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Il Teatro di Sabbath – Philip Roth

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Il teatro di Sabbath”, nientemeno.

Che dire? Tanto, troppo, per un’asciutta e semplice recensione.

Vediamo di mettere un po’ d’ordine.

Innanzi tutto l’impressione ricavata dal testo: sicuramente contraddittorio, ambiguo e polivalente, come del resto il protagonista, Morris “Mickey” Sabbath, di professione burattinaio, in verità novello Rasputin fin de siècle.

Poi, una necessaria avvertenza: chiunque covasse il sogno di diventare scrittore deve leggere “Il teatro di Sabbath”, chiaro esempio del genio stilistico di Philip Roth. Poi si può discutere sui contenuti, sull’eccessiva lunghezza del periodo o, peggio, su alcuni deliri mentali del nostro burattinaio, che rallentano in maniera talvolta eccessiva il ritmo espositivo, ma resta il fatto che la tecnica narrativa è, a mio modo di vedere, qualcosa di veramente notevole.

La vicenda si snoda tra presente e passato, tra numerosi flashback, digressioni, parentesi che si aprono, più o meno all’improvviso, sfidando costantemente il lettore. Lungo un unico filo conduttore, si aprono parentesi della più varia natura, spaziando dagli affreschi di stampo brutalmente sessuale, a quadri classici di una dolcezza inaspettata, attraversando infine paesaggi surreali, con qualche spruzzatina di pulp.

Insomma, detto in tutta onestà: per leggere questo romanzo, bisogna essere dei lettori solidi, ben strutturati e molto concentrati. Roth è uno scrittore di èlite, che non fa sconti, anzi: non tutti possono avere il privilegio di apprenderlo.

Perché di apprendimento si tratta, non di semplice lettura.

Autentiche lezioni di vita, oserei dire. Impartite con un linguaggio complesso, articolato ed estremamente variegato, che abbraccia la volgarità più triviale come i toni più aulici e contemplativi.

Alla base un plafond di disperazione, che l’Autore dipinge magistralmente quando incarna l’io – narrante di Mickey Sabbath, ponendo così il lettore in prima fila, entro quel surreale teatro che è la vita del protagonista. Questo meccanismo si alterna in maniera molto regolare con l’ulteriore narrazione in terza persona, condotta da Roth stesso quando vuole offrire una ‘pausa’ al lettore, e descrivere in maniera più oggettiva e meno suggestiva la situazione che si sta svolgendo. Anche in queste fasi, in cui chi legge rischia davvero di smarrirsi, l’Autore non lesina considerazioni profonde sul senso della vita, alternate ad un intelligente ironia nei confronti della scellerata e folle esistenza del burattinaio.

Ma a questo punto, è lecito un interrogativo: chi è Mickey Sabbath?

Un burattinaio fallito, un sagace manipolatore senza scrupoli, oppure un uomo ferito e sofferente?

Il suo immenso teatro coinvolge mogli, amanti, conoscenze, cui impone il proprio volere grazie alla sua totale assenza di etica: l’unica cosa che non riesce a stravolgere, manipolare, piegare a proprio uso e consumo è la morte del fratello Mortimer, abbattuto in combattimento durante il secondo conflitto mondiale, ed il successivo disfacimento della propria famiglia, un tempo felice.

Ho accennato in un’altra recensione (“Lamento di Portnoy”) alla profonda complessità che caratterizza parecchi personaggi rothiani: Sabbath ne è un esempio, e voglio fornirvene una dimostrazione, per chiarirvi il mistero bellissimo, ma complesso, che anima le pagine di questo libro.

In vita sua non aveva mai potuto lasciar andare una nuova scoperta. Il cuore della seduzione consiste nella perseveranza. La perseveranza, l’ideale dei gesuiti. L’ottanta per cento delle donne cede a una fortissima pressione se la pressione è persistente. Bisogna dedicarsi a fottere nello stesso modo in cui un monaco si dedica a Dio. La maggior parte degli uomini deve sistemare le scopate attorno ai bordi di quelle che definisce faccende più importanti: far soldi, potere, politica, moda e Dio solo sa cos’altro… lo sci. Ma Sabbath si era semplificato la vita e aveva sistemato tutto il resto attorno alle scopate”.

Questo un primo spaccato, a riprova del suo animo perverso e corrotto, del suo essere così irrimediabilmente amorale.

Tuttavia, sul finire del romanzo, possiamo leggere: “stare vestito così non cambiava proprio niente, non trasformava nulla, non alleviava nulla, non lo immergeva più profondamente in ciò che più non era né lo separava da ciò che era, eppure era ben deciso a non vestirsi mai più in altro modo. Un uomo lieto deve indossare sempre l’abito talare della sua setta. Tanto i vestiti sono comunque una maschera. Quando si va in giro, e si vede tutta la gente vestita, si comprende con certezza che nessuno ha la minima idea del perché sia nato e che, se ne rendano conto o no, le persone sono perennemente impegnate a recitare in un sogno. È vestire i cadaveri che tradisce veramente la nostra natura di pensatori”.

Un’esistenza caratterizzata da antinomie: una condotta di vita ignobile, una realtà spirituale intensa e tormentata, flagellata dai tanti morti che ha dovuto abbandonare, in maniera straziante e radicale.

La vita di Mickey Sabbath è una continua fuga da se stesso, culminata dalla scelta più estrema: il volontario viatico per l’immortalità.

Ma a questo punto, per la prima volta, la vita del burattinaio viene ricondotta nei binari della coerenza: certi tormenti esistenziali logorano e distruggono, e vanno affrontati. Non si scappa dai ricordi, dai morti o dai rimpianti: a sessantaquattro anni, Mickey Sabbath scopre il concetto di dignità, che lo mette di fronte a due strade radicalmente diverse fra loro, vivere o morire.

Roth non ci dice quale scelta compirà il protagonista, perché questa è giusto che faccia parte di un’altra storia: il messaggio profondo è rappresentato da una possibilità di emenda, di redenzione, di conoscenza di se stessi, speranza che può giungere a qualsiasi età, senza criteri meritocratici, anche in un contesto di cieca disperazione e di completa amoralità.

Questa è l’impronta più marcata che il lettore recepisce, a chiusura del romanzo: qua e là, disseminati entro i meandri stilistici più disparati, ve ne sono tanti altri, più velati da cogliere ma intensi e violenti nel significato che celano.

Ripeto, un libro per pochi eletti.

A voi la scelta.

___

una recensione di Marco LaTerra

Author: Marco La Terra

Marco La Terra, classe 1977, vive il senso di alienità dell’epoca infausta in cui è recluso in modo viscerale e sofferente, cercando di rintracciare in tutto ciò che è “altro da sé” una forma spuria di logica superiore.

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3 Comments

  1. Sono d’accordissimo con Marco LaTerra: la grande letteratura esiste, ma per essere colta in tutta la sua bellezza servono grandi lettori. Molti dei quali si trovano su questo sito.
    Anna

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  2. E’ uno dei miei preferiti di roth. Forse il più’ divertente. Mi piace molto questa recensione. Grazie

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  3. NOVEMBRE 2012, Questo è il primo libro di Philip Roth che leggo, sono affascinata e a volte sconcertata, concordo con la recensione! grazie Monica Bertini

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