Recensione di Denise Bresci
Aprire un libro del proprio scrittore preferito è un po’ come visitare un luogo che amiamo. Rileggerlo è bello come rifare una passeggiata nota: possiamo gustare nuovi particolari, scoprire connessioni che ci erano sfuggite, ammirare ciò che abbiamo già visto, ma con una luce diversa. Leggerlo per la prima volta è l’incanto della scoperta unito a quello della bellezza.
Se anche voi amate leggere le opere di DFW, vi consiglio questo TTTT come vi consiglierei una delle mie passeggiate preferite. E infatti lo regalo sempre volentieri, quando ne ho l’occasione, perché è una collezione di scritti di una ricchezza e intelligenza rare: desidero così regalare la gioia che ho provato io nel leggerlo, anche se purtroppo so di regalare, insieme ad essa, quel tipo di tristezza che sempre ci accompagna al ritorno dai luoghi favolosi che amiamo e, dove infatti, possiamo andare solo di rado. E’ dura poi leggere altro, quando si è letto DFW.
Questo volume non fa eccezione e anzi, secondo me, se questo senso di “inadeguatezza di tutto il resto” è presente quando si legge narrativa dopo la sua narrativa, lo è ancor più fortemente quando si leggono saggi dopo avere letto la sua non-narrativa. In più si aggiunge il rimpianto per la ricchezza che tutti abbiamo perduto con la sua fine prematura. Vedere il mondo attraverso i suoi occhi è una gioia che mi piacerebbe che tutti potessero provare.
Il suo sguardo infatti sembra illuminare ogni argomento: concetti inediti, immagini nuove, punti di vista da cui non avevamo mai guardato vengono inanellati con grazia, arguzia e pazienza e con una prosa brillante e vivace, mai noiosa, in modo letteralmente incantevole. Si viene davvero rapiti, indipendentemente dall’argomento. In effetti, una caratteristica da cui si viene colpiti è proprio questa, con gli articoli di DFW: che, quale che sia il tema dell’articolo, lo si troverà interessantissimo. Accade con la fiera delle aragoste, accade con le crociere di lusso, accade anche qui.
Nel primo saggio, Tennis, trigonometria e tornado, DFW ci ha offerto uno scorcio della sua vita da tennista campioncino juniores. E’ un incredibile esempio di come, nelle sue pagine, gli argomenti più disparati si dipanino in più dimensioni, offrendoci veramente il mondo in alta definizione: il vento dell’Ohio come Vento dal nulla, i sudaticci avversari di torneo, le implacabili linee dei campi da tennis e dello Stato e tutta la matematica che gli sottende (e di cui DFW ci parla!), si materializzano nella nostra mente con la forza di fotografie nitidissime grazie alla precisione delle descrizioni, alla brillantezza della narrazione che introduce aneddoti divertenti, immagini buffe, episodi che sembrano incredibili ma hanno il sapore della verità più immediata. E, nello sfondo, il ritratto di un momento importante della sua vita – spietato e modesto – ma anche il ritratto di un paese, di un modo di essere, di un tempo e di uno sport. Il tennis, dopo questo articolo, non vi sembrerà più lo stesso sport. Davvero.
Un altro esempio di quanto DFW riuscisse ad affascinarci, a prescindere dall’argomento, è il resoconto che scrisse in occasione della fiera statale dell’Illinois, Invadenti Evasioni, che io trovo uno degli esempi più notevoli di “arte giornalistica”. Dopo averlo letto non riesco più a partecipare ad eventi anche solo lontanamente di questo genere, trovandomi in situazioni che possono sembrarmi simili, senza sorprendermi a pensare: “cosa direbbe di questo?”, “come descriverebbe queste sensazioni (inadeguatezza? imbarazzo? alienità?)?”, “cosa vedrebbe, che io percepisco a malapena con la coda dell’occhio?”