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Pure, un paio di giorni dopo, provai a chiedere a Harland se conosceva qualcosa dell’opera di un certo Enoch Soames. Harland, che come al solito stava passeggiando avanti e indietro per la stanza, si fermò di scatto, levò le mani verso il soffitto e gemette, forte : aveva incontrato spesso ” quella assurda creatura ” a Parigi, e proprio quella mattina aveva ricevuto da lui alcune poesie manoscritte. “Non ha talento? ” domandai.
“Ha un reddito. Se la cava benissimo. ” Harland era il più allegro degli uomini e il più generoso dei critici, e non gli andava di parlare di cose per le quali non se la sentiva di manifestare entusiasmo. Lasciai perciò cadere l’argomento. La notizia che Soames godeva di un reddito valse ad attenuare la mia sollecitudine. Seppi più tardi che era figlio di un libraio di Preston, un libraio di ben scarso successo, ma che aveva ereditato da una zia zitella una rendita annua di trecento sterline, in quanto era l’unico parente ancora in vita. Dal punto di vista materiale, di conseguenza, ” se la cavava benissimo. ” Ma rimaneva in lui il pathos spirituale, ora acuito per me dal fatto che forse anche le lodi del Preston Telegraph non sarebbero mai forse uscite se egli non fosse stato figlio di un cittadino di Preston. C’era in lui una specie di debole ostinazione che non potevo fare a meno di ammirare. Né lui né l’opera sua avevano ricevuto il più piccolo incoraggiamento, ma continuava a comportarsi come un personaggio, continuava a sventolare la sua piccola bandiera sbiadita. Dovunque si radunassero i jeunes féroces delle arti, in quel ristorante di Soho che aveva appena scoperto, nel caffé-concerto maggiormente in voga fra di loro in quel momento, là c’era Soames, non al centro ma al margine, figura scialba e inevitabile. Non cercava mai di propiziarsi i suoi colleghi, non diminuiva mai neppure di un briciolo la sua arroganza per l’opera sua o il suo disprezzo per la loro. Con i pittori era rispettoso, perfino umile, ma per i poeti e i prosatori dello Yellow Book e più tardi del Savoy non ebbe mai parole che non fossero di disprezzo. Ma non ci badavano. A nessun venne mai in mente che Soames e il suo diabolismo cattolico potessero contare qualcosa. Quando nell’autunno del ‘96 pubblicò (a sue spese questa volta) un terzo libro, il suo ultimo, nessuno disse una parola, né a favore né contro. Io volevo recensirlo, ma me ne dimenticai. Non lo vidi neppure, e mi vergogno di affermare che non ne ricordo nemmeno il titolo. Ma, quando fu pubblicato, dissi a Rothenstein che quel povero Soames mi sembrava una figura veramente tragica e che, ne ero convinto, quella mancanza di riconoscimento avrebbe finito per ucciderlo. Rothenstein scoppiò in una risata. Disse che cercavo di farmi una fama di buon cuore, un buon cuore che ero ben lungi dal possedere, e forse era vero. Ma alla vernice del New English Art Club, poche settimane più tardi, vidi un ritratto a pastello di ” Enoch Soames, Esq.” Era molto somigliante, e era anche molto caratteristico di Rothenstein averlo tratteggiato. Soames rimase in piedi davanti al suo ritratto, con il suo cappello floscio e il Suo mantello impermeabile, per tutto il pomeriggio. Chiunque lo conoscesse avrebbe riconosciuto il ritratto a prima vista; ma chi non lo conoscesse avrebbe riconosciuto il ritratto dell’uomo che gli stava vicino : “esisteva ” tanto più di lui, e cosi doveva essere. E inoltre non aveva quella espressione di lieve felicità che quel giorno, si, si poteva notare sai volto di Soames. La Fama aveva spirato su di lui. Nel corso del mese tornai due volte a New English, e tutte e due le volte Soames era là, in bella vista. Ripensandoci, mi pare giusto considerare la chiusura di quella mostra come la fine della sua carriera. Aveva avvertito l’alito della fama contro una guancia, molto tardi e per brevissimo tempo, e quando ciò ebbe termine egli cedette, rinunciò, si abbandonò. Non aveva mai l’aspetto di un uomo forte e sano, ma ora appariva addirittura spettrale : un’ombra nell’ombra che era stato. Frequentava ancora la sala del domino, ma, perduto ogni desiderio di suscitare curiosità, non vi si tratteneva più a leggere libri. ” Leggete solo al Museo adesso? ” gli domandai, con una allegria un poco forzata. Rispose che non ci andava più. ” Non c’è assenzio là ” mormorò. Era proprio una di quelle frasi che una volta avrebbe pronunciato per far colpo, ma ora invece il suo tono suonava quanto mai convinto. L’assenzio, che una volta era stato una parte della personalità che aveva tanto faticato per costruirsi, rappresentava ora un sollievo e una necessità. Non lo chiamava più la sorcière glauque. Non si serviva più di frasi francesi. Era diventato un cittadino di Preston, semplice, senza sovrastrutture.
L’insuccesso, se è un insuccesso semplice, senza sovrastrutture, completo, e anche se è un insuccesso squallido, ha sempre una certa qual dignità. Evitavo Soames perché la sua vicinanza mi dava l’idea di essere piuttosto volgare. John Lane aveva già pubblicato due miei libretti, che avevano avuto un piccolo e simpatico successo di stima. Ero una ” personalità “, minuscola ma definita. Frank Harris mi aveva assunto perché mi facessi le ossa nella Saturday Review. Alfred Harmworth stava per permettermi di fare altrettanto con il Daily Mail. Ero esattamente ciò che Soames non era. E questo mi faceva vergognare del mio successo. Se avessi saputo che credeva veramente e fermamente nella grandezza di quello che avevo fatto come artista, forse non Io avrei evitato. Non è fallito completamente chi non ha perduto del tutto la sua vanità. La dignità di Soames era una mia illusione. Un giorno della prima settimana di giugno del 1897 questa illusione se ne andò- Ma la sera di quel giorno se ne andò anche Soames.
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Una novella di Henry Maximilian Beerbohm Continua Lunedì 19 Dicembre