chi  con  un  testa  d’uomo  in mano,  vestito  di  abiti  abbondanti  e  decorati;  chi  con  una bizzarra  armatura, dal  volto corrucciato e  tronfio e  una cresta  in  testa. Poi  videro  dei  piedi,  l’uno all’altro  inchiodati,  dominare  sulla  desolazione.  Gambe  magre  e  ferite  agganciate  ad  un  corpo sofferente, dal  costato  bucato,  forse  da  un proiettile  oppure  da  un  lancia.  Il  suo busto  affondava, capovolto, sbilenco, come il tappo in un mare petrolio.

- Conviene fermarci laggiù, dietro quel lastrone di bronzo.

- Cosa c’era qui una volta Clubs?

- Cosa te ne frega?

- Cosa c’era?

- Una chiesa. Si chiamava Duomo.

Raggiunsero  l’immenso  rettangolo.  Bronzeo.  Ero  crollato  di  lato,  rimanendo  sollevato  in  parte, incastrato  tra  i  blocchi di marmo. Appoggiarono  le ginocchia a  terra ed estrassero  le  armi. Erano protetti da ciò che doveva essere un portone grandioso, alto almeno dieci metri o forse di più.  Altre figure scolpite, altri uomini, altre donne. Voltavano lo sguardo al cielo, il capo scomposto. Occhi di speranza e lacrime. Altri esseri umani apparivano dalle nuvole sbalzate: bellissimi, con ali d’uccello e ovali compassionevoli.

- Se li immaginavano diversi.

- Sbagliavano. Ammazziamo la cena e  torniamocene di sotto. Basta parlare cazzo. Cosa te ne frega? Basta passato. Basta ricordi. Basta cazzo.

- Io un passato non ce l’ho, – rispose Tom.

- Appunto. Buon per te. Taci e ringrazia di aver perso la memoria.

- Però lui me lo ricordo. Lui si.

- Dopo lo troviamo Tom, dopo lo troviamo.

Così si sporsero, dopo aver slegato gli sguardi. In quel piccolo dialogo secco come la calce avevano impresso nelle pupille l’uno il volto dell’altro, le fronti imperlate di sudore, le occhiaie dipinte dalla polvere, quasi  fossero indiani  nelle vesti  del cowboy. Poi un fruscio, un suono sottile e delicato ma velocissimo.  Supersonico. Maledettamente  tagliente.  Passò  accanto  a  loro come un  proiettile  e  lo videro posarsi, nella frazione di un attimo, davanti alla bestia morente. Muoveva gli arti, quasi fosse cosciente ma al tempo stesso incurante, della minaccia. Forse piangeva, ma era difficile capire.

- Lo vedi? Clubs, lo vedi cosa sta facendo? Lo sta difendendo!

- Lo vedo. Ora sparo a entrambi. Mangeremo per una settimana.

Tom deglutì.  Si infilò nella gola un litro di saliva commisto ad un sentimento che sapeva non poter essere compreso dai  suoi simili. Forse perché non aveva che pochi ricordi. Gli  bastò uno sguardo, per  sentirsi  simile  a  quel mostro,  che  sbracciava  disperato per difendere  il  suo amato  animale. E mentre  la  saliva  scendeva  in  gola,  Tom  senza  memoria  pensò,  oppure  disse  con  vergogna  a  se stesso, che in qualche modo, stava penetrando nei segreti del cosmo.

Bisbigliò, mentre Clubs avvicinava nuovamente l’occhio al fucile, – che docile follia…

Poi l’alieno smise di muovere le quattro braccia. Due le serrò intorno al garrese della bestia e con le altre iniziò ad accarezzarlo, come un tempo gli uomini con i propri cani, con i propri gatti. La bestia grugniva  e  sputava  sangue.  Il  suo  dibattersi  si  fece  più  tranquillo,  come  se  la  fine  tra  braccia fraterne, potesse essere accettata  con mansuetudine. E mentre lo carezzava, posò il capo sulla testa morente  e  nera  del  cane-cavallo  e  le  palpebre  di  insetto  presero  a  chiudersi  e  a  spalancarsi freneticamente,  come mille  scatti  di  una  macchina  fotografica. E  dalla  gola, oppure  da  qualsiasi altra parte del corpo di quel bipede predatore vomitato da chissà quali  abissi del cosmo, si profuse un  suono.  Poteva  essere  un  fischio,  oppure  uno  sfrigolio  disperato,  come  della  lumaca  o dell’aragosta  gettata  viva  nell’acqua  bollente, ma  così  potente  da  far  vibrare  le  articolazioni di qualsiasi senziente nel raggio di chilometri.

