Recensione di Ilaria Bonfanti
Oblio è uno di quei libri con la L maiuscola; di quelli che ti rimane l’odore addosso per parecchio tempo. Oblio è una raccolta di otto racconti o, per essere più precisi, di otto romanzi brevi inseriti in un’unica struttura che porta il nome di “realtà postmoderna”.
In Oblio si passa dalle angosciose merendine al cioccolato di Mister Squishy al viaggio di Skip Atwate nell’Indiana, un viaggio molto particolare, arricchito da divagazioni su un ipotetico nuovo canale televisivo: “il canale del dolore”. Nel mezzo, una serie di storie che ci mettono alla prova sia come lettori che come uomini, nella piena consapevolezza che, nelle pagine di Wallace, non ci sia un possibile terribile futuro ma, piuttosto, un presente disarmante.
I vari esperti di marketing alla Terry Schmidt, così come i quadretti da famiglia ricco borghese descritti in Oblio (che dà poi il titolo alla raccolta) non sono di certo proiezioni lontane di un futuro alla “Star Wars” ma, pendolari che ci accompagnano tra una fermata e l’altra di un treno regionale.
David Foster Wallace ci parla di lifting e botulino, di “arrampicatori urbani”, di psicanalisi e di merda, non quella in barattoli alla Manzoni ma, pur sempre di merda artistica. Ci parla quindi del nostro mondo di oggi: una Napoli dall’imprescindibile puzza dell’immondizia, dove si faticano a scovare i fasti di un centro storico al sapore di margherite fumanti.
Il reiterato “UCCIDI” in “L’anima non è una fucina” ci obbliga a fermarci prima di cominciare il racconto successivo, a osservare (non limitandoci solo a guardare e basta) fuori dalla finestra, con una lucidità diversa dal solito.
Osservare, appunto, con luci diverse. Le luci al neon illuminano il monologo interiore di un giovane suicida alle prese con la consapevolezza di essere un impostore; tutto questo si scontra o forse sarebbe meglio dire si accompagna, alla terribile morte di un bambino bruciatosi con una pentola messa a bollire in cucina.
Le informazioni tecniche, le parole usate e riusate con precisione quasi meticolosa non fanno altro che caricare d’inquietudine racconti in grado di spiazzarci nella loro aderenza alla realtà. Wallace indaga la verità di ogni piccola mania, fa sedere sull’autobus un detenuto appassionato di ragni e sua madre: donna i cui interventi di chirurgia estetica hanno reso “una maschera indelebile di folle terrore”.
David Foster Wallace è un signore scrittore, di quelli che fatichi a collocare in un mondo dove le parole raramente sono ancora in grado di disegnare così bene gli scenari quotidiani e non. Fino a qui, niente di nuovo, soprattutto per chi è un veterano dei suoi testi. L’aspetto che ho trovato sensazionale in Wallace è la fiducia che ha nelle capacità dei suoi lettori; lui che di fiducia parla poco o, per meglio dire, ne parla da vero cinico postmoderno. Ecco, proprio lui, capace di scrivere 393 pagine sul marcio di questa società, con un gesto leggero ci porta al suo stesso livello, non ci fa sconti e nemmeno per un attimo ci consente di non capire. Oblio è difficile e va riletto in molti passaggi; Oblio non lo si può leggere mentre si fa altro; Oblio è (consentitemi) “tosto” proprio come i suoi lettori.
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29 gennaio 2012
Ottima analisi, apprezzatissima anche perché mi conferma certe impressioni del tutto personali ricavate dalla lettura di questo libro e un po’ di tutta la produzione di DFW. È un piacere trovare queste recensioni ogni mattina; peccato solo che stiano per finire. Grazie.
1 febbraio 2012
Ciao Melusina, sono felice di trovarti qui. Grazie per l’apprezzamento e per i commenti. Le opere sono limitate, aihmè, ma il nostro lavoro con DFW non finisce certo con queste recensioni (l’ultima è la mia su Il Re Pallido, spero ti susciti la voglia di leggerlo!). Continueremo a studiarlo ed approfondirlo, perchè siamo convinti che se c’è qualcuno che abbia capito qualcosa di questo assurdo mondo che abbiamo ereditato, questo qualcuno si trovi proprio qui, nella cosiddetta letteratura postmoderna. Prossimamente ci sarà anche uno speciale su Pynchon che, considerato il vostro rapporto “conflittuale” (!), spero non ti perderai! Ciao, Raffaella
29 gennaio 2012
Molto bella questa recensione. Scorrevole, piacevole e al contempo incisiva. Comprerò di certo il libro.
21 febbraio 2012
Gran libro, e bella recensione (a parte “una Napoli dall’imprescindibile puzza dell’immondizia, dove si faticano a scovare i fasti di un centro storico al sapore di margherite fumanti”)
ps Crapulaclub è passato su wordpress
saluti
9 giugno 2012
Queste poche parole sono rivolte solo a chi definisce DFW postmoderno. Se diamo uno sguardo alla famosa intervista rilasciata dal Nostro a Larry McCaffery (la trovate su Internet), non può sfuggirci ciò che lui (sempre DFW) dice, e cioè che “ogni volta che lo si definisce postmoderno gli viene voglia di correre al bagno”. E poi spiega con molta chiarezza perché si considera un patricida (di Pynchon & Co.)C’è davvero materia per parlarne
Personalmente trovo che la grandezza di DFW sia indiscutibile, così come lo è quella dei suoi padri postmodernisti. Lui, però, aveva quel suo modo, davvero unico, di fare dell’ambiguità un’eccellenza della scrittura.
9 giugno 2012
Commento interessante Enrico… prescindendo dalle intenzioni dell’autore, in cosa, tu personalmente, ritieni che Wallace non sia postmoderno?
10 giugno 2012
Grazie GMF. No, non intendevo dire che DFW non è postmoderno (che non è uno stile né una poetica, ricordiamocelo), ma facevo semplicemente riferimento all’intervista rilasciata a Larry McCaffery (il 20/04/2007?)dove lui sosteneva che negli Anni 50 e 60 la ferrea ironia e lo scetticismo della società U.S.A. richiedevano un’idonea interpretazione dai primi postmoderni (da lui comunque considerati grandi artisti), ma dei quali ci considera patricida forse perché risente della cosiddetta “ansia dell’infuuenza”(concetto su cui si è intrattenuto molto il ‘marmoreo’ Harold Bloom – la difinizione è di Filippo La Porta – ). Ciò che, diversamante dai padri, ci fa ritenere DFW più dolorosamente impegnato è il suo sforzo di ricercere il modo in cui gli esseri umani possano ancora avere la capacità di gioire, avere carità, legami genuini tra loro.
Ma chissà quando finiremo di studiare DFW.
Saluti
14 giugno 2012
Mi accorgo di non essermi spiegato bene a causa di un’affrettata traduzione dall’inglese della citata intervista. Secondo DFW è stata l’ipocrisia della societa Americana degli Anni 50 e 60 a orientare i primi postmodernisti verso una narrazione fortemente carica di ironia e scetticismo. Il che fa meglio capire come lui, pur appartenendo al “momento” postmoderno, sembre prenderne in qualche maniera le distanze costringendoci con la sua scrittura a riflettere sulla possibilità di trovare nel fondo dell’animo umano le ragioni per una sincera e genuina convivenza.
14 giugno 2012
Mi accorgo di non essermi spiegato bene a causa di un’affrettata traduzione dall’inglese della citata intervista. Secondo DFW è stata l’ipocrisia della societa Americana degli Anni 50 e 60 a orientare i primi postmodernisti verso una narrazione fortemente carica di ironia e scetticismo.