Dai racconti di Marco La Terra
Il cadavere giace contorto all’interno dell’abitacolo in una postura innaturale, articolata.
Il contesto da cui vi parlo è strano, paradossale, surreale come le natiche di Gala mentre osserva il mare affacciata alla finestra, con la chioma al vento e la gamba destra pigramente flessa. Ma qui non si parla di una donna ardente di passione, e per questo desiderabile oltre ogni dire: la donna di cui parlo nessuno la conosce e tutti la pensano, nell’attesa.
Un’attesa breve o lunga, piacevole o tormentata, ma dall’epilogo scontato: questa donna non dice mai di no, accoglie tutti, indistintamente, uomini, donne, animali. Lavora notte e giorno, rigorosamente a domicilio, offrendo prestazioni assai varie e fantasiose, su cui il cliente non ha facoltà di scelta.
Nemmeno sulle modalità di pagamento vi è possibilità di trattativa alcuna: la moneta di scambio è la vita.
Diciamocelo chiaro: una sorta di contratto imposto, dove la controparte è una puttana a tutto tondo. Ragionando con la logica giuridica dell’essere umano, una causa vinta in partenza.
Ma così non è, purtroppo.
L’Uomo nasce da un semplice atto d’amore, si estingue assorbito dalle cosce insaziabili di un essere onnipresente, implacabile, definitivo. Non importa se ha già inglobato un vecchio incartapecorito, un bambino in fasce o il tuo cane: prima o poi si prenderà anche te, me, tutti.
È inutile fare dei falsi moralismi: prima o poi andremo tutti a puttane, lo si voglia o no.
La storia che quest’oggi vi racconto non è mai successa, o forse accade tutti i giorni, ed il protagonista può essere chiunque, anche tu, che speri di morire novantenne attorniato da nipoti, bisnipoti, gli amici più fidati ancora vivi, il tuo gatto di sessantacinque anni teneramente acciambellato sul tuo grembo, magari con il conforto dei tuoi genitori, allegri ragazzotti di centoventi anni, più o meno.
Perché la paura della Morte è così: conduce ad un livello di terrore tale da rendere plausibili anche situazioni contro natura, all’evidenza.
Non abbiate paura, vi dico. State tranquilli. Non vi è cosa più naturale, pacifica e rilassante della Morte, credete a me. Siate sereni. Se preferite, datevi una toccatina ai testicoli, signori uomini, o una strizzatina ai capezzoli, signore donne, o una palpatina a non so dove, miei teneri animali: finché sarete qui, al mio fianco, non vi accadrà nulla, e ascolterete in assoluta tranquillità la mia storiella, banale e scontata. Adatta per chiunque, ad esempio per te che mi stai leggendo, con la barba brizzolata, la pelle pallida, il ventre gonfio, ed un piede già evidentemente nella fossa (ma non per colpa mia!) o per quel bel bambino appena affacciatosi all’alba della vita, roseo, paffuto, sorridente, inconsapevole degli innumerevoli casini che lo attendono non appena giungerà all’età della ragione (in certi casi, purtroppo, anche prima).
Una storiella banale e scontata, ma con una morale di fondo: se è vostra intenzione andare a puttane provando almeno un po’ di piacere, allacciate le cinture.
Sono in ritardo pazzesco! Non arriverò mai per tempo! Cazzo!
Allora ricapitoliamo: chiavetta USB per le slides di presentazione, telecomando del garage, chiavi di casa e della macchina, auricolari del blackberry NO! (tanto a che cavolo servono???), accendino e sigarette (la fumatina in macchina ci sta), biscotti da sgranocchiare mentre guido (tanto al volante riesco a fare un sacco di altre cose). Il nodo alla cravatta non mi piace, ma è troppo tardi per rifare tutto daccapo: magari in autostrada, mentre non c’è nessuno… eh eh eh! Un’allentatina di qua, un’aggiustatina di là e scommetto che riesco a sistemare pure quello.
Certo che potevo ricordarmi di lucidare le scarpe, almeno. Guarda lì che brutta macchia, proprio sulla punta, a sinistra! Che schifo, sembra uno schizzo di sperma! Vabbè! Mentre guido col piede sull’acceleratore, lungo il rettilineo, posso provare a sputarci sopra e poi strofinare la punta del mio piede sinistro contro il polpaccio destro: ora che arrivo dal cliente, il bagnato sul pantalone si sarà bello che asciugato.. Sono un genio! Arrivato al garage finalmente. Dai apriti! Su un po’ di grinta!
