C’è una grande luna opaca aggrappata al cielo del mattino. Una di quelle lune che non si vedono spesso. Mi guarda obliqua dalla finestra della cucina. La guardo un attimo mentre rigiro il caffè nella tazza sbeccata. Poi do uno sguardo ai titoli delle news online. Niente di nuovo, ma già lo immaginavo. Niente di nuovo da stanotte alle 3.00, quando ho spento tutto per andare a dormire nella mia parte di letto. Dall’altra parte tu, incollato al cuscino dall’afa di luglio. Non un filo d’aria ad aiutarmi a prendere sonno. Non un filo d’aria ad aiutarmi a prendere fiato da quel senso d’angoscia che spesso mi prende. È sbiadito il tempo in cui averti accanto era un dolce sollievo. Ora, capita che il tuo respiro dall’altra parte del letto ingombri la stanza, schiacciandomi. Nelle sere come quella di ieri mi chiedo chi tu sia. Nelle sere in cui la tua nevrotica necessità di avere il controllo su tutto indaga ogni poro della mia pelle, ogni piatto lasciato a metà, ogni ritardo, ogni riga scritta e ogni sguardo, superando il limite dell’umana sopportazione. Mi chiedo chi eri un paio d’anni fa, per essermi persa in te. Ma non mi rispondo. Mentre la luna continua a starsene lì, illuminata dal giorno, ti lascio un post-it sulla tazza della colazione, quella che usi di solito. Poi esco. M’incammino lungo il viale alberato che in questo periodo dell’anno non ha macchine a ingombrare il marciapiede. Cammino con calma, godendo del poco rumore estivo. Sono in anticipo come mi capita spesso, anche se so che mia madre sarà in ritardo, come sempre. Il mio è un vizio. Intanto penso. E un po’ ripenso a queste tue cicliche crisi d’insicurezza. E sorrido da sola un istante pensando a cosa possa passarti per la mente. Un istante e poi non sorrido più: a pensarci bene c’è ben poco da ridere. Avresti potuto lasciarmi parlare, lasciarmi dire cosa avevo di così importante da fare stamattina. Avresti potuto starmi a sentire. Ora sapresti che con molta probabilità sono incinta, che stamattina ho una visita dalla ginecologa e dato che anche mia madre sarà in ospedale alla stessa ora per ritirare degli esami e domani partiamo, pranzerò con lei. Ma non l’hai fatto, appena ho accennato alla mia assenza hai ricominciato con questa storia, con questi stupidi dubbi, hai ricominciato a dire che di certo ho qualcuno di più importante di te da qualche parte, e non so nemmeno che diamine avessi in mente per noi di così necessario. Domani partiamo, stiamo via un mese, io e te e basta. Senza nulla tra i piedi. Eppure, hai gridato e te ne sei andato a dormire sbattendo la porta senza nemmeno lasciarmi parlare.
Sono già all’ospedale, prendo le scale per arrivare al parcheggio scoperto all’ultimo piano: sapendo che a quest’ora tutti gli altri sono già occupati, ho dato appuntamento a mia madre direttamente lì. Salgo i gradini a due a due, come da bambina, solo per vedere se ne sono ancora in grado. Poi a metà smetto. Riprendo un’andatura consona alla notte insonne, alle ciabatte e all’ansia da ciclo assente. E salgo. Fuori l’azzurro del cielo è quasi fastidioso per i miei occhi gonfi di sonno. Mi appoggio alla ringhiera arrugginita che circonda il vecchio tetto piatto dell’edificio. Guardo qua e là la città che d’estate rallenta e si svuota. Da quassù sembra quasi bella, infinita, che si tuffa nel lago da un lato e si arrampica sulla montagna dall’altro. Guardo la strada per vedere se mia madre sta arrivando. Mi sporgo un attimo e la vedo. Vedo il monovolume sabbia arrivare lento e fermarsi con la freccia a sinistra prima d’imboccare la rampa per il parcheggio. E mentre l’auto scompare, stranamente puntuale, la ringhiera si stacca e crolla giù dal tetto. Io con lei. È un attimo, e le finestre dell’ospedale sfrecciano in fretta verso l’alto una dopo l’altra. Poi, nulla. Atterro rumorosamente sulle mattonelle dell’ingresso con la ringhiera addosso. Nell’istante in cui la mia testa si sfracella penso al post-it che ti ho lasciato. C’è scritto Non torno, con la mia calligrafia secca e spigolosa. Un Non torno grande quanto tutto il post-it, un Non torno che ora per te prenderà un milione d’altri sensi che non avrebbe dovuto avere. Un Non torno cui è sottinteso un Per pranzo che non so se mai capirai.
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un racconto inviato e scritto da Maura Riva, blogger de “Parole Raccolte“
7 dicembre 2011
Bellissimo, l’ho letto d’un fiato
7 dicembre 2011
grazie della lettura concessami!
13 dicembre 2011
L’ho sempre detto: Le donne scrivono meglio degli uomini, leggono più degli uomini, ma non comprano i libri delle donne. WHY?