un racconto di Emanuele Mannocci
Che fare?
Mio padre non mi faceva mai uscire di casa, vedevo il mondo solo dalla finestra, chiusa. Se andava a cercar funghi non mi portava con sé, non sapevo distinguere i funghi commestibili da quelli atomici.
Non potevo camminare per strada, mi avrebbero stuprata, rapita, rapinata, tramutata in prostituta, e per finire, murata mista al cemento di un nuovo centro commerciale. Non potevo prendere il treno perché ad ogni curva deragliava, aerei cadevano contro palazzi, navi venivano attaccate da iceberg suicidi. Non ero sicura nemmeno nello spazio. Branchi di lupi seguivano pianeti per sbranarli, guerrieri terribili massacravano chiunque si avvicinasse al loro pianeta-dio. Né andavo a trovare la nonna, mi avrebbe mangiato.
Che fare?
Come diceva sempre mamma: zingare mi avrebbero dato il malocchio, amici il malumore, musiche il mal d’orecchi. Pirati della strada mi avrebbero schiacciata, pirati somali mi avrebbero rapita e violentata, in gruppo. Non potevo navigare su internet, pirati informatici mi avrebbero rubato l’identità dopo avermi abbordata e violentata via cyber sex.
Pure mio padre mi parlava di rado, e quando era in casa ero confinata in camera. Ovvio, anche i padri picchiano le figlie, le ingravidano costringendole ad abortire.
Per di più se fossi uscita in giardino un gigantesco drago era pronto a mangiarmi, ma io, a differenza delle fiabe, non potevo sperare nel principe azzurro, mi avrebbe tradita, fatta soffrire, scappando con una principessa più addormentata di me.
Che fare?
Le mele sono avvelenate, il mascarpone ha il botulino. A scuola orde di bulli mi avrebbero picchiata, un maestro personale sarebbe stato sicuramente pedofilo. Non potevo aprire la porta senza esser derubata dell’anima in cambio di enciclopedie o religioni esotiche. Non potevo rispondere al telefono, rischiavo di essere truffata dalle compagnie telefoniche.
Basta!
Stanca di questa vita decido di suicidarmi, ma non da sola, basterà uscire di casa per esser morta stecchita in pochi secondi.
Uscirò dalla finestra, attraverserò il giardino e camminerò nella via. Decine di persone terrorizzate scapperanno urlanti alla mia vista. “Non derubarmi della pensione!” urlerà una vecchia “Non uccidermi ho tre figli!” urlerà una signora. “Non voglio uscire con te hai l’AIDS!” mi dirà un giovane passante. “Argh!” qualcuno. “Aiuto!” qualcun altro.
Basta!
Mi rifugerò in un bar. Non mi serviranno da bere per paura di non esser pagati, non mi permetteranno di andare in bagno, non sia mai che mi infili una siringa in vena e collassi sul pavimento.
Non potrò entrare al museo civico, staccherei a morsi l’orecchio d’una statua. Taxi non si fermeranno. Autobus si fermeranno a porte chiuse, diranno che non ho il biglietto. Finché cammina cammina, tra urla di panico e terrore, stanca mi siederò su una panchina vuota.
“Mani in alto signorina!” Sconcertata chiederò all’agente di polizia cosa stia facendo di male.
“Sta fissando il ristorante dall’altra parte della strada pianificando un attacco terroristico contro di esso.”
Finirò in una cella d’isolamento di un carcere di massima sicurezza, senza finestre.
Che fare?
Ripensandoci resto in camera.
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11 gennaio 2012
Molto carino! Mi sembra una buona descrizione ironica della paranoia!
12 gennaio 2012
Grazie Elisa!
È si ironica, ma fin troppo realistica.
12 gennaio 2012
Letto il racconto osservo il dipinto che lo accompagna. “Polis”. La parola mi suscita dolci ricordi di liceo. Penso: quei grattacieli sembrano tante acropoli, puntate verso non si sa quale cielo. Dell’agorà, più nessuna traccia. Anna
12 gennaio 2012
Ciao Anna, concordo.
Le agorà oggi sono teatri di posa televisivi e server condivisi.
Nella città non c’è posto che per la città stessa.