- Non sparargli Clubs. – disse Tom, appoggiando la mano sulla canna del fucile. Così Clubs si voltò, guardò nuovamente  l’amico e gli fissò gli occhi, comprendendo che erano diversi dai suoi, perché in qualche modo erano grevi, come  le domeniche della  sua  infanzia. Ma  i calendari  erano stati arsi  come coriandoli di cenere brillante, spazzati via dall’onda d’urto o da qualsiasi altra diavoleria fosse quella strana energia purpurea che, come il fuoco la bocca del drago, ululava dagli scafi alieni.

- Non posso darti retta amico mio, – disse  triste – mi spiace, – e  in una mossa rapida e apatica, come di chi  ripeta  lo stesso gesto identico e perfetto per  lavoro o per sopravvivenza, lo colpì alla  tempia con il calcio del fucile. Tom svenne, forse un attimo prima di essere aggredito. Clubs probabilmente non  ci  fece  caso  e  pochi  attimi  dopo  si  trovò  in piedi,  con  la  testa  dell’alieno urlante  nel  centro esatto  del  suo  adorato  mirino.  Il  respirò  iniziò  ad  accelerare.  Il  battito  un  tamburo  di  guerra rimbombante nel  collo, nel  petto e nella mente. Camminava allo  scoperto, nella  desolazione della piazza, avvicinandosi a passi brevi, lenti ma costanti. Guardava le sue prede, stringendo i denti, fino a sentirne il dolore sulle gengive e riportando alla mente  tutte le atrocità vissute, i corpi smembrati e carbonizzati e  le urla disperate e  tutta quella assurda guerra che  in pochi giorni atterrò ogni umana civiltà e si disse che Dio non esisteva, che  la compassione dell’amico era  solo  la  traccia distante e lontana di un disco ormai rotto, che non poteva suonare più. Sparò.

- Tu chi sei?,- chiese il bambino dal maglione blu.

- Io sono Tom e tu da dove sei sbucato?

- Non lo so signore. A dire il vero non mi ricordo niente.

- Beh, sei in buona compagnia piccolo. Devi sapere che anche io non mi ricordo nulla.

- E qui dove siamo?,- chiese ancora il bambino, mentre con una mano si toccava la nuca.

- Siamo sulla  strada che  porta alla città. Anche se una volta, da quello che mi  hanno raccontato, questa  era  la  rotaia  di  una metropolitana. La  città  si  trova  alla  fine  di  questo  tunnel. Magari troverai qualcuno che ti conosce laggiù. Posso chiederti perché continui a toccarti la testa?

- Perché mi fa male, signore.

Così Tom si chinò al fianco del bambino e con due dita scostò i ricci dietro la nuca, per controllare che  fosse  tutto  a  posto.  Non  conosceva  nulla  di medicina,  ma  indagò  quella  piccola  foresta  di ciocche  con l’attenzione di  un dottore esperto, con gesti precisi, abituali. Notò tre piccole ustioni, tre  piccoli  cerchi,  come  di  sigaretta.  Poi  appoggiò  le  mani  sulle  spalle  del  bambino  e  lo  fece voltare.

- Non ti ricordi proprio nulla?

- No Signore.

- Stai bene? Non ti gira la testa, non ti viene da vomitare?

- No. Mi sento bene. Grazie.

- Hai uno strano odore di bruciato addosso. Ti è successo qualcosa che non mi vuoi raccontare?

- No Signore.

- Bene, allora vieni con me. Come ti chiami?

- Non me lo ricordo.

Tom non si domandò chi  fosse quel ragazzino che pareva una giovane riproduzione del suo vissuto ma per un attimo  sperò che  in  quell’incontro,  in  quell’incrocio  di vite  smarrite,  vi potesse  essere una  sorta di  ragione,  un  significato  profondo  il  cui  senso  potesse  essere  svelato  dallo  svolgersi degli eventi. Dopo questi  pensieri  sorrise  e prese  la  piccola mano sporca di  polvere nella  sua. Si voltarono e si incamminarono lenti verso la luce  in fondo al  tunnel, come nei  sogni di chi ha visto la morte.

- Ti chiamerò Lucio,- disse l’uomo – Ti piace? -  Il bambino scoppiò a ridere.