Ecco sono in macchina, sistemiamo specchietti, sedile, chiudiamo il garage… bbzzzzzz… diamine quanto ci mette! Blackberry tra le gambe così se vibra non posso non sentirlo, e se vibra giusto lì in mezzo, tra l’altro… eh eh eh! Sigaretta accesa mentre faccio manovra, cintura di sicur… NO! Tanto devo arrivare a Rovereto, trenta chilometri massimo. Cosa vuoi che mi succeda?
Accendiamo, partiamo e… nooooo! La spia della riserva è accesa! Ma che palle! Vabbè muoviamoci, al ritorno farò il pieno, adesso è troppo tardi!
Nello stesso istante, il quarantenne signor Kruger, di professione camionista, sta percorrendo l’autostrada del Brennero, direzione Verona, per consegnare la solita partita settimanale di latticini: tragitto da Hallein (Austria) a Verona, quattrocentoventi chilometri di strade vuote, lisce, deserte e monotone.
Come ogni settimana, Kruger si è alzato poco dopo la mezzanotte, ha bevuto la sua tazza gigante di caffè nero e bollente e fumato la prima Marlboro della giornata. Mentre siede nella squallida cucina, quest’oggi come tante altre volte in passato, si chiede cosa possa aver fatto di così terribile nella sua vita precedente per meritarsi un mestiere così infame come quello di camionista.
Come ogni settimana, Kruger si è lavato in maniera rapida e superficiale, ancora sconvolto per essere stato strappato da un sonno tiepido e avvolgente, totale, intenso. Si guarda allo specchio e ciò che vede non gli piace: viso paonazzo e mal rasato, abituato a miriadi di notti insonni, lattine di birra e puttane di bassa leva. Rughe intense e marcate, che abbruttiscono un volto già sgraziato di suo, prematuramente invecchiato: sotto gli occhi, gonfi, rossastri e vuoti, due borse testimoniano il fallimento esistenziale del camionista, che indossa svogliato una camicia di flanella, a scacchi rossi e neri, un paio di jeans logori e sformati, scarponi a collo alto e giacca di pelle. Con andatura malferma e sofferente, Kruger trasporta la sua enorme mole sulla cabina del camion, si gratta le palle, sputa nell’abitacolo, accende la seconda Marlboro della giornata, bestemmia e mette in moto.
Come ogni settimana, Kruger fa una piccola deviazione, e dopo centocinquanta chilometri si ferma in una piazzola, dove l’attende Krizia, una prostituta altoatesina trasferitasi in Austria da qualche anno, con la quale Kruger consuma un orgasmo rapido e silenzioso. Impersonale. Vuoto.
Dopo aver pagato alla donna i soliti cinquanta euro, ed averla frettolosamente salutata con un cenno del capo, Kruger si rimette in viaggio senza nemmeno pulirsi il membro, alzarsi le mutande e chiudersi i pantaloni. Riparte spinto dall’inerzia, e procede come un automa sino al confine italiano, in prossimità del quale si ricompone alla bell’e meglio. Verso le cinque e mezza del mattino compie un’altra sosta, questa volta in un Autogrill.
Kruger scende dal TIR ed entra a bere un caffè, infastidito dalle luci multicolori che rallegrano la vetrina. È Natale per tutti ma non per me, pensa l’uomo. Irritato, emette un grugnito di rabbia e rilascia un peto sommesso a testimonianza del suo disprezzo per lo spirito natalizio e ordina il caffè. Mentre aspetta, l’occhio gli cade svogliato sui quotidiani e si avvia per sfogliarne qualcuno ma, percorsi pochi passi, si arresta e torna al suo caffè.
Non gliene frega un cazzo di ciò che succede in giro, dopo tutto.
Esce dall’Autogrill, protende le braccia verso il cielo per distendere la colonna vertebrale, provata da tre ore di guida ininterrotta, si gratta il culo e, già che c’è, dà una sistematina alle mutande che tendono ad insinuarglisi nel sedere. Accende una sigaretta, bestemmia tra sé e fuma. In un sordo ed ostinato silenzio.
Mentre la Marlboro si consuma, Kruger pensa che forse dovrebbe darci un taglio con le puttane, la birra e il cibo, almeno per un po’, e rivolgersi a qualcuno che lo aiuti. Ha quarant’anni alla fin fine, non settanta. Ha tutto il tempo per mettere il suo grasso culo in carreggiata e dare una svolta alla sua vita. Ma proprio quando, dentro di sé, cerca di rafforzare questi propositi costruttivi, capisce in maniera chiara ed evidente di non averne nessuna voglia, di sbattersi e migliorarsi.
