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Il Re Pallido – David Foster Wallace

Recensione di Raffaella Foresti

Aprile 2011: The Pale King, il romanzo postumo di David Foster Wallace viene pubblicato negli Stati Uniti. Dopo pochi giorni l’annuncio: verrà tradotto e pubblicato anche in Italia. Per Einaudi, forse a Novembre.

Inizia l’attesa. Lo leggo in inglese. Conosco la lingua ma sono  umile, e continuo ad aspettare. Arriva settembre, e le foglie cominciano a cadere. Minimum Fax pubblica la trascrizione di un’intervista di David Lipsky a DFW. La compro, la leggo, mantengo un contatto. Arriva ottobre: il caldo fuori norma, le scarse precipitazioni e l’attacco del cinipide stroncano la raccolta delle castagne, per lo meno nel Nord Italia. Cresce l’apprensione, nemmeno mitigata dal piacere di una caldarrosta. Faccio un salto in libreria. Mi rassicurano. Me lo terranno da parte. Appena arriva chiameranno, o manderanno un’ e-mail, o faranno entrambe le cose, che è meglio.

Novembre. Non ho mai desiderato tanto l’arrivo di questo triste mese. Anche Il Re Pallido è arrivato. Felice me lo porto a casa. Nella borsa sento il peso di tutte le sue settecento e più pagine, un carico che mi porterò appresso per oltre un mese.

Ora che ce l’ho davanti, la gioia cede il passo alla paura. E se mi deludesse? E se al posto di Wallace ci trovassi la mano pesante del suo curatore Michael Pietsch? Generalmente non guardo la prefazione di un libro prima di leggerlo, ma qui il caso è particolare e devo fare un’eccezione. Le note iniziali mi sembrano oneste, e un poco rassicuranti. Pare che il lavoro di editing sia stato “minimo”, e che l’opera originale verrà comunque messa a disposizione del pubblico presso l’Harry Ransom Center dell’Università del Texas. Mantengo delle riserve, ma decido di fidarmi. Se non altro perché questo Michael Pietsch dimostra, in tutti i casi, di aver compreso il problema di fondo. Come lui stesso scrive, in conclusione alla sua breve nota introduttiva: “un romanzo incompiuto è tutto ciò che abbiamo, e come si fa a distogliere lo sguardo? David, purtroppo, non è qui ad impedirci di leggerlo, o a perdonarci il desiderio di farlo”.

E dunque un bel respiro, si comincia.

Voglio subito rassicurare tutti su un fatto: in questo libro c’è davvero David Foster Wallace. É proprio lui. Il suo stile, la sua ironia, la sua sensibilità per “i fatti umani”. Personalmente non nutro più alcun dubbio a riguardo (poiché, tuttavia, amo la verità un poco di più delle illusioni, che pure amo moltissimo, se la vostra impressione è stata diversa scrivetemelo pure. Solo, vi raccomando di usare un po’ di tatto).

Il “fatto umano” che Wallace racconta (descrive, studia e analizza)  lo saprete orami in molti, è la noia. E lo fa attraverso la vita, i pensieri e “certe situazioni” di un gruppo di funzionari dell’IRS, la Nuova Agenzia delle Entrate statunitense (“Fatto: i dolori per il parto della Nuova Agenzia delle Entrate un hanno portato ad una delle più grandi e terribili scoperte nel campo delle relazioni pubbliche della moderna democrazia, vale a dire che se le questioni di governo vengono rese sufficientemente noiose e arcane, i funzionari non avranno bisogno di nascondere o dissimulare, perché nessuno che non sia direttamente coinvolto presterà sufficiente attenzione da creare problemi”).

