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una recensione di Marco Arcieri

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Tra i romanzi di DeLillo questo “Mao II” è quello che mi ha generato una maggiore impressione di eccentricità e mi ha fatto riflettere su alcuni aspetti della poetica dell’autore e del movimento postmoderno nel suo insieme.

Anzitutto la storia incentrata su Bill Gray, celeberrimo scrittore “scomparso”, “fantasma” della letteratura americana, simile a Salinger ed al suo amico Pynchon, richiama alla mente proprio questa modalità di esistenza, ben nota a DeLillo, che ci permette quindi di entrare in queste vite disadattate e senza dubbio difficili, per assaporarne qualche morso.

E poi il rapporto tra la letteratura e l’impegno sociale e i fatti del mondo, la loro potente contingenza nella vita dell’uomo. Le nascite, le morti, il terrore del male.

Tutto questo è generato da questa storia che fa dilagare il pensiero oltre i confini di un testo e spinge a riflettere sulla propria natura e sulla propria funzione.

Perché Mao II anzitutto? Per l’immagine di Mao dipinta nel 1972 da Warhol, che viene rappresentata in tutte le copertine delle varie edizioni del libro e anche più volte citata nel testo come rappresentazione del mito moderno, a metà strada tra arte e media.

Warhol non “opera” ma “ripete”, “replica” e ciò rappresenta proprio un aspetto della poetica contemporanea, non solo letteraria e postmoderna.

L’arte come replica costante di se stessa. Come una lunga ed estenuante ricapitolazione della storia. E quindi l’immagine di Mao non in sé ma in quanto dipinta da Warhol, galleggia nella storia come replica di se stessa, allontanata irrimediabilmente dall’originale e dall’uomo, come se l’immagine in sé avesse più valore. E così funziona il mondo moderno, il nostro mondo.

DeLillo ci dice che siamo fuori e dentro la storia, che siamo repliche di altri e a nostra volta di noi stessi e che solo l’originalità ci permetterebbe di ritrovare l’unità.

E originale è per l’appunto il protagonista del romanzo Bill Gray, scrittore rifugiato  nel suo volontario esilio, alle prese con la pubblicazione del suo terzo romanzo, atteso dalla critica e dal mondo come un capolavoro.

Gray è coinvolto un un’avventura di terrorismo alla quale non può sottrarsi e nella quale è destinato a svanire.

Costretto ad uscire dal suo innominabile e nascosto rifugio, (ri)scopre il mondo e il male accompagnato da una fotografa che vuole ritrarlo (come Mao) per scandagliarne l’animo e rendergli immortalità.

Gray affronta il fenomeno del terrorismo, avendo “l’impressione che i romanzieri e i terroristi stiano giocando una partita che si conclude zero a zero. Quello che guadagnano i terroristi, lo perdono i romanzieri. Il potere dei terroristi di influenzare la coscienza di massa è la misura del nostro declino (di scrittori ndr) in quanto forgiatori di sensibilità e del pensiero. Il pericolo che essi rappresentano è pari alla nostra incapacità di essere pericolosi”.

Inquietante e lussuoso, questo romanzo ci affranca dalla realtà con un tono preoccupato e coinvolto. La vita di Gray, nonostante la sua chiara fama non vale più delle altre. La letteratura perde con la realtà il gioco del fascino e dell’influenza.

Il postmoderno è tutto qui, al di là di tutte le definizioni e alla faccia di chi sostiene che sia morto.

Non credo di poter meglio esprimere la mia ammirazione per questo libro se non regalandovi le parole di Thomas Pynchon (in un certo senso il suo protagonista): «Questo romanzo è un gioiello. DeLillo ci conduce in un viaggio sconvolgente intorno alle versioni ufficiali della nostra storia quotidiana, a tutte quelle facili rassicurazioni su chi è chi. E lo fa con un occhio tanto attento e una voce così espressiva e diretta da non somigliare a nessun’altra».

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