Philip Roth è un gigante. Piaccia o meno, questo è uno scrittore nessuno dovrebbe ignorare, soprattutto se nato sul suolo americano.
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Il comunista del titolo (“I Married a comunist”) è Ira Ringold, un povero ragazzo ebreo impegnato nelle lotte sindacali che, recitando con successo la parte di Abramo Lincoln – siamo nell’America degli anni ’50 – diventa un affermato attore radiofonico. Ira sposa per amore, ma con esiti infelici, Eva Frame, una bellissima ex diva del cinema muto con svariati matrimoni alle spalle che sarà la causa della sua rovina, finendo per denunciarlo come esponente del partito rosso in un libro di memorie dal titolo “Ho sposato un comunista”.
Tutta la storia ci viene raccontata, molti anni dopo il suo svolgersi, attraverso un lungo dialogo tra il mitico Nathan Zuckerman (celebre alter ego di Philip Roth, protagonista e/o narratore di molti romanzi) ormai adulto ed affermato scrittore, ed il nonagenario professor Murray Ringold, già insegnante di inglese del giovane Nathan e fratello maggiore di Ira. Un dialogo che si fa spesso monologo perdendo, a tratti, un po’ di brillantezza.
Le vicissitudini private del protagonista si intrecciano continuamente con la storia politica dell’America di quegli anni, l’epoca del maccartismo e della “seconda paura rossa”. Come già era accaduto in “Pastorale Americana” nella diversa cornice degli anni ’60, anche in questo romanzo il contesto storico e sociale non si limita ad essere un mero sfondo della narrazione. Al contrario finisce per incidere profondamente nelle vite dei protagonisti, fino a modificarne il destino e a confondersi con esso.
Eloquente la sfiducia di Roth, ben rappresentata in questo romanzo, verso qualsiasi palingenesi collettiva:
“Nella società umana – ci insegnava il professor Ringold – la trasgressione più grande di tutte è pensare. – Il pen-sie-ro cri-ti-co, – diceva il professor Ringold, battendo le nocche sul piano della cattedra per sottolineare ogni sillaba – ecco l’estrema trasgressione.”
A questo punto debbo darvi conto di un fatto. Benché siano effettivamente forti alcune analogie tra la storia personale di Ira Ringold e quella di Philip Roth (sposò in seconde nozze la bellissima attrice Claire Bloom la quale, due anni dopo la loro separazione, pubblicò il libro di memorie “Leaving a Doll’s House”, ritraendo il marito scrittore a tinte piuttosto fosche…) non condivido le critiche al romanzo espresse soprattutto dalla stampa britannica. Non credo che “Ho sposato un comunista” possa essere definito, come è stato scritto, un romanzo di mero sfogo dello scrittore di Newark contro la ex moglie Claire Bloom. La miglior difesa, in questo senso, gli viene proprio dal protagonista del suo romanzo: “Quando la tragedia umana si è compiuta, la si passa ai giornalisti affinché banalizzandola, la trasformino in spettacolo… “In Gossip We trust”, “Nel pettegolezzo noi crediamo”. Il gossip come gospel, il pettegolezzo come vangelo, fede nazionale. Il maccartismo come il debutto, non soltanto della politica seria, ma di ogni cosa seria come spettacolo per divertire la massa del pubblico. Il maccartismo come prima fioritura postbellica di quell’irrazionalità americana che oggi è diffusa dappertutto”.
Sarà stato pure un marito ferito nell’orgoglio, non dico di no, ma nel romanzo, evidentemente, c’è molto di più. Anzi, di cosa stiamo parlando?
Non curatevi del gossip e tornate alle lettere. Tutto il resto è irrilevante.
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una recensione di Raffaella Foresti
11 maggio 2013
“Sarà stato pure un marito ferito nell’orgoglio, non dico di no, ma nel romanzo, evidentemente, c’è molto di più.” Sono completamente d’accordo con te.
Complimenti per la recensione
13 giugno 2013
Grazie Sebastiano! Alieni Metropolitani meglio del The Guardian!:-)