Dunque la noia. Ciò che per Wallace è veramente interessante è: perché ci sottraiamo alla noia? “Forse perché la noia è intrinsecamente dolorosa; forse da qui traggono origine espressioni come “noia mortale” o “noia straziante”. Ma potrebbe non essere tutto. Forse la noia è associata al dolore psichico perché una cosa noiosa o nebulosa non fornisce abbastanza stimoli capaci di distrarre da un altro tipo di dolore più profondo che è sempre lì, sia pure in secondo piano, e la maggior  parte di noi (nota: consapevolmente o meno) impiega quasi tutto il tempo e le sue energie per distrarsi e non sentirlo, o almeno non sentirlo direttamente o con la piena attenzione. Devo ammettere che il tutto è un po’ confusionario e che è difficile parlarne in astratto… ma di sicuro dev’esserci qualcosa dietro non solo la musichetta nei posto noiosi e monotoni ma addirittura la Tv nelle sale d’attesa, alle casse dei supermercati, ai gate degli aeroporti, tra i sedili posteriori dei SUV. Walkman, iPod, Blackbarry, cellulari che si attaccano alla testa. Questo terrore del silenzio senza poter far niente che distragga…”.

In questo mare di noia vagano, lavorano e interagiscono una serie di personaggi.

Il primo in ordine di apparizione è Claude Sylvanshine, il “veggente dei fatti” o “mistico dei dati” che dir si voglia, insomma quello affetto da Ifc – Intuizione di Fatti a Caso… avete presente no? Beh, la patologia di Sylvanshine è piuttosto particolare, e consiste nel fatto di avere improvvise intuizioni chiaroveggenti su circostanze di nessuna importanza. Fatti che nessuno conosce ma che nemmeno si prenderebbe la briga di conoscere pur avendone l’occasione, come il secondo nome dell’amico d’infanzia di uno sconosciuto incontrato in un corridoio, o la quantità di carne rossa non digerita nel colon di un uomo di quarantatre anni residente a Gand in Belgio espressa in grammi.

C’è poi un bambino. Forse il personaggio più grottesco. É quello che ogni mattina si mette la bandoliera arancio sgargiante a tracolla e fa attraversare gli allievi delle classi inferiori sulle strisce pedonali ma solo dopo aver distribuito la “colazione al carrello” all’Istituto dei poveri del centro città, e che a scuola alza educatamente la mano ad ogni domanda ma solo se è sicuro di conoscere oltre alla risposta esatta anche la formulazione della risposta che la maestra auspica e che contribuirà a far progredire la discussione dell’argomento complessivo affrontato quel giorno in classe, e che per il ritorno a casa della mamma, finita in ospedale per un brutto “incidente” con il forno, lavora ad un imponente spiegamento di festoni che progetta di attaccare con cura davanti a casa servendosi di colla idrosolubile e della scala allungabile che c’è in garage sotto la supervisione di un vicino adulto e responsabile che la regga… Un bambino che ritroverete adulto trecento pagine più avanti, ma il cui racconto d’infanzia, contenuto al paragrafo 5, può ben esser considerato, da solo, un racconto geniale.

Ce ne sono tanti altri. Uno dopo l’altro (cioè, in senso postmoderno, prima uno, che però settanta pagine dopo è ancora un’adolescente… poi l’altro, che sta facendo il viaggio in autobus insieme all’alter ego dello scrittore… insomma, ci vuole un po’ di agilità mentale) incontrerete tutti i “bulicanti”, gli impiegati della Nuova Agenzia delle Entrate. Lane A. Dean Jr, David Cusk, il Signor Glendenning, Lotwis e Toni Ware, Chris “per la tangente” Fogle, ben due David Wallace ed infine Garrity e Blumquist, due spiriti effettivi (da non confondere con i fantasmi, che sono ben diversi) che infestano la stanza dei brulicanti alla Sede 047. “Dei due spiriti nella stanza dei brulicanti Garrity è quello che scambi più facilmente per un fantasma perché essendo uno che ti distrae con le sue chiacchiere viene spesso preso dai brulicanti che si sforzano di mantenere la concentrazione per la scimmia logorroica del lato oscuro e autodistruttivo della loro personalità. Blumquist è diverso. Quando Blumquist si manifesta nell’aria vicino a un liquidatore si limita a stare lì seduto con te. In silenzio, senza muoversi. I brulicanti lo considerano socievole. Ma nessuno gli rivolge mai la parola”…

Non voglio dirvi di più. Quelle che precedono sono considerazioni, commenti e sensazioni nati durante e maturati dopo la lettura del libro. Che spero vi abbiano fatto venire la voglia di leggerlo. Una vera e propria recensione, questo no. Non chiedetemelo. É troppo difficile.