. La lente attraverso cui ci racconta questa fiera è la parte indimenticabile di questo pezzo. Riusciva infatti a raccontare ogni cosa unendo una naturalezza dolcissima a un’acutezza chirurgica. Il pezzo inizia proprio come una semplice cronaca e ci sembra di essere lì con lui, all’ufficio stampa, per l’accredito di giornalista. Queste scene sono divertentissime: un giornalista dell’East Coast ad una fiera rurale… DFW diventa proprio irresistibile quando ci racconta dell’equivoco che involontariamente genera quando dichiara ad alcune signore il nome della rivista per cui scrive: e non vi racconto nulla! Ma, alle precisissime descrizioni di tutto quanto (“ L’aria è di lana bagnata … Il sole è una macchia nel cielo, che più che nuvoloso è opaco. … In agosto il granturco è alto quanto un uomo alto. … Le locuste cinguettano nei campi, un suono elettrico di ottoni che mentre accelero fa uno strano effetto Doppler. … I silos sono l’unico skyline” – di nuovo, la realtà in HD!) si uniscono fin da subito le sue osservazioni che ci mostrano come ogni cosa possa ancora e sempre sorprenderci (“C’è una foschia sospesa appena sopra i campi, come fosse la mente del paesaggio, o qualcosa del genere”). E’ il punto di vista, soprattutto, che è sempre acuto, inedito: per parlarci dell’eccitazione contagiosa della fiera, ci delinea con estrema lucidità il solipsismo innocente e regale del Dio del vescovo Berkeley che sentiva da bambino e l’angoscia ed il senso di responsabilità che ne derivava (“tutto il mondo si dissolveva e risolveva al mio solo battere le palpebre; e se non avessi aperto gli occhi?”); per spiegare il senso di comunità che percepisce – e che anche noi percepiamo – in poche righe ci porta, con la sua consueta grazia e modestia, a capire come chi lavori nella campagna e con la campagna (“quaggiù la campagna è più un prodotto che un ambiente”) possa avvertire nei confronti del suo ambiente, appunto, una specie di alienazione che solo in occasioni come questa può essere dissipata (“ … la Fiera Statale dell’Illinois consiste in un intervallo strutturato di comunione non tanto col vicinato quanto con la terra – è il mero fatto della terra che dev’essere celebrato, qui, i suoi frutti mangiati con gli occhi, il bestiame strigliato e schierato, tutto esornativamente in mostra. Quello che c’è di Speciale è l’offerta di una vacanza dall’alienazione, l’occasione di amare quel che la vita vera di quaggiù non dà modo di amare”). Quello che ha di grande, ancora, però è l’understatement con cui ci offre simili perle: in realtà, mentre ci racconta questo, ci racconta anche che la ragazza con cui si trova a visitare la fiera, una sua compagna di scuola, ha per questa faccenda lo stesso interesse che aveva prima, in macchina, per quella cazzata di delirio del bambino come Dio empirista. Penso che se uno volesse sapere com’è un grande pezzo giornalistico dovrebbe proprio non solo leggere, ma studiare questo articolo.
Che esagerazione e David Lynch non perde la testa sono due articoli dall’argomento ben circoscritto: il primo, piuttosto breve, è una recensione di “Morte d’autore. Un’autopsia” di H.L. Hix del 1992, un filosofo americano che ha tentato di risolvere il più che ventennale dibattito scaturito dall’annuncio della “morte dell’autore” di Barthes nel 1968. Il secondo è una cronaca di alcuni giorni passati sul set di Strade Perdute di Lynch, nel gennaio 1996. Spiritoso, brillante, pieno di aneddoti, lo consiglio sia a chi ama i film di Lynch sia a coloro a cui non piacciono, perché comunque – come al solito – DFW ci mostra aspetti della sua poetica molto particolari.
Di tennis ci parla ancora l’ultimo articolo del volume L’abilità professionistica del tennista Michael Joyce come paradigma di una serie di cose tipo la scelta, la libertà, i limiti, la gioia, l’assurdità e la completezza dell’essere umano: non credo di poter dire niente di più del titolo. Il titolo condensa veramente tutto quanto sia nell’articolo e, anche se non avete mai sentito parlare di Michael Joyce o non amate il tennis, vi consiglio senz’altro di leggerlo: è un altro incredibile esempio di come si possa rimanere perfettamente in tema, ma inglobare la vita, l’universo e tutto quanto, scrivendo semplicemente di una giovane promessa tennistica.
