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Tommaso Pincio – Hotel a Zero Stelle

una recensione di Carlotta Susca

Se la prima lettura di Hotel a zero stelle mi aveva lasciato la convinzione che Pincio, attraverso la prima persona del racconto delle sue stanze d’albergo, arrivasse a scrivere un saggio di critica letteraria, alla seconda, altrettanto godibile, ma più illuminante lettura, ho ribaltato l’idea sul libro: tramite aneddoti sui suoi autori preferiti, uno dei migliori scrittori italiani contemporanei – quale Pincio è, lo affermo con forza – parla di sé.

La soggettività dell’autore, per l’interposta persona del narratore, è ciò a cui il lettore sempre tende, e intravedere la penna che scrive sul foglio che abbiamo in mano è sempre il gusto principale di chi legge, consapevolmente o meno. Tommaso Pincio è, con Hotel a zero stelle, sia autore poco celato dietro il paravento di un narratore interposto (e dunque non entità misteriosa dispensatrice del verbo da lontananze siderali, ammantata di sacralità), sia critico letterario comprensibile e portatore di veri significati, di contenuti.

«Ho un debole per gli alberghi», l’incipit: la prima persona, l’atmosfera rilassata. Un prologo per spiegare la preferenza dell’autore per questi luoghi dalla atmosfere casalinghe eppure estranee, accoglienti ma distanti.

L’architettura dell’albergo che dà forma al testo è dantesca: selva, inferno, purgatorio e paradiso, da cui accedere al tetto per rivedere «quelle stelle che l’albergo non ha». Ma le stanze, tre per piano, che ospitano gli autori della letteratura contemporanea trattati da Pincio non sono organizzate in base a un giudizio di valore sui testi o sull’operato degli scrittori. Se così fosse il lettore si ritroverebbe tra le mani un canone e avrebbe il diritto di storcere il naso, indignarsi e ribattere; l’assegnazione delle camere è invece tematica e progressiva sulla base della biografia di Pincio e delle sue riflessioni sulla letteratura (e sull’arte in genere, essendo stato un pittore prima che uno scrittore, salvo capire che alla fine la creta di cui siamo fatti esige di essere modellata nel modo che le è più consono); così la selva oscura ospita una riflessione di natura morale che affonda le radici nell’infanzia dell’autore, quella sull’ammissibilità della menzogna, declinata in campo artistico: quanto a lungo è giusto perseverare alla ricerca di una vocazione intermittente? Parise ha desistito alla lettera esse dei Sillabari e Pincio, dopo averlo odiato come spettro del proprio fallimento, ha accettato che sia la vocazione ad abbandonare gli artisti, e non viceversa (e poi ha comprato e amato i Sillabari). Le menzogne di Green, i suoi tradimenti e la passione per la promiscuità portano Pincio a un confronto su quanto nella vita, come nei romanzi, non si possa far altro che confessarsi a se stessi, senza potersi davvero scusare con qualcuno. E Kerouac incarna l’aut aut di ogni artista: vivere o scrivere; se quello che viene considerato esponente maggiore della beat generation ha potuto fissare su carta le sue esperienze è perché le stava solo osservando. La selva oscura è l’incertezza su ciò che è giusto o sbagliato, su chi si è e chi si vorrebbe essere.

Dalla menzogna all’inferno, il terrore per il fallimento; primo piano, altri tre ospiti illustri: Francis Scott Fitzgerald, Georges Simenon e il «mai troppo caro» David Foster Wallace. Il senso di inadeguatezza del cantore dell’età del jazz, la trasfigurazione narrativa del giudizio materno sul proprio fallimento del creatore di Maigret e il fallimento nella lotta per la ricerca di un senso e contro il «buco nero con in denti» di DFW: ogni scrittore deve affrontare i propri fantasmi, con risultati diversi.

Il purgatorio di Pincio è il luogo di indeterminatezza dominato dalla domanda: «Cosa fa la realtà quando ce ne stiamo acquattati nei sogni?». I libri di Philip K. Dick, quelli di Landolfi (su tutti Cancroregina) e l’attenzione al come si scrive più che al cosa, che dà il via ad una riflessione sullo scrivano di Melville e sulla tecnica fotografica (ante litteram) di Caravaggio: questi i punti di riferimento del terzo piano dell’hotel a zero stelle.

Non c’è un paradiso salvifico, nel campo della scrittura, e il percorso di Pincio trova una via alle stelle negli esempi di Pasolini, che insegna a meritare di essere dei sopravvissuti (e una via è quella del romanzo, appunto), di Burroughs, avviatosi al racconto per espiare un involontario uxoricidio, e, infine, l’ultimo incontro in questo percorso di formazione è Orwell: come Pincio noto per un nome posticcio, un paravento per celare la propria identità, ma ancor più una alternativa che l’uomo dà a se stesso come scrittore, la possibilità di scegliere la propria strada e di tentare di realizzarsi.

Nella mia libreria ideale questo libro trova giusta e meritoria collocazione accanto alle Lezioni americane, e fra le mie preferenze Pincio occupa attualmente il podio.

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Author: Alieni Metropolitani

Gli Alieni Metropolitani non cercano soluzioni. A volte ne trovano… é irrilevante. Appartengono alla Società e con sguardo consapevole ne colgono l’inconsistenza. Non sono accomunati da ideologia, religione o stile di vita ma da una medesima percezione del mondo. Accettano i riti della vita, riuscendone a provare imbarazzo. Scrivere! Una reazione creativa alla sterile inconsistenza del mondo.

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3 Comments

  1. Molto molto molto interessante! Brava Carlotta!

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  2. anch’io ho apprezzato molto questo libro. è come un viaggio nella letteratura che amo di più. azzeccatissimo (anche se può sembrare irriverente) l’accostamento alle “Lezioni americane”. Condivido

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  3. Grazie per la rece. Mi ha molto incuriosito e vedrò di leggerlo. Per adesso prenoto una camera singola al terzo piano grazie.

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