Troppa fatica, pensa. E sono troppo stanco per queste cose. Ormai la situazione è questa, tanto vale prendersi il meglio, se esiste.
Ammutolito dal suo stesso silenzio risale sul TIR, annoiato e avvilito, mette in moto, allunga la mano verso una lattina di birra. Kschh! Ne apre una e ne prende un lungo sorso. Senza fiato.
Riparte.
Smarrito in questi pensieri inutili e improduttivi, dimentica di allacciarsi la cintura. Pazienza, pensa l’uomo. Tanto guido un TIR: nella peggiore delle ipotesi, non sarò certo io a farmi male. E se anche fosse, tanto meglio.
L’autovettura procede a velocità molto elevata.
Sono in Vitavdo! Vitavdo! Vitavdo! Mmmghhh!!! Non ce la favò mai!!! Cough! Cough! Cough!
Così parla ad alta voce il guidatore folle, con la mano sinistra sul volante, una sigaretta accesa nella destra e la bocca piena di biscotti: non ha coscienza di quanto sta per accadergli, e procede a centosessanta all’ora lungo l’autostrada del Brennero, direzione Verona. Un’umida giornata di pioggia si affaccia all’alba del suo ultimo giorno di vita, accogliendolo con fitte gocce a percuotere il parabrezza, e l’asfalto bagnato che imporrebbe molta più attenzione.
Il casello di Rovereto Nord dista poco ormai, ma un TIR bianco e rosso, con la scritta “BMO – Brauß Milchprodukte Österreich”, procede lentamente lungo la corsia di destra: l’uomo alla guida dell’auto, spazientito e insofferente, senza pensarci due volte si sposta sulla corsia di sinistra per superarlo, senza accorgersi del lento oscillare del camion, che va spostandosi verso l’esterno della corsia, vinto dal moto inerziale indotto da un colpo di sonno del conducente.
Kruger.
Che dopo aver bevuto tre lattine di birra, inveito contro tutti i santi del paradiso ed piantosi addosso per l’inutilità della propria vita, asseconda il nulla che l’ha sempre circondato lasciandosi semplicemente andare. Così, mentre gli ultimi chilometri passano rapidi, Kruger non riesce a vedere più nulla davanti a sé, procedendo assente e inebetito, mentre un cielo plumbeo si prepara ad annunciare l’imminente catastrofe.
L’uomo alla guida dell’auto non ha il tempo di frenare, quasi non si accorge della fiancata sinistra del camion che, oramai fuori controllo, lo schiaccia contro il guard – rail. Il TIR sbanda, oscilla, ad un certo punto ruota su se stesso ponendosi di traverso, lungo la carreggiata, e la vettura, già straziata, finisce dritta sotto la furgonatura. L’impatto è violentissimo: il parabrezza esplode, cristalli di vetro schizzano disordinati dando sfogo ad un pianto soffocato per lungo tempo. La testa dell’uomo alla guida dell’auto si frantuma contro lo sterzo, aprendosi in due come una noce di cocco: materia cerebrale e sangue inondano il sedile del guidatore e l’abitacolo, sporcano il gessato grigio e la cravatta color cremisi, il cui nodo era stato rifatto da poco.
Peccato: era un gran bel nodo, questa volta.
Kruger perde i sensi, ma non muore. Tutto intorno a lui è un continuo andirivieni di persone, portantini, polizia stradale: suoni, urla, sgommate di ambulanze e cantilenanti sirene, luci azzurre di flebili speranze e casse da morto color argento, dove non vi è più speranza alcuna.
La pioggia domina questo paesaggio desolato, uno come tanti, come possono vedersi tutti i giorni, ovunque, in occasione di qualsiasi incidente stradale.
Abbiamo un morto, questo è fuori discussione, e poi c’è Kruger, che francamente non so dirvi se morirà o se la caverà. Né so dirvi se, salvandosi, cambierà vita, continuerà come se nulla fosse accaduto oppure, schiacciato dai sensi di colpa, porrà fine ai propri giorni vuoti.
Il punto non è Kruger, né il camion, né la pioggia e nemmeno Rovereto Nord.
Il punto è uno solo, come dicevo all’inizio, e vi conviene aprire bene le orecchie, se non volete finire come l’uomo alla guida dell’auto: se è vostra intenzione andare a puttane e provare almeno un po’ di piacere, allacciate la cintura di sicurezza.
Fidatevi di me.
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