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Il Musico

un racconto di Thomas Ticci

 

il MusicoSi mosse nella strada senza dubbi, avanzando con passo certo fra la folla che gli si apriva davanti. Non si curava di nessuno. Ricevette anche un paio di spallate da chi, come lui, camminava guardando a terra. I capelli neri, lisci e unti gli coprivano parte di due occhi vacui rapiti da chi sa quale spirito malvagio e nel suo pensiero s’aggirava la brama della perfezione.

Dopo aver consumato suole, ingoiato chilometri di strada e mangiato la polvere dei luoghi più remoti si era fermato di fronte all’insegna di un antiquario. Aveva smesso di cercarla nei negozi di strumenti musicali. Ne aveva conosciuti abbastanza di locali dozzinali e privi di anima. Ricettacoli di insulsa materia che erano gli empori musicali. Troppa industria, troppa catena di montaggio fra quegli stampi troppo uguali fra loro. Per un periodo aveva deciso di mettere a soqquadro le mansarde, le cantine e ogni anfratto di ogni casa. Più di una volta si era ritrovato ad entrarci furtivamente quando nel pomeriggio aveva udito alcuni accordi provenire da una stanza. Stava diventando una malattia. Una nevrosi, come gli avevano diagnosticato anni prima. Anche lui lo sapeva, ma quando pensava alla malattia non lo faceva con gli incomprensibili termini medici. La sua malattia lo totalizzava ma non lo distruggeva. Gli venne in mente streben. Una parola tedesca che significava propensione per “altro”, per il sempre nuovo. Il suo streben era l’incontentabilità. La sua forza la convinzione che da qualche parte, così perfetta da essere ancora il parto di un’ossessione, esisteva.

Quando spinse la porta udì il suono del campanello che batteva sullo stipite. Da dietro un banco altissimo emerse un ometto grigio e beige. Non distolse lo sguardo dalla sua occupazione, gettò solo un’occhiata per sincerarsi chi fosse entrato e ritornò subito ad immergersi in quello che stava facendo. L’altro rimase fermo qualche secondo spostando velocemente gli occhi sugli oggetti del negozio. Chiese se avesse degli strumenti musicali e l’ometto, senza muoversi, gli indicò un angolo malmesso fatto di custodie e casse. Iniziò a cercare, prima con calma poi pian piano, mentre un ansia inconsapevole gli afferrava le mani, sempre più frenetico. Mentre scavava nella polvere alcune casse rotolarono su di un fianco ed una di queste si aprì vomitando il suo contenuto. Un ammasso di stracci che rivestiva qualcosa. La paura gli serrò la gola e mentre svolgeva quel sudario marcio capì perché. Era di fronte a lui, immersa nella polvere e nella muffa. Era nelle sue mani, abbandonata da chissà chi e da chissà quando, ma era li. Si girò di scatto, spostandosi dietro uno scaffale, per vedere l’uomo del negozio che fine avesse fatto. Lo vide che lo guardava. Il panico iniziò a salirgli violentemente sulla schiena. Improvvisamente aveva caldo e non riusciva a pensare. Voleva uscire di li, velocemente, ma adesso la cosa più semplice del mondo gli appariva complicatissima. Da dietro il bancone la voce lo colpì senza avvisi:

– Ha bisogno di aiuto?

– Come? No, no. – Fu la sua unica risposta. Pensava che doveva pensare e pensava che non ci riusciva. Calma! Impose a se stesso.

L’altro, nel frattempo, guizzava gli occhi camaleontici e scrutava. Aveva già fatto il giro e adesso stava avanzando verso di lui.

Iniziò a tastare fra tutti quegli oggetti e si fermò su qualcosa di abbastanza grande e pesante. Rimase immobile, con le spalle rivolte all’uomo che si avvicinava.

– Tutto bene? – disse questo e subito dall’alto fu freddato da un putto di bronzo di circa tre chilogrammi. Il suono metallico della statua che adesso, scivolata dalla mano e caduta a terra, rotolava sul pavimento, lo risvegliò. Guardò l’uomo a terra solo per un momento poi afferrò la chitarra ancora avvolta per metà nella stoffa ed uscì velocemente dal negozio facendo nuovamente scattare il campanello.

Corse per tutto il tempo. Iniziava ad ansimare ma continuò a correre. La milza gli doleva ma non se ne curò. Quando gli sembrò di essere abbastanza lontano si diresse verso il ponte. I pilastri che lo sorreggevano erano più grandi della sua larghezza e sporgevano creando un riparo dalla strada e dai passanti. Scavalcò il muretto e si calò di sotto, nascosto alla vista.

Si sedette a terra e si appoggiò la cassa sulla coscia. Pizzicò appena le corde per sentirne il suono. Poi non fu più lui. Le sue mani si muovevano da sole. Danzavano saltando con precisione fra tasto e tasto. Le dita sembravano ragni. Gli accordi brulicavano mentre costruiva una melodia che neppure lui conosceva e la musica si levava. Fra le sue mani stringeva la chitarra perfetta e la sua anima, sopita da tempo, adesso, smaniava per riversarsi in quel corpo di legno. Suonava libero, senza freni. Non suonava per nessuno, neppure per se stesso. Suonava la perfezione fatta strumento rubando le note a velocità vertiginose. Correva sempre più veloce e raggiungeva ogni tonalità spingendosi oltre e ancora oltre. Mentre schiudeva gli occhi senza fermarsi, guardando quel manico incredibile, rimase esterrefatto. Un unico tasto adesso occupava l’intera lunghezza della chitarra e tutto il resto continuava verso l’alto. Non imbracciava più una chitarra adesso ma qualcosa delle dimensioni di una canna da pesca. E il suo braccio raggiungeva ogni posizione. S’inerpicava verso l’alto per poi piombare come un animale e percorreva metri di corde. Impossibile pensò mentre si osservava un braccio deforme e allungato. La musica continuava e anche tutto il resto proseguiva ad allungarsi sempre più. Verso l’alto. Verso il cielo. Inghiottì un grido di terrore quando capì che non aveva più alcun potere sulle sue mani. Il capotasto saliva, e ormai era sparito dalla sua vista, ma la sua mano riusciva sempre a raggiungerlo. Continuava a suonare mentre adesso la chitarra era diventata delle dimensioni di un palazzo. Poi di un campanile fino a quando iniziò a perderla fra lo strato più basso di nubi ed iniziò a sparire. Sollevato verso l’alto e rapito. Suonava. Poco dopo, la luce bianca della luna, illuminò l’involto di stracci abbandonato sui pilastri. Un mucchietto deforme e anonimo. Sotto, il fiume, continuava a scavare il suo letto, ma ogni cosa fu fatta con meno perfezione rispetto a ieri.

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Author: Alieni Metropolitani

Gli Alieni Metropolitani non cercano soluzioni. A volte ne trovano… é irrilevante. Appartengono alla Società e con sguardo consapevole ne colgono l’inconsistenza. Non sono accomunati da ideologia, religione o stile di vita ma da una medesima percezione del mondo. Accettano i riti della vita, riuscendone a provare imbarazzo. Scrivere! Una reazione creativa alla sterile inconsistenza del mondo.

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2 Comments

  1. ma il numero 3 quando???? XD

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