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l’Uomo che Cade – Don Delillo

 recensione di Raffaella Foresti

Di quel giorno, dell’11 settembre 2001, si ricordano molte immagini: il secondo aereo, lievemente inclinato, che impatta la Torre Sud; le persone in strada, incredule e smarrite, coperte di polvere grigia; le Twin Towers che implodono su loro stesse, che esistevano prima e semplicemente, un attimo dopo, non esistono più.

C’è n’è un’altra. Più silenziosa e, probabilmente, meno spettacolare. Macchioline scure cadono dalle Torri, quasi volteggiando precipitano a terra, dilatando quella manciata di secondi che le separano dal suolo in un tempo infinito, senza battito e senza respiro. Sono gli uomini intrappolati degli uffici, che indossano i loro completi da lavoro blu, o grigi, e si lasciano cadere nel vuoto.

É questa l’immagine che Don Delillo sceglie di raccontare.

L’uomo che cade (Falling Man) è un artista solitario che dopo gli attentati si lancia da vari punti della città, appeso ad una corda, a testa in giù, con le braccia tese lungo i fianchi, un ginocchio sollevato. Non è un esibizionista, non annuncia le sue performance. É il simbolo della vertigine e dello smarrimento, dell’abbandonarsi al nulla quando tutto appare ugualmente inutile e inevitabile.

Gli altri (tutti quelli che cadono, come direbbe Samuel Backett) sono Keith Neudecker e Florence Givens, sopravvissuti al crollo della Torre Nord nella quale lavoravano; sono Lianne, moglie divorziata di Keith, che si impegna perché persone malate di Alzheimer non perdano i loro ricordi, e Justin, il loro bambino, che in un suo gioco segreto scruta il cielo a caccia di aerei che minacciano il mondo; sono Hammad e i suoi compagni, che preparano gli attentati tra la Germania e la Florida; sono Nina e il suo compagno Martin, misterioso mercante d’arte con un passato oscuro.

Questi personaggi si muovono e interagiscono tra loro lungo due diverse linee temporali che trovano il loro punto di convergenza, letteralmente, nell’impatto finale.

L’uomo che cade non è soltanto un romanzo sull’11 settembre. L’incipit dell’opera rivela immediatamente l’intenzione dell’autore di trasformare gli eventi in una metafora: “Non era più una strada ma un mondo, un tempo e uno spazio di cenere in caduta e semioscurità”. É un romanzo che parla dell’uomo e della post-modernità, del crollo di un sistema di valori, schemi e convenzioni le cui fondamenta hanno ceduto ben prima che le Torri venissero colpite. Beckett scriveva il radiodramma Tutti quelli che cadono nel 1956, quando non era nemmeno pensabile che quattro aerei si lanciassero nel cuore finanziario e politico degli Stati Uniti d’America. Eppure, già allora, l’Uomo occidentale veniva descritto come un sopravvissuto, scampato non indenne a catastrofi mondiali e anche a se stesso.

Dall’undici settembre sono passati dieci anni, dai tempi di Beckett oltre cinquanta. Ma se rivedo quelle macchioline nere che precipitano dalle Torri penso che in un presente senza certezze, vissuto con la netta sensazione di un futuro già trascorso, l’uomo che cade, tutti quelli che cadono, siamo anche noi. Ci distingue la nostra capacità di assorbire il colpo, e la modalità con cui tentiamo di farlo. Il protagonista di DeLillo, Keith Neudecker, incerto e contraddittorio, decide di dedicarsi al poker: senza un progetto, senza certezze, senza futuro, tanto vale vivere d’azzardo.

Il resto ce lo dice Aleksej Ivanovič: “ci sono due modi di giocare: uno da gentleman, l’altro invece plebeo, venale, insomma il modo di giocare di una canaglia qualsiasi”.

A voi la scelta. Fate il vostro gioco.

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Author: Raffaella Foresti

“Il cane odiava quella catena. Ma aveva una sua dignità. Quello che faceva era non tendere mai la catena del tutto. Non si allontanava mai nemmeno quel tanto da sentire che tirava. Nemmeno se arrivava il postino, o un rappresentante. Per dignità, il cane fingeva di aver scelto di stare entro quello spazio che guarda caso rientrava nella lunghezza della catena. Niente al di fuori di quello spazio lo interessava. Interesse zero. Perciò non si accorgeva mai della catena. Non la odiava. La catena. L'aveva privata della sua importanza. Forse non fingeva, forse aveva davvero scelto di restringere il suo mondo a quel piccolo cerchio. Aveva un potere tutto suo. Una vita intera legato a quella catena. Quanto volevo bene a quel maledetto cane “

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