Questo romanzo di William Burroughs, scrittore, tossicodipendente, spacciatore e uxoricida, racchiude in sé l’esatta tragica consapevolezza di cosa sia la realtà della droga.
In maniera scientifica e asettica, Burroughs redige una sorta di diario clinico nel quale descrive con dovizia di particolari gli effetti, prodotti sull’organismo, di numerosi stupefacenti, tra cui eroina, cocaina e yage, una droga esotica che produce poteri telepatici.
Fedele al proprio credo, Burroughs sperimenta, prova e descrive gli effetti di qualsiasi tipo di droga, allo scopo di presentare questa tragica realtà per quella che è, senza fronzoli romantici o scapigliati.
In base a questa chiave interpretativa, un unico filo conduttore lega questo romanzo a “Checca”, di poco precedente, che descrive la vita del proprio alter ego (William Lee) nel momento in cui decide di disintossicarsi per sempre.
Ne “La scimmia sulla schiena”, scritto retrospettivamente, Lee è sempre carico, di droghe, alcool o entrambe le cose, prova a disintossicarsi senza successo e ricade nel baratro, un vortice di eccitazione e depressione descritto dall’Autore con un rigore tecnico indice dell’assoluta padronanza, oramai raggiunta, circa la gestione della propria condizione di drogato.
Drogato, non tossicodipendente: dopo una fase acuta, di assoluta prostrazione fisica e mentale (in buona parte dovuta alla tragica morte della moglie, uccisa dallo stesso Burroughs nel tentativo di emulare, senza successo, le gesta del prode Guglielmo Tell), l’Autore si sottopone ad un trattamento di apomorfina che lo libera definitivamente dal vizio. Da questo momento in poi, e per i quarant’anni successivi, Burroughs continua a sperimentare droghe, descrivendone gli effetti e le possibili terapie, senza scivolare nella dipendenza.
Uno sperimentatore, dunque: di droghe, ma anche della narrazione. Oltre che della vita.
Sia ne “La scimmia sulla schiena” che in “Checca” il ritmo della narrazione è molto irregolare e frastagliato, aderendo come un guanto agli stati patologici e mentali di chi scrive, a loro volta trasfusi nell’alter ego William Lee. Nel primo romanzo, ripreso e completato qualche mese dopo la morte della moglie, in un contesto di completa disintossicazione (nel senso della non – dipendenza), la prosa è articolata in periodi lunghi, molto distesi e lineari, con un evidente scopo “didattico” (alias descrizione degli effetti della droga), per quanto incalzanti e a tinte forti nel momento in cui, in maniera retrospettiva, vengono descritti i malesseri del protagonista.
In “Checca” lo stile narrativo è più secco ed asciutto, quasi minimalista, caratterizzato da periodi brevi e taglienti: durante la fase della disintossicazione, inevitabilmente riemergono ed esplodono i limiti caratteriali, e le debolezze, di Burroughs e del suo alter ego. William Lee sta cercando di chiudere con le droghe, e per questo si trascina disperato, da un bar all’altro, bevendo come una spugna e rimorchiando chiunque. Una disperazione totale e senza argini, una solitudine umana crudele e meritata, al contempo: le crisi di astinenza rendono Lee fragile, meschino, senza dignità, tutto l’opposto dell’immagine che Burroughs offre di lui nell’altro romanzo, ossia forte, controllato, ormai guarito.
Due facce della stessa moneta, si potrebbe dire, o due aspetti dello stesso processo evolutivo.
Essere succubi della droga non è piacevole, senza ombra di dubbio, e Burroughs ne sa qualcosa.
In un’epoca in cui, a livello sociale, vi erano ancora moltissime proibizioni (inizio Anni Cinquanta), l’Autore si assume la responsabilità di farne piazza pulita: mette in piazza la propria omosessualità, definendosi tossico ed alcoolizzato.
Una rivoluzione copernicana, dunque.
Uno scrittore ed un filosofo dell’eccesso, William Burroughs, per quanto più razionale e metodico rispetto ai classici esponenti della beat generation che, non a caso, lo elessero padre spirituale della corrente.
In definitiva: lettura di nicchia, vivamente consigliata agli amanti di scrittori maledetti come Kerouac o Bukowski, all’apparenza emarginati sociali, disadattati e maniaci, nella sostanza grandiosi e geniali.
Burroughs, pur con le contraddizioni e gli errori che caratterizzarono la sua vita, è uno di loro. Un fenomeno letterario e di costume, un anarchico delle convenzioni sociali. Un rivoluzionario.
A suo modo, un genio.
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una recensione di Marco LaTerra [email protected]