Le  pallottole  danzavano,  formando  un  arcobaleno  di  zolfo,  cadendo  a  terra,  tintinnando.  Clubs urlava, oppure imprecava  sputando il suo odio assoluto,  il  suo  livore, la sua sete di vendetta che si sarebbe bevuta un’intera galassia, distruggendo razze e mondi, come un buco nero, cieco, ingordo.

Ma i proiettili frenavano a pochi millimetri dall’obiettivo. Rimanevano a mezz’aria, sospesi, senza propulsione, senza rabbia. Guardavano in faccia il nemico e poi cadevano giù, tintinnando in contro canto. Poi  il pulviscolo e le piccole pietre che mute giacevano in quella scena presero a vibrare e a sollevarsi,  vorticando;  prima  lentamente,  poi  più  fortemente,  a  formare  uno  scudo,  un  piccolo uragano  silenzioso  e  capovolto,  impenetrabile, mentre Clubs urlava  e  berciava  e  sparava  ancora. Dal cielo caddero poche gocce: bagnarono l’elmetto di Clubs e  rimasero sospese, galleggiando nel vuoto, intorno a quella cupola d’energia invisibile, inumana.

Così  l’alieno,  sollevatosi  dall’amata  carogna,  si  voltò  e  Clubs  smise  di  sparare,  cercando  con  la mano  tremante  di  cambiare  caricatore.  In piedi,  a  breve  distanza,  l’uno  in  fronte  all’altro. L’uno sudato, bagnato e inferocito. L’altro, immerso nell’aurea di cocci e pietrisco, muoveva lentamente  il capo, come a dire “no”.

Tutto si è ridotto ad un gioco di sguardi. Da quanti anni mi nascondo, miro, sparo e corro? La calce mischiata all’acqua, da  spalmare  intorno  agli  occhi  per  la caccia diurna. La polvere delle  vecchie rotaie,  per  i movimenti notturni.  Il  fondo  dei  barattoli  di  vaselina, per  lubrificare  l’arma. I vestiti laceri.  Le  divise  degli  eserciti  che  non  esistono  più.  L’amore  frugale  e  disperato,  come  fosse l’ultimo, nell’odore delle  nostre  pelli, sempre  coperte di  stracci. Le bestie  che  uccidono le  bestie, pensò.

- Perché non ci avete massacrato subito tutti? Eh? Dimmelo brutta merda! Rispondi! Perché non ci avete massacrato? Avete  la  tecnologia,  la  ferocia,  la  armi. Vi  siete  fatti milioni  di  anni  luce  per venire qui, distruggere i palazzi, le chiese, la civiltà… per che cosa? Eh? Per vederci nascondere nel  sotto suolo come topi e poi giocare di giorno a guardia e ladri? Eh? Spiegamelo porca puttana! Cosa volevate  da  questo  pianeta.  Eh? Non avete  fabbriche,  non  avete  industrie,  non avete  un  cazzo di niente. Ve ne state nelle vostre navi da anni e poi uscite a far fuori qualche umano. E poi tu frigni, brutta merda. Frigni  se  ti si  ammazza un cane che Dio solo sa cosa cavolo gli avete  fatto per farlo diventare  così.  Perché?  Eh?  Brutto  figlio  di  puttana! Dammi  una  dannatissima  ragione  per  dare senso a tutto questo!

- e  tu da dove  sei  sbucato?  – chiese  la donna dai capelli  grigi e dai  fianchi  larghi.  – L’ho  trovato alla fermata cinque, all’entrata della città, – rispose Tom, prima che il bambino potesse parlare. – Non si ricorda nulla. Ha la mia stessa storia, per questo l’ho portato con me, – continuò Tom, come se  non  vedesse  l’ora  di  raccontare  la  vicenda  -  ha  la mia  stessa  cicatrice.  -  Che  cicatrice?  – Pensavo lo sapessi,  -  fece Tom imbarazzato – quella sul  fondo della nuca. – Non ho mai  sentito di cicatrici sul  fondo della nuca, – rispose  la donna – forse avete battuto entrambi la testa, sono cose che  capitano,  soprattutto  di  questi  tempi  di  caccia  e  di  fuga.  -  Fece  una  pausa,  spostando  lo sguardo oltre  i due  amici, raggiungendo per qualche  istante un punto casuale nel vuoto, come per voler  attingere  ad  un  archivio di  conoscenze  segrete,  protette. Deglutì  e  continuò  –  Poi  chi  può sapere quali altri  gruppi  di umani  si  nascondano nelle  rovine della superficie. Forse venite da  là, da  un  gruppo  di  tribù  che  si  sono  involute.  Forse  è  una  specie  di  rito  o  forse  e  il  modo  per allontanare  i membri  in  eccedenza. Un  colpo alla  testa  e  giù nella metropolitana,  per  riuscire  a spartirsi  il  poco  cibo  rimasto,  senza  uccidere  i  membri  in  eccesso,  senza  lasciare  testimonianza della propria posizione. – Si vede che sei un antrologa… – Antropologa Tom, An tro po lo ga,  – Ok, giuro che non me  lo scorderò più. – Comunque  l’importante è che  stiate bene. -  Si, stiamo bene. – Venite,  è  quasi  pronta  la  cena.  Non  si  mangiava  da  giorni.  Abbiamo  organizzato  una  festa grandiosa. Andiamo.

