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Il lamento di Portnoy – Philip Roth

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Lamento di Portnoy [da Alexander Portnoy (1933)], disturbo in cui potenti impulsi etici e altruistici sono in perenne contrasto con una violenta tensione sessuale, spesso di natura perversa. Osserva lo Spielvogel: “Atti di esibizionismo, voyeurismo, feticismo, autoerotismo e coito orale sono assai frequenti; come conseguenza della “moralità” del paziente, tuttavia, né le fantasie né le azioni si traducono in autentica gratificazione sessuale, ma piuttosto in un soverchiante senso di colpa unito a timore di espiazione, soprattutto nella fantasmatica della castrazione” (O. Spielvogel, Il pene perplesso, in “Internationale Zeitschrift für Psychoanalyse”, vol. XXIV, p. 909). Lo Spielvogel ritiene che gran parte dei sintomi vadano ricercati nei legami formatisi nel rapporto madre – figlio.

Il dottor Spielvogel, come ogni bravo psichiatra dovrebbe fare, ascolta paziente l’intenso monologo di Alexander Portnoy, nevrotico, erotomane, morbosamente attaccato alla madre e alle tradizioni ebraiche, unico protagonista, e voce narrante, di quest’originalissimo romanzo di Philip Roth, simbolo della definitiva consacrazione di questo mostro sacro della letteratura.

In virtù dei contenuti, spesso osceni e del linguaggio utilizzato, scurrile e a tratti volgare, “Lamento di Portnoy” (1967) suscitò notevole scalpore all’epoca della sua pubblicazione.

Una questione di contenuti e linguaggio, dunque: Roth lascia il segno sia per ciò che dice, sia per quello che dice.

Un bipolarismo già riscontrato ne “Il teatro di Sabbath”, dove un linguaggio spesso e volentieri volgare ed osceno nasconde tra le sue pieghe una tragica e potente disperazione: l’uomo è solo, ed i grandi interrogativi esistenziali non hanno risposta alcuna, eccezion fatta per l’amore verso la Vita.

Per amare davvero la Vita e fondersi con essa, tuttavia, bisogna approcciarsi con spirito libero a ciò che ci circonda ed osare.

Alexander Portnoy, al pari di Mickey Sabbath, purtroppo, non è libero. Tutt’altro.

Rimandando ad un’apposita recensione le considerazioni su quel tortuosissimo personaggio che risponde al nome di Morris “Mickey” Sabbath, per quanto riguarda Portnoy mi piace definirlo dissacrante.

Alexander Portnoy distrugge tutto: famiglia, religione, affetto filiale, etica, amore.

Come direbbe Roth, il punto fondamentale è che il protagonista, pur avendo un QI di 158, un lavoro di responsabilità, ben remunerato e gratificante, vive per setacciare figa.

Un rastrellatore di passera.

Un instancabile schiacciasassi.

Diciamocela tutta: questo è Alexander Portnoy.

È un problema?

Secondo le convenzioni sociali, sì. La normale scansione logica dovrebbe essere: “università – laurea – lavoro –matrimonio – figli – carriera”, non “università – lavoro” quali microscopiche isole in un oceano di sesso istintivo e anarchico.

In base ai dogmi religiosi, poi, non ne parliamo. Un posto all’Inferno, nel girone dei Lussuriosi, è già in caldo per lui, poco ma sicuro. Questo lui lo sa, e si tormenta.

I tormenti di Portnoy sono, al contempo, comici e tragici: in più di un’occasione mi sono ritrovato a sganasciarmi dalle risate, rapito dalla prosa di Roth, dissacrante e cinica nell’assoluta ingenuità dalla quale prende forma e vita ma, superando il profilo prettamente lessicale, l’impulso comico ha poi lasciato posto alla riflessione.

Le convenzioni sociali e la religione fregano, è fuor di dubbio.

Ciò che distrugge la libertà d’animo è, soprattutto, pensare di essere anormali quando non può esistere, per definizione, un concetto assoluto di “normalità”. Che cos’è, la normalità? Chi ha il diritto di giudicare chi?

Mi rivolgo ai signori uomini: chi non ha mai sognato di imporre la propria virilità a tre donne contemporaneamente? O di farsi un sano spinello postcoitale? Oppure di entrare in una chiesa incrociata per caso e, religioso o non, confessare i propri peccati ad un sacerdote che, umanamente, suscitava immediata fiducia?

Concetti antitetici: qualcuno rivolto verso l’apparente dannazione, qualcun altro verso una parvenza di salvezza. Gesti comunque anormali. Strani. Bizzarri.

Oggetto di giudizio e valutazione. Disvalore etico e religioso.

Ma chi ha il diritto di giudicare chi? E, per dirla tutta, ciascuno di noi ha veramente il diritto di giudicare il prossimo?

Questo è l’irrisolvibile interrogativo che assilla Portnoy: vorrebbe tanto rispondere “NO, NESSUNO HA IL DIRITTO DI GIUDICARE IL PROSSIMO, SONO LIBERO DI FARE QUELLO CHE VOGLIO!” ma, ironia della sorte, lui è il primo a giudicare se stesso, condannandosi per i propri istinti e desideri, leciti nella loro genesi (le degenerazioni sono ben altra faccenda), tuttavia criminalizzati da società e religione.

Un libro attualissimo, dunque, ancora in attesa di risposte. Tante, troppe risposte.

Forse potrà aiutarci Lei, Dottor Spielvogel, Lei che ha ascoltato Portnoy con così tanta pazienza e attenzione.. Ci parli, ci illumini, rischiari le nostre menti, Dottore!

La ascoltiamo.

___

una recensione di Marco LaTerra
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Author: Marco La Terra

Marco La Terra, classe 1977, vive il senso di alienità dell’epoca infausta in cui è recluso in modo viscerale e sofferente, cercando di rintracciare in tutto ciò che è “altro da sé” una forma spuria di logica superiore.

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