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Author: Raffaella Foresti

“Il cane odiava quella catena. Ma aveva una sua dignità. Quello che faceva era non tendere mai la catena del tutto. Non si allontanava mai nemmeno quel tanto da sentire che tirava. Nemmeno se arrivava il postino, o un rappresentante. Per dignità, il cane fingeva di aver scelto di stare entro quello spazio che guarda caso rientrava nella lunghezza della catena. Niente al di fuori di quello spazio lo interessava. Interesse zero. Perciò non si accorgeva mai della catena. Non la odiava. La catena. L'aveva privata della sua importanza. Forse non fingeva, forse aveva davvero scelto di restringere il suo mondo a quel piccolo cerchio. Aveva un potere tutto suo. Una vita intera legato a quella catena. Quanto volevo bene a quel maledetto cane “

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2 Comments

  1. Concordo con te: è un libro difficilissimo da recensire. Chi lo ha letto per amore di DFW ha cercato comunque di goderselo come l’ultimo dono di un Autore del quale non leggeremo più nulla di nuovo. Nel Re Pallido troviamo comunque la stessa straziante umanità di tutta la produzione precedente, quella umanità che DFW sapeva assorbire in tutte le sue fibre al punto tale che alla fine ne è rimasto distrutto. A me però sembra un po’ troppo ovvio e limitativo dire che è un libro sulla noia. È un libro, un altro, sul vuoto, sulla miopia dell’uomo, se non sulla sua cecità. Un libro su come siamo costretti a essere dal fatto puro e semplice di essere uomini, un peccato originale che non può smettere di produrre le sue conseguenze in ogni epoca e in ogni contesto. La società di oggi, ma forse solo perché è quella che possiamo osservare più da vicino, si presta in modo particolare perché è un contesto in cui la maggior parte delle pulsioni e dei desideri vengono accontentati con troppa facilità, in automatico, e senza bisogno di investire né consapevolezza né passione.
    Grazie per questa settimana di full immersion, è stato un regalo pieno di stimolanti ispirazioni.

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  2. Ho letto il Re Pallido qualche mese fa, poco dopo il Pynchon di V., poco prima delle Correzioni di Frenzen. A prescindere dalle pippe mentali che possiamo farci su quanto sia opera di Wallace o in che percentuale ci sia la mano del curatore, esprimo il mio parere. La trama è semplice, una volta entrati nella mente dello scrittore. La noia, il suo alito deprimente, la sua ingombrante onnipresenza, parla, si muove e pensa attraverso alcuni personaggi incredibili e viene sviscerata in tutte le sue forme. Il rammarico è di non poter vedere ognuno dei protagonisti che scorrono tra le pagine del Re Pallido in un romanzo a se stante, potrebbero reggerlo senza difficoltà. Peccato assoporarli a piccole dosi, soggetti del vortice di una mente illustre come quella dello scrittore. Per quello che mi riguarda, dopo aver letto centinaia di romanzi di autori illustri, mi esalto nell’immergermi nella scrittura sismica e meandrica di Wallace. Ringrazio per chi ha portato alla luce quest’opera incompiuta. E’ Wallace, è la sua potenza, la sua creatività, il suo occhio clinico e cinico, il suo magnifico eloquio. Sono in fase di lettura di La ragazza dai capelli strani, Oblio e L’aragosta di cui dico soltanto che raggiungono vette più alte, ma il Re Pallido è un valido contributo alla letteratura postmoderna.

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