La donna dai fianchi  larghi e dai capelli grigi passò la mano tra i ricci del ragazzino, lo prese per mano e  si  avviò per un  lungo  corridoio. Si  guardò  l’orologio  rotto  al polso e  disse  che  lo  faceva sempre, anche se non aveva più senso, perché le lancette si erano fermate, forse un tic del passato.

Tom e Lucio non dissero nulla; neppure  ci  fecero caso a quella  frase, perché  la loro attenzione  si stava concentrando su un  rumore confuso,  in cui decine di voci prive di  significati si mischiavano al  fracasso di  quelli  che  erano  tamburi, oppure  strumenti  a  percussione  di  fortuna, come  vecchi bidoni  o  vecchie  lamiere.  Camminarono  per  piccoli  tunnel  che  dovevano  essere  corridoi  per smistare  il  flusso di  persone  da un  luogo  all’altro  delle  strade  suburbane.  Infine  raggiunsero  un area più ampia, come uno spiazzo, il cui  lato più lungo terminava con dei larghi gradini colorati di giallo e di nero, interrotti da una frana. Là, in un baracchino con la scritta “il Corriere del” alcune donne  facevano bollire giganteschi paioli  di acqua. Intorno a loro uomini, dal  torso nudo e con  il volto dipinto di  nero,  battevano  ritmicamente  a  terra  barre  di  binari  d’acciaio  e  poi  sopra delle serrande  divelte  e poi  di nuovo  a terra. La  gente  urlava e  ballava. Alcuni  si accoppiavano dietro una colonna, o all’inizio dei cunicoli, semi nascosti delle ombre mobili, coperti dal frastuono. Altri piangevano, forse  di gioia, chi può  saperlo. Al centro vi erano tre alieni, appesi per i piedi, con  il ventre  squartato. Alcuni  anziani, dalle braccia grandi  come pilastri, tiravano  fuori  le budella con dei  ganci,  seguendo  il  ritmo  della  musica,  smarrendolo  di  tanto  in  tanto,  sistemandosi  la mascherina  da  chirurgo  sulla  faccia,  per  poi  ritrovarlo,  appoggiando  le  interiora  in  capienti cilindri  di  plastica  annerita,  da  cui  fuoriuscivano  grandi  bolle,  odorose,  dolciastre. Altre  donne, tarchiate e  dalle mani  lorde  di  una materia viscosa,  con dei  cacciavite arrugginiti  staccavano  le grandi palpebre da formica e poi cavavano gli occhi extraterrestri, grossi come uva di struzzo, per posarli  in  alcune  cassette  di  legno  inumidite.  Un  crocchio  di  ragazzi  prese  poi  i  contenitori  e cantando, li trasportò all’edicola. Al contempo altri giovani predisposero dei carrelli, dal manubrio blu e dalle piccole  ruote, sotto  i corpi mutilati. Presto si  riempirono di dodici braccia,  tre  teste, tre busti e sei gambe. Vi fu un grande “hip hip urrà”; poi un altro; poi un altro.

- Io non voglio mangiare  – disse Lucio. – Neanche  io mangio mai. Intendo… loro. – Poi Tom spostò lo sguardo sul centro della sala, dove la donna dai fianchi larghi e dai capelli grigi, con altre donne più magre e più giovani, stava imbandendo la tavola con ampie  tele  trasparenti. La gente  iniziò a prendersi per mano e a camminare in tondo. Una donna dai capelli neri e lunghi, dalle labbra belle e dal sorriso giallo prese il polso di Tom – dai vieni, – disse. Tom mosse  le dita e un’altra mano, di qualcuno che non vide, afferrò la sua sinistra. Si voltò per prendere Lucio, ma non c’era più.

