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Storia di un Romanzo di Thomas Wolfe

(a cura di Tiziano Colombi)

Nasce oggi una rubrica nuova dedicata ai libri fuori catalogo. L’idea è nata casualmente, passeggiando con Marco, ma evidentemente da tempo ronzava nelle teste.

È esperienza comune, infatti, aver letto libri che, pur significativi, sono risultati subito, o troppo presto, fuori catalogo, inspiegabilmente, e forse solo per ragioni commerciali (là dove possibile ne daremo conto).
Sono opere di autori molto noti o un po’ dimenticati o addirittura colpiti dall’oblio: Il giglio nella valle di Balzac, Storia di un Romanzo di Thomas Wolfe, Silenzio a Milano di Anna Maria Ortese, I movimenti remoti di Parise, La Santa di Antonio Moresco.
Naturalmente, la rubrica, oltre ad essere stimolo per gli Editori, vuole essere luogo di segnalazione di opere, a giudizio dei lettori, inspiegabilmente scomparse.
Ringraziamo già da ora per il Vostro contributo.

E allora, iniziamo subito con Storia di un romanzo di Thomas Wolfe, edito in Italia nel 1997 da Fazi (traduzione di Igina Tattoni) e segnalato da Antonio Moresco, durante una bellissima lezione di scrittura.
The story of a Novel, si legge rapidamente, grazie alla brevità del testo che si presenta, nelle sue poco più di novanta pagine, sotto forma di saggio.  Il libro ha il pregio di stupire e lasciare una profonda impressione nel lettore, fin dall’epitome: Una parola non è la stessa per ogni scrittore, perché c’è chi la strappa dalla sue viscere e chi la estrae dal taschino della giacca; il libro, dicevo, suscita fortissimo eroico eccitamento inziale, per poi lasciare una sensazione di profondo turbamento (almeno, questa l’impressione che ne ha ricavato il sottoscritto).
Thomas Wolfe, geniale, prolifico autore, indicato da Faulkner come maestro e primo tra gli scrittori americani del tempo, prende spunto dalla provocazione di un gruppo di lettori appassionati e di critici che lo avevano interrogato sulle origini del suo primo grande romanzo d’esordio Look homeward, Angel (1929).
Wolfe racconta con grande onestà intellettuale e semplicità, caratteristica di molti autori americani (citiamo per esempio i Diari di Francis Scott Fitzgerald, quelli di Jack London, oppure On writing di Stephen King), la storia di come egli sia diventato uno scrittore e di come questa esperienza abbia segnato la sua esistenza, ben oltre la pubblicazione del suo primo romanzo.

Penso comunque che per uno scrittore sia meglio fare un’esperienza di questo tipo – esplorare in primo luogo, per quanto possibile, le sue risorse, i suoi limiti, possibilità di uomo e di artista, piuttosto che andare a scuola da qualcun altro per imparare a scrivere storie e opere teatrali e cercare di trarre da libri, la linea, la forma, il modello che dovrebbe trovare da solo.

Impressiona e commuove, per questo prima parlavo di iniziale eccitazione e poi di turbamento, la lotta che quest’uomo ha intrapreso nella completa e temeraria solitudine (si ha proprio l’impressione che Wolfe, abbia rifiutato l’appartenenza gregaria a qualunque gruppo umano e, forte delle sue capacità fisiche – Wolfe era un uomo mastodontico di due metri – e intellettuali vertiginose, si sia spinto verso l’irriducibile e ineffabile complessità del mondo).
Il saggio non fornisce indicazioni di metodo o suggerimenti tecnici, lo fa in parte, solo verso la fine, là dove Wolfe descrive la sua ricerca per accumulo: elenchi, almanacchi di personaggi, descrizioni, ricordi etc. (rasentando a tratti la schizofrenia, si sospetterebbe, se non si sentisse un super io capace di dominare quest’accumulo che raggiunge, nei suoi anni più fervidi, circa un milione di parole scritte).

Bene, proverò a darvi alcuni esempi nella speranza che vi aiutino a capire. Non credo che riuscirete a farvene un’idea completa perché si tratta di tre anni di lavoro e di un milione e mezzo, forse, di parole. C’era dentro tutto, da giganteschi, sbalorditivi elenchi di villaggi, città, contee, paesi in cui ero stato a descrizioni minuziosissime, disperatamente evocative del carrello, delle ruote, delle flangie, delle bielle, oltre che del colore, del peso, e della qualità di un vagone di un treno americano.

