una recensione di Marco Arcieri
Primo libro della celeberrima trilogia di Beckett (con Malone Muore e l’Innominabile), pubblicato in Italia da Einaudi, Molloy è un testo strano e a tratti respingente.
Non è un mistero che Beckett lo avesse scritto nel tentativo di liberare la propria scrittura dall’ombra di James Joyce, suo indiscutibile maestro.
In ogni caso, il romanzo è straordinariamente ricco di spunti letterari e quindi la sua difficoltà di lettura è adeguatamente compensata dall’interesse che suscitano molte scelte autoriali.
Prima tra tutte quella di scrivere in francese, e quindi non nella sua lingua madre; per limitare il lessico, forse, e rendere il testo, di per sé sintatticamente complesso e dal contenuto assurdo e scarno, più avvicinabile dal lettore.
Affascinante, inoltre, la natura di narratore inattendibile di Molloy, personaggio in parte autobiografico, che porta con sé molta dell’infanzia di Beckett, del suo rapporto con la madre e della sua educazione.
Un romanzo molto lontano dall’aver raggiunto il successo che avrebbe meritato ma molto ammirato dai Dada e da G. Bataille, al punto da rappresentare una vera svolta nella carriera autoriale di Beckett il cui successo sarebbe stato, invero, soprattutto teatrale (e a torto essendo Samuel Beckett uno dei più importanti autori di prosa del novecento. Prosa che dovrebbe essere promossa dagli editori e dai critici alla lettura di tutti, accantonando per un attimo la fama di drammaturgo che ha lasciato in ombra capolavori assoluti).
La trama del libro è particolare come la sua struttura. Diviso in due parti di pari taglia, il testo si presenta come la storia di una ricerca. Quella dell’agente segreto Moran dell’agenzia di Youdi, che deve trovare Molloy e quella di Molloy stesso che cerca la madre. Il primo ucciderà qualcuno che gli assomiglia e cadrà in disgrazia, costretto a vivere di espedienti per strada. Molloy raggiungerà la casa della madre che nel frattempo è morta.
Un senso di illogico e di immanenza assurda permea ogni frase del racconto che trova la sua struttura materiale nei due rapporti che Molloy e Moran redigono relativamente alla loro avventura.
Un testo enigmatico, Molloy, che ho riletto più volte senza poter dire di aver compreso. Amo pensare che Molloy e Moran, alla fine siano la stessa persona. Che Beckett abbia infuso in questi due personaggi il suo lato irlandese e quello francese.
Come sempre nella prosa di Beckett (di cui consiglio anche le prose scelte sempre edite da Einaudi in un pregevole volumetto tascabile), l’assurdo e l’illogico originano il doppio, lo specchio, l’immagine distorta di sé.
Un doppio che l’autore ha manifestato anche con la propria esistenza, riuscendo a posizionarsi tra i più importanti autori in lingua inglese e francese del secolo.
Non vi sono spiegazioni reali in merito alla ragione per la quale amo questo libro. È così e basta e spero di avervi incuriosito abbastanza perché lo leggiate anche voi. Sarebbe bello parlarne insieme.
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2 comments
ForteMarmo says:
dic 16, 2011
ReplicaE’ bello scoprire opere sconosciute di grandi uomini. In fondo siamo ingabbiati nella cultura scolastica e nei suoi “sintagmi”, sicuri che ci abbia donato tutto in quelle umide sale teatrali di autori in lingua negli anni del liceo.
Mi regalerò questo romanzo per Natale.
Carlo says:
dic 17, 2011
ReplicaIo l’ho letto due volte e penso, con Alvarez, che l’unica preoccupazione di Beckett fosse la scrittura. Voglio dire,magari mi sbaglio ma per me non c’è l’ombra di psicologismi e autoanalisi in Molloy e nemmeno la ricerca di un’identità. Credo che il romanzo sia semplicemente la descrizione del processo di scrittura del romanzo stesso. In questo senso si, Molloy e Moran sono le due anime irlandese e francese