Il vecchio segue paziente lo svolgersi degli eventi. All’apparenza tranquillo. Compassato.
Ha atteso così tanti anni prima di questo momento, lunghi anni tempestati da luce e buio. Anni folli, deliranti, equivoci, contraddittori.
Castigo senza delitto, per poi risorgere. Una vita ibrida, un po’ alla Tolstoevskij.
Attorno a sé una calca informe, urlante, disarticolata e caotica. Il vecchio rimane immobile, silenzioso, avvolto nel suo pastrano color verde militare, le spalline a rendere la sua figura ancor più strafottente nei confronti del tempo, l’abito di velluto color verde marcio, liso dagli anni e per questo ancor più attraente. Nell’attesa, le dita del vecchio, nodose e raggrinzite, trovano nel taschino del panciotto un mezzo sigaro toscano, ancora intonso.
Sfrega un fiammifero sull’unghia dell’indice della mano destra, e il lieve bagliore rischiara i lineamenti asciutti e segnati del vecchio, parzialmente coperti da una barba folta e brizzolata. Accosta il sigaro alla bocca e ne assorbe l’aroma a pieni polmoni.
Se ne frega dei presenti, come è giusto che sia: ha altro a cui pensare in quel momento, per lui così importante.
Lui si trova lì ma non è lì, in verità: il suo spirito è altrove, trascinato indietro nel tempo, a trentatre anni prima per essere precisi.
I suoi occhi, di un nero intenso e febbrile, divorano la scena in attesa del tanto sospirato epilogo.
Nessuno dei presenti si accorge di lui, nonostante stia fumando senza ritegno in un luogo chiuso, elegante, circondato da vecchi snob e cariatidi incipriate.
Il vecchio attende, con pazienza, e nel fumare ritorna a quella fatidica notte, così decisiva per la sua vita.
Un ferro infuocato, incandescente, che ha marchiato il suo cuore in maniera definitiva, con dolore, sofferenza, disperazione. E quell’immagine angosciante, tormentosa, stagliata dentro di sé con caratteri indelebili, gravida di sensi di colpa e tragici addii.
L’incidente.
Il vecchio ricorda tutto, come se fosse ieri.
Chiude gli occhi per soffocare il moto di commozione che, all’improvviso come ogni volta, prevale sui nervi e sul proprio autocontrollo.
Chiude gli occhi per allontanarsi dalla folla che lo infastidisce, in quest’attimo di intimo raccoglimento. Ma lui è là. Deve essere là. Altro non può fare se non trovarsi là.
Chiude gli occhi e rivede quella stanza, disordinata e piena di amore, passione, speranza. Disperazione, solitudine, oblìo.
Un ragazzo di trentacinque anni alto e smilzo, con una folta chioma corvina ad arruffargli la testa ed un carico di sogni a illuminare un talento cristallino, puro. A quell’epoca vestiva sempre allo stesso modo, durante quei lunghi mesi invernali che tanto amava: jeans laceri e stinti, perennemente chiazzati con i colori della sua arte e un maglione a dolcevita blu, o grigio fumo, avvolto da una camicia di flanella dagli improbabili colori sgargianti.
A lui piaceva.
La sua igiene personale era sempre stata impeccabile e regolare, nulla da dire, ma gli abiti dozzinali e un’anarchica barba nera conferivano al suo aspetto una costante trasandatezza.
La febbre artistica che trasudava dai suoi occhi, poi, lo faceva sembrare un pazzo, dalla mente alienata dalla realtà, alla perenne ricerca della propria perfezione artistica. Un equilibrio dinamico, per intenderci, perennemente rivolto a nuove idee, nuovi punti di vista, modalità espressive differenti e originali.
E poi c’era lei: il suo primo vero amore, con quegli occhi cerulei e quel delizioso naso a-la-français ad arricchirgli le giornate, rendendolo il più vivo tra i vivi, il più fortunato tra gli uomini.
La mente del vecchio adesso è lì, in quella stanza, quella notte, e nulla può distoglierlo dal flusso di pensieri che l’ha investito, trasportandolo negli intricati rovi del suo passato, ancora una volta. Nonostante la folla, l’insensato vociare che lo circonda, l’enorme lampadario di cristallo che illumina la sala dalle pareti adorne di quadri: nulla riuscirebbe a distoglierlo dai suoi ricordi, in questo momento.