L’alieno di  tutta risposta emise un grido stridulo e prolungato. Le piccole pietre caddero a terra. Le pallottole  con  le  gocce. Così Clubs portò  il calcio del  fucile  alla spalla, ma  il suono, quel  fischio profondo e  tagliente, si  fece  improvvisamente più  forte  e  le  orecchie di Clubs iniziarono a  dolere.

Abbandonò  il  fucile, mollandolo a  terra. Si portò  le mani  alle orecchie  ed urlò, ma  di uno  strillo basso,  gutturale,  sincero,  innocuo.  L’alieno  iniziò  a  girargli  intorno  aumentando  la  potenza  del fischio.  Un  crescendo  incessante,  che  raggiunse  i  limiti  della  sopportazione  umana,  oppure  li superò. La pelle del volto di Clubs, così come ogni sfoglia del suo epitelio, iniziò a vibrare. Percepì l’alieno dietro di se. Poi un fortissimo bruciore alla nuca.

Si spensero gli occhi e aprì  la sua  anima alle  ragioni del cosmo, pensando solo in parte, con la sua mente.

Perché  in ogni atomo è sottesa una ragione che grida disperata nel buio, poiché anch’essa si pone  la medesima domanda e non  trova risposta, se non la vita. E poi  si  formarono piccoli punti di  colore nel  buio della  solitudine,  che  in quella  desolazione  totale  sembrò un miracolo, anche  se  forse  era sempre  accaduto. Così  scivolarono come  serpi, festoni di  gas variopinto, dipingendo di curve e di cerchi  l’infinito  buio.  E  in  quel  vortice  esasperante  apparvero  le  sfere  ardenti  e  al  loro  fianco miliardi  di  culle  brulicanti  di  microscopiche  nascite,  le  quali  si  duplicarono,  poiché  altro  non sapevano  e  non  volevano  fare.  E  poi  si  scissero,  si  modificarono,  si  clonarono  ed  incontrarono coriandoli  di  altra  materia  vivente,  cominciando  così  a  cibarsi  l’uno  dell’altra,  partorendo storpiature, oppure capolavori perfetti che insaziabili, si portavano in grembo la  splendente fiamma del  domino.  E  furono  vomitati  in  tutto  il  cosmo  migliaia  di  occhi  e  di  bocche  e  di  arti  che cominciarono  a  chiedersi  il  perché,  frenando  la  domanda  in  ossequio  all’ugola  dilaniata.  E  nei millenni a  venire  le  sfere  si  ruppero,  rilasciando nella  placenta del cosmo  il  proprio  seme,  con  la medesima fame e la stessa patologica dipendenza alla vita. Ed alcuni, pochi  invero, compresero che forse quello era il senso poiché anche  lo stesso atomo e gli stessi disegni  che lo componevano non riuscivano a  darsi  risposta. E  sbarazzandosi della  superstizione, dopo  aver  afferrato quale piccolo lago  fosse  l’universo  e  di  come, con  la  facilità  di  un  respiro,  si  potesse  navigare,  ogni  senziente evoluto  si  disse  che  forse  tanti  sforzi  erano  vani,  quando  di  fronte  al  proprio  destino  vi  erano miliardi di  terre  di cui saziarsi. E  pianeti  come  pastiglie vennero  ingeriti dalla naturale  ingordigia del  cosmo  e  dei  suoi  figli. E  tu  lo  sai  perché  conosci  i  cicli  astrali,  la  morte  dei  soli  e  dei  loro sistemi,  i  buchi  neri  e  la  materia  oscura.   Ma  nessuno  in  verità  è  perfetto  e  vi  è  sempre  una storpiatura  che  segna  nelle  carni  del  cuore un  sincerissimo  disagio:  quella carezza, quel bocciolo, quell’intesa perfetta tra specie distinte che  invero pone  fine ad ogni dimostrabile certezza. E  taluni, come  voi,  crearono  templi  per  celebrare  questa  docile  follia. Altri,  come  noi,  seppur  affetti  dal medesimo  enigma, decisero di  calpestarlo  e  di portare questa  scelta  di  fiore  in  fiore, di  pianeta  in pianeta. E  così  sarà  finché  la  pazzia  del  dubbio non  sarà  ricacciata  tra  le  gabbie dell’unica  legge eterna: quella del predatore e del predato, della vita e della morte, che si inseguono per rinascere ed estinguersi ancora, in questo incomprensibile, alieno girotondo.

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