Il pezzo che preferisco, comunque, è uno dei suoi saggi più famosi e più significativi. Si intitola E unibus pluram: Gli scrittori americani e la televisione e credo che da solo valga il prezzo dell’intero libro. Anzi. Questo saggio è non solo meritevole in sé, per la quantità e qualità di osservazioni e relazioni che ci indica, ma anche perché è in qualche modo una sintesi di alcuni temi di fondo di Infinite Jest: il nostro rapporto con l’intrattenimento, l’intrattenimento come dipendenza, il ruolo che la letteratura può e deve avere in tutto questo. E’ stato citato anche dall’interessantissimo articolo di Laura Miller (the Guardian, 15/1/2011) che lo ha utilizzato come spunto per la sua disamina su come o quanto la letteratura moderna americana tenti di sfuggire (e di fatto spesso sfugga) alle sue responsabilità di raffigurare il mondo reale. Avevo sperato di poter includere qui, in qualche forma, l’insieme delle argomentazioni e il filo deduttivo con cui DFW ci porta attraverso questo maestoso labirinto. Ma rileggendolo per l’ennesima volta, mi sono resa conto che è davvero impossibile: troppo ricche le sue osservazioni, troppi i temi per essere costretti in questo spazio, assolutamente ineguagliabile la sua capacità di spiegare e rendere comprensibili argomenti complessi. Cercando di spiegarli li renderei solo ostici. Voglio però indicarvi alcuni spunti di riflessione che spero vi spingano a leggere e/o rileggere il suo saggio. DFW parte innanzi tutto da un dato: una famiglia [americana, ma non ci importa, non siamo credo, certo distanti] guarda la tv per sei ore al giorno, in media; ci invita poi a riflettere sul perché questo accada. Insiste molto (e quanto concordo!) su quanto siano inutili le critiche alla tv tout court, citando articoli autorevoli quanto ricorrenti sulla decadenza della cultura causata dalla tv (“non sono per niente d’accordo con quelli che considerano la tv come fosse un qualche funesto flagello abbattutosi sul popolino innocente…”). Infatti il problema non è se esistano grossi problemi nel rapporto con la tv, ma come si possano affrontare. E per capire questo occorre capire innanzi tutto quali siano i meccanismi che ci portano a passare ore a guardare i nostri mobili, come acutamente ci fa notare, sentendoci in qualche modo degli pseudo-voyeur, per così tanto tempo. Quando guardiamo la tv, arriviamo infatti inconsapevolmente ad ignorare ben sei livelli di illusione, che cerco di riportare, semplificando molto: 1) ci illudiamo di spiare le persone, ma le persone che sono in tv sanno di essere guardate, 2) pensiamo di “rubare” le immagini, ma queste ci vengono offerte proprio come le vediamo, 3) pensiamo di guardare la realtà, ma ogni cosa ci viene offerta comunque inscritta in una “storia”, 4) quelli che vediamo e fruiamo come personaggi sono ovviamente invece attori, 5) percepiamo immagini ma ciò che colpisce il nostro occhio alla fine sono segnali, 6) alla fine, quello facciamo davvero è “guardare i nostri mobili”. E questo perché la tv è, in effetti, divertente. Eppure tutti la troviamo stupida, la odiamo. Quello su cui ci dobbiamo interrogare è: perché ci siamo così immersi se la odiamo? E cosa implica essere immersi in qualcosa che si odia? “La televisione è ciò che è per il semplice motivo che la gente tende ad assomigliarsi terribilmente proprio nei suoi interessi volgari, morbosi e stupidi, e a essere estremamente diversa per quanto riguarda gli interessi raffinati, estetici e nobili. Non si tratta che di una sincretica diversità: non si può dare la colpa della bassa qualità nè al mezzo nè al Pubblico.” E tuttavia DFW non ci deresponsabilizza, su questo, ma ci mostra come in realtà fare a lungo qualcosa che non ci fa bene (e sei ore al giorno non fanno bene) sia di fatto subire una dipendenza, proprio come quella che possiamo avere sviluppato (o che rischiamo di sviluppare) per i liquori o per il cibo che ci faccia male, (“Un’attività implica una dipendenza se il rapporto che si ha con essa sta, su quel continuum tendente verso il basso, tra il trovarla un po’ troppo piacevole e l’averne un vero e proprio bisogno”) e come questa dipendenza sia nociva (“una cosa implica una
Ed è solo a questo punto, quando ci ha mostrato la nostra dipendenza, la nostra schizofrenia, il nostro acquisito addestramento alla spettorialità, l’impossibilità di ironizzare sulla tv, prima e migliore critica di se stessa, che DFW inizia a parlarci di letteratura. Perché se il saggio cerca di rispondere alla domanda “perché guardiamo la tv?”, in realtà cerca anche di rispondere alla domanda “come e quanto la letteratura moderna è influenzata dalla tv”?
Vi assicuro che ad entrambe le domande risponde esaurientemente. Questa seconda parte del saggio è un’analisi lucidissima della cultura pop dagli anni ’60 ad oggi (l’oggi di cui scrive, purtroppo), dell’evoluzione della letteratura americana attraverso praticamente tutti gli autori del periodo e del rapporto strettissimo che le lega. Ne risulta un arazzo entusiasmante che con grande naturalezza passa da De Lillo alla pubblicità della Pepsi, da Twin Peaks a Pynchon, per portarci a vedere con occhi nuovi la storia della nostra cultura. E infine lancia una sfida ai giovani scrittori: indica una via e ci esorta a percorrerla. L’unico grande rimpianto è che ci abbia lasciato soli.
DB
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26 gennaio 2012
Concordo in pieno, complimenti per la recensione.
27 gennaio 2012
Degna (e appassionata) recensione di un grande (e appassionante) libro.
18 febbraio 2012
Messo nella lista dei prossimi acquisti.