Il vecchio fuma e si trova ancora lì, in quella notte solitaria e liquorosa, densa di lacrime e di insani propositi, alimentati dal silenzio notturno e da un senso d’irreversibile solitudine.
Un’immagine.
Quell’immagine.
Quell’immagine rappresentava il capolinea di due esistenze, un tempo appartenute a due giovani che, quel giorno, si trovavano semplicemente a vivere di vita vera.
Uno dei due era lui: sopravvissuto nel corpo, irreversibilmente defunto nel cuore e nello spirito.
La fotografia, che così insistentemente lo tormentava, altro non era che il documento n. 33 del fascicolo accusatorio. Una bicicletta, da lui guidata quel giorno, ed un paio di pattini a rotelle, indossati dalla sua fidanzata.
Con beffarda ironia, e rimorsi mai completamente sopiti, il vecchio ricorda per l’ennesima volta il giorno dell’incidente.
Un trionfo di luci e colori, quel maledetto giorno, un’estasi di odori tersi e delicati, sorti come teneri germogli da un violento temporale notturno che aveva tenuto svegli i due amanti, comunque felici per quell’inaspettata insonnia. Il mattino li aveva accolti in un morbido abbraccio autunnale, sotto un cielo terso, brillante, profumato, che impreziosiva uno stupendo tappeto di foglie autunnali, lungo la via principale.
I due fidanzati, spinti da quell’autentica benedizione che Madre Natura aveva loro donato, si erano gettati per strada con tutta l’intensità e l’incoscienza del proprio reciproco amore.
Quando si erano conosciuti, i due camminavano incerti sul viale della vita, avanzando incauti, a piccoli passi, avvolti in una nebbia che impediva loro di sperare in un futuro staccato dalla realtà quotidiana, per ciò solo desiderabile più di ogni cosa. Fortunatamente, ricorda oggi il vecchio come il giovane quella notte, in un sarcastico delirio febbrile, il destino li aveva fatti incontrare e, attraverso un dialogo impreziosito da confessioni, attenzioni ed eloquenti silenzi, la comune diffidenza si era trasformata in amore completo. L’incipit dell’autentica felicità.
“Felicità?”, pensava il giovane, chiuso in quella stanza, sorridendo alla luna con una smorfia intrisa di dolore viscerale. “Lei adesso non c’è più! Tutto è sparito, finito. Stop! Ma quale felicità e felicità!”. Il giovane e il vecchio, la stessa persona ma al contempo individui distanti, oramai, piangevano in silenzio nel ripensare all’incidente.
Sotto questo aspetto, trentatre anni non erano serviti a nulla, purtroppo o per fortuna.
Decisamente, il giovane non ce la faceva più.
Così ricorda adesso il vecchio, assorto nei suoi pensieri, del tutto incurante di una donna ingioiellata, alle sue spalle, che con tono altero gli sta ordinando di spegnere il sigaro. In linea di principio la richiesta sarebbe anche giusta, pensa l’uomo con un barlume di attenzione, ma un attimo dopo è di nuovo lì, in quella stanza, incurante di tutto ciò che lo circonda.
Quella notte.
L’incidente.
Quel dolore mortale.
Rieccolo ancora giovane, disperatamente recluso entro le quattro mura di quella specie di topaia.
Ricorda bene quella notte, la cinquantunesima gravida di preghiere, come mai aveva fatto in vita sua. Per quasi due mesi, la sua invocazione alla Luna era stata sempre la stessa: tragica, malinconica, supplice.
Sopprimimi. Portami con te, lassù. Cancellami.
Come tutte le preghiere, anch’essa stupida e insensata.
Puro e semplice oppio.
La Luna, con immota e inconsapevole pazienza, lo osservava di continuo e ascoltava in silenzio i suoi insani propositi, rischiarandone lo sguardo, rigato da sottili lacrime silenziose.
Quei momenti di intima confessione astrale non duravano mai troppo a lungo, il vecchio lo ricorda bene. Un abbozzo di oblìo, inevitabilmente maltrattato, violentato ed infine spazzato dall’incedere dell’alba che ogni mattina, come una specie di condanna, ricordava al giovane che esisteva una vita reale, un mondo da vivere, un’occasione di riscatto.
Speranza.
Sentimento che il giovane avvertiva, essendo ancora parte del consorzio umano, ma che cercava di sopprimere ogni giorno di più, con tutte le forze, per rendere la propria condizione emotiva molto simile a quella dell’amata.
