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Mi aggiro per la stanza senza capire dove sono.
È tutto un fumo denso, qui dentro. È tutto confuso, dentro e fuori di me.
Vedo Mark, totalmente ripiegato su se stesso, mulinare le braccia in maniera convulsa ed incoerente: del resto, in Mark non vi è nulla di logico, se non il fatto di rifornirmi abitualmente di crack.
Ho altri spacciatori di fiducia in verità, Rico ed Happy ad esempio.
Nomi strani, vero? Perfetti per il mestiere che fanno.
In effetti, se di lavoro facessi lo spacciatore anziché l’editor, credo proprio che vorrei chiamarmi Rico o Happy, anche se nelle mie frequenti crisi di astinenza non c’è veramente nulla di cui essere felice. Fumo almeno trenta volte al giorno, dato che la mia autonomia non supera la mezz’ora, a meno di non alleviare il tremore con quantitativi vergognosi di alcool.
Vodka soprattutto.
Adesso, davanti a me ce n’è un secchiello pieno. Con ghiaccio. Roba di gran classe.
Roba da duecento dollari a notte, più cinquecento per la suite, più settecento per la roba. Sono al verde, cazzo: quarantamila dollari fumati in trenta giorni.
Non ci pensiamo: tra poco tutto sarà un lontano ricordo.
Continuo ad aggirarmi per la stanza.
Fuori è notte, o almeno così credo. In verità, guardando meglio, vedo che le imposte sono chiuse, e capisco di aver perso la cognizione del tempo. Sarà notte? O giorno? Da quante ore sono rinchiuso qui dentro? Sono ore o sono giorni? Forse mesi?
Non so: quando sono entrato in casa di Mark, avevamo sedici bustine di crack, ora ne restano solo sei. Ormai calcolo il trascorrere del tempo in base al quantitativo di droga che mi resta da fumare.
Puzzo da fare schifo e sono sporco: non mi ricordo quand’è stata l’ultima volta che ho fatto un bagno e, in tutta onestà, non me ne frega un cazzo saperlo.
Mentre aspiro un quantitativo imbarazzante di cristalli, bruciandomi come al solito i polpastrelli per l’eccessiva fretta, vedo uno specchio che riflette la mia immagine.
Ho trentaquattro anni e sembro un vecchio. La mia pelle è verdastra, molliccia, rugosa mentre i miei occhi, perennemente arrossati, lacrimano non si sa bene perché: sarà il crack o l’effetto di ciò che vedo allo specchio. Sono arrivato a pesare quaranta chili cristo santo, e giusto ieri ho praticato il settimo buco nella cintura: manovra del tutto inutile dato che i pantaloni, sporchi e laceri, continuano a cadermi.
Sono perennemente strafatto di crack, e per alleviare i tremori che l’eccessivo consumo mi provoca sono costretto a bere vodka. Un litro, due, tre. Quella che serve. Ve l’ho già detta questa cosa della vodka, forse, non so: oramai non ricordo nulla di ciò che ho detto o scritto, nemmeno cinque minuti fa.
Passo le giornate a fumare cristalli dentro pipe di vetro e a bere alcool a livelli psicotici: quando mi sento arrivato alla fine del trip, la consapevolezza della nuda disperazione che di lì a poco seguirà mi spinge a cercare qualche cristallo in mezzo alla moquette, o tra le pieghe dei divani. Uno o due tiri raccolti in questo modo mi servono per arrivare alla scadenza delle fatidiche 24 ore, quando il limite giornaliero del mio bancomat scadrà, e finalmente potrò scendere in strada a prelevare mille dollari, chiamare Mark, Rico o Happy, e rifornirmi di roba.
E poi finalmente, quando vedrò quattro pipe di vetro nuove di zecca ed otto bustine di cristallo sopra questo tavolino, non me ne importerà più nulla di aver lasciato Noah, il mio ragazzo, né di aver tagliato i ponti con la mia famiglia, né di aver mandato a puttane la mia carriera. Quando i miei polmoni saranno carichi di fumo non penserò più a niente, se non a volare via da qui, lontano, assaporando finalmente la tanto sospirata beatitudine che il crack produce.
Sarò lassù, in cielo, più in alto di tutti, finalmente libero di essere quello che sono: un tossico senza regole né speranza. Senza nessuno che mi giudichi o che mi faccia sentire di non valere un cazzo.
Un tossico libero di farsi senza ritegno.
Un tossico che, nella sua insana follia, osserva voi e la vostra supposta normalità.
Un tossico che vi scruta attentamente, con un ghigno perverso stampato in faccia, mentre avanzate in questa stanza piena di fumo, cercando di vedere oltre rispetto a quanto non possano fare i suoi occhi pesti.
Piacere, mi chiamo Bill Clegg, e voglio solo morire.
Venite con me.
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una recensione di Marco LaTerra [email protected]
4 novembre 2011
tra la recensione e il racconto… molto efficace.