Wolfe racconta la disperata ricerca di una lingua nuova per descrivere l’America. Il compito di ogni scrittore sarebbe proprio questo: indagare, o almeno iniziare, la strada verso la scoperta di un linguaggio che tenga conto delle peculiarità di una collettività che, nel caso degli Stati Uniti, appare più che mai urgente e carica di aspettative (si pensi alla bellezza di On the road).

Da quel momento penso che il mio impegno sia stato quello di portare a termine l’organizzazione, di scoprire l’articolazione del linguaggio che andavo cercando e di arrivare a quella struttura armoniosa e definitiva.

Perché si resta turbati? Perché Wolfe riesce a trasmettere, pur nelle poche pagine, alcuni ammaestramenti che ci sentiamo di voler apprendere, al di là della, più o meno fondata, vocazione per la scrittura.
La parte centrale del saggio, racconta della fatica, durata più di quattro anni, di riuscire a delineare i confini di un secondo grande romanzo, The October fair, che avrebbe dovuto rappresentare, nella mente dell’autore, una sorta di Origines varroniane, ricostruzione mitica e mitologica, sconfinante nell’onirico, delle radici dell’America.
Come dice l’autore, il filone intorno al quale si svolgevano le vicende (suddivise in tre piani temporali distinti: il tempo immobile della natura; il tempo passato da cui scaturiscono i comportamenti dei personaggi; il tempo attuale che di quel passato mostra le conseguenze attraverso genealogie di personaggi) era e si riconfermava la ricerca del padre, e non solo quello biologico, ma quello archetipico, mitico, appunto.

Ho già detto che tutti i lavori seri debbono avere una base autobiografica e che un uomo debba servirsi del materiale e dell’esperienza della sua vita e della sua memoria in modo troppo crudo e diretto per un’opera d’arte, tanto da arrivare a confondere il limite tra fatto e realtà.

…Egli tende incoscientemente a descrivere un evento così come è effettivamente accaduto – e, da un punto di vista artistico, ora so che questo è sbagliato.

…Capii per la prima volta che l’artista non solo deve vivere, sudare, amare, soffrire e gioire come tutti gli altri, conoscere il dolore e la morte, il pericolo e la povertà, la tristezza e tutti i difficili affanni quotidiani e le ansie che gli altri uomini debbono conoscere; ma deve anche lavorare come loro, anzi ancora di più, deve lavorare e fare come gli altri, mentre la vita va avanti. Sembra un’affermazione semplice e banale ma l’ho imparata a mie spese e in uno dei momenti più duri della mia vita. Non esiste il così detto vuoto artistico, non esiste un tempo in cui l’artista possa lavorare in un’atmosfera piacevole e riposante, libero dall’angosciosa oppressione che gli altri debbono conoscere.
Penso di poter dire di aver scoperto l’America durante questi anni all’estero proprio per il grande desiderio di lei. L’ho trovata perché l’ho lasciata. Il grande risultato di questa scoperta sembra essere direttamente proporzionale alla profondità del mio senso di smarrimento.
Da quel momento penso che il mio impegno sia stato quello di portare a termine l’organizzazione, di scoprire l’articolazione del linguaggio che andavo cercando e di arrivare a quella struttura armoniosa e definitiva.

Il romanzo, quando fu pronto, subì all’atto della pubblicazione un taglio redazionale di quasi il 70% delle pagine. Solo la prima scena, un treno che attraversa il Paese, era costituita da 200.000 parole. In tutto le pagine consegnate all’editore superavano del doppio Guerra e Pace.
Nel saggio, Wolfe rende conto solo delle prime reazioni all’uscita del romanzo. Anni dopo, presa maggiore coscienza del danno subito per opportunità editoriale (o forse, dal punto di vista del redattore, per salvaguardare la salute mentale dell’autore) Wolfe ruppe i rapporti con quell’editore e quel redattore.
Il saggio però non ne dà conto. Si sofferma su alcuni aspetti tecnici, la difficoltà di conciliare piani temporali, la difficoltà di rinunciare a sovrabbondanza di scrittura, moltiplicazione ossessiva di ricordi, dettagli, visioni d’insieme.

Per concludere, ci concediamo un paragone azzardato e non molto rispettoso dal punto di vista filologico, ma probabilmente interessante: a tratti, leggendo il Saggio, viene alla mente, più che Flaubert, o Proust, una sorta di Matrix ante litteram, naturalmente con ben altro nucleo doloroso alle origini. Un tentativo di descrizione fenomenologica e epistemologica del reale che porta allo sdoppiamento, alla ridondanza, infine al Caos, senza la visione consolatoria del mondo delle Idee di Platone.

Non abbiamo notizie di tirature e ristampe del libro che riteniamo preziosissimo, a testimonianza di una vita eroica di un autore caduto nell’oblio.

 

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