Un corpo morto. E basta.
Per quanto condizionata dalla pesante alterazione spirituale che oramai l’aveva invaso (e, forse, proprio per questo) alla fine il giovane aveva preso la decisione: quella tragica notte non sarebbe stata come tutte le altre.
Non sarebbe rimasto lì seduto, ad aspettare il silenzioso spegnersi di quell’oblìo.
Il vecchio ricorda tutto come se fosse ieri, è sempre stato dotato di ottima memoria. Ed ora come allora, si emoziona.
Quella notte si era alzato dal divano, vestendosi alla buona, come al solito quand’era ragazzo, e si era allontanato da casa: i soli effetti che portava con sé erano i pochi spiccioli che gli restavano.
E quella fotografia.
Per strada l’aria era fredda e pungente, una leggera pioggia offendeva la chioma corvina del giovane, ed un silenzio immoto accompagnava con un’assonanza perfetta i battiti del cuore. L’uomo si era diretto al porto, camminando lungo il molo e fumando pensieroso.
L’alba cominciava a fare capolino e una decisione andava ormai presa: dentro o fuori, tertium non datur.
La tentazione di fondersi con le acque marine, dimentico di sé e della propria sofferenza, era stata veramente forte: l’acqua salmastra luccicava scura nella luce notturna, ed il disco lunare, specchiandosi in essa, colpiva il suo sguardo con il proprio riverbero di bagliori biancastri, catalizzandone l’attenzione. E in quella luce, finalmente, il giovane aveva scorto qualcosa, fino ad allora mai visto: si era seduto tranquillo, le gambe penzoloni rivolte verso le acque scure, e aveva preso ad ascoltare ciò che la Luna aveva da dirgli…….
Non era più tornato a casa, e per parecchio tempo di lui si erano completamente perse le tracce: non aveva famiglia, né amici ai quali si sentisse particolarmente legato, o che conoscessero qualcosa della sua indole meritevole di essere conservata nel cassetto dei ricordi.
Era scappato, dopo l’involontario delitto. E aveva espiato, come Raskolnikov.
E dopo, finalmente, era risorto. Come il principe Nechljudov.
Tolstoevkij, per l’appunto: un’eterna ambiguità dalla quale era riuscito a emanciparsi, finalmente. E a chiudere il cerchio una volta per tutte.
Qui, quest’oggi, nel bel mezzo di un’asta pubblica, dove il vecchio attende con pazienza, senza fretta. Con la testa altrove.
Ho atteso trentatre anni, pensa silenzioso. Quasi metà della mia vita. Ma ci siamo, ci siamo, il quadro è il prossimo, eccolo là!
Il dipinto, nello specifico, rappresentava una natura morta composta da una dozzina di oggetti, riprodotti olio su tela, all’interno di un contesto buio, fosco, di caravaggesca memoria. L’unica concessione alla luce che l’autore aveva osato concepire era rappresentata da un flebile riflesso lunare che permeava la bicicletta ed i pattini, lasciando nettamente sullo sfondo tutti gli altri oggetti, eccezion fatta per la riproduzione di una culla, interposta fra questi due oggetti. Il dipinto, rigorosamente anonimo, recava il titolo: “Rappresentazione emozionale di un dono”.
Il quadro venne battuto ad un prezzo elevato, sproporzionato rispetto all’effettiva dignità artistica dell’opera, ma certamente adeguato all’intensità che ogni sua pennellata comunicava. Alla fine, dopo una battaglia di offerte, rilanci e nuove offerte, conclusa l’asta e dissoltasi quella folla insulsa e fastidiosa, il vecchio acquirente si avvicinò al dipinto con passo lento e volutamente cadenzato, allo scopo di soffocare l’intensa trepidazione che teneva in petto.
Con gli occhi rigati di lacrime, ben nascoste dietro gli occhiali scuri, il vecchio pittore si inginocchiò di fronte al quadro e, accarezzatane la superficie con raffinata devozione, estatico e contemplativo, col viso permeato di rinnovata giovinezza, chiuse definitivamente i conti col proprio passato.
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17 marzo 2012
Forte ed emozionante…..toglie il fiato e le parole, avendolo appena letto riesco solo a dire: “stupendo!”
17 marzo 2